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26 feb 2011




Il traffico altera l'attività cerebrale

In caso di grave affaticamento compaiono salve di attività elettrica simile ai cosiddetti fusi alfa del sonno: un algoritmo computerizzato è in grado di individuarle


MILANO - Per il cervello 20 minuti di guida nel traffico non sono molto diversi da 20 minuti passati a zappare un campo di grano. All’elettroencefalogramma si osservano infatti le stesse alterazioni di attività elettrica: onde cerebrali alfa alternate ai cosiddetti fusi del sonno. Mentre il ritmo alfa normale (onde di 8-12 Hertz, cioè in media 10 cicli al secondo con un’ampiezza di 40-50 microvolt) si registra a riposo quando si sta a occhi chiusi e completamente rilassati, in caso di grave affaticamento compaiono salve di attività elettrica simile ai cosiddetti fusi alfa del sonno. Secondo uno studio in pubblicazione su Clinical Neurophysiology e condotto dai ricercatori tedeschi delle università di Tübingen, Regensburg e Düsseldorf in collaborazione col Dipartimento di psicologia e medicina del traffico del Federal Highway Research Institute tedesco, la comparsa di questi fusi insieme a onde alfa in una persona che sta guidando rappresenta il miglior indice di affaticamento cerebrale.

ALGORITMO - I fusi alfa sono treni di onde di 12-16 Hertz che compaiono per pochi secondi prima dello stadio 2 del sonno non REM, quello medio, e indicano che il cervello ha bisogno di riposo. Se arrivano quando stiamo guidando è meglio lasciar stare il volante e prendersi una pausa. Nello studio tedesco si sono presentati sia in laboratorio con un simulatore di guida, sia con guida reale nel traffico cittadino. I ricercatori hanno messo a punto un particolare algoritmo computerizzato in grado di individuare automaticamente la comparsa dei fusi alfa anche quando un normale elettroencefalogramma non li distingue, che sarà per ora utile negli studi clinici dell’attività cerebrale e che in futuro potrebbe magari essere integrato in un microsensore cutaneo da indossare come occhiali e collegato a un allarme da tenere sul cruscotto nei lunghi viaggi per avvertire il guidatore quando è meglio fermarsi in un autogrill.



Cesare Peccarisi

25 feb 2011


Il troppo stress fa cadere i capelli? Dalla California arriva la soluzione
I ricercatori della 'University of California' hanno individuato per caso un peptide chiamato astressin-b che nelle cavie da laboratorio blocca l'azione dell'ormone dello stress e causa la ricrescita dei peli. Presto un brevetto anche per gli umani

(Ap/Lapresse)Roma, 17 febbraio 2011 - Lo stress gioca un ruolo non solo nell'arrivo dei capelli bianchi, ma anche nella perdita della chioma. Un problema diffuso, tanto che negli anni si sono moltiplicate le 'lozioni miracolose' e i trattamenti farmacologici contro la calvizie. Ma anche i prodotti efficaci non sono in grado di restituire una chioma lussureggiante.

Ora un team guidato da ricercatori dell'Università della California a Los Angeles (Usa) e della Veterans Administration, pensa di aver trovato una soluzione. Una scoperta venuta per caso.

Indagando su come lo stress influisce sulla funzione gastrointestinale, i ricercatori americani pensano di aver trovato un composto chimico che induce la crescita dei capelli, bloccando l'ormone dello stress. L'inattesa scoperta è descritta online su 'Plos One'.

"I nostri risultati dimostrano che un trattamento di breve durata con questo composto causa un'incredibile ricrescita dei peli a lungo termine in topi mutanti, cronicamente stressati", spiega Million Mulugeta,
della David Geffen School of Medicine alla UCLA.

"Questo potrebbe aprire nuove strade per curare la caduta dei capelli nell'uomo attraverso la modulazione dei recettori degli ormoni dello stress, in particolare contro la perdita di capelli legati a stress cronico e invecchiamento".

Il team di ricerca, che in origine studiava le interazioni cervello-intestino, include anche studiosi del 'Salk Institute for Biological Studies' di La Jolla, in California, e dell' 'Oregon Health Sciences University'. Per i loro esperimenti, i
ricercatori hanno usato topi geneticamente modificati per produrre in eccesso un ormone dello stress: il fattore di rilascio della corticotropina (Crf). Questi topi con l'età perdono peli e alla fine diventano calvi sulla schiena, cosa che li rende molto riconoscibili.

I ricercatori dell'Istituto Salk avevano sviluppato il composto chimico, un peptide chiamato astressin-B, descrivendo la sua capacità di bloccare l'azione del Crf. Così sono stati realizzati gli animaletti ingegnerizzati ad hoc.

Iniettando la molecola nei topi calvi, i ricercatori dell'UCLA hanno visto che una sola applicazione non dava effetti, così hanno continuato per 5 giorni, per dare al peptide una migliore possibilità di bloccare i recettori 'nel mirino'. Poi hanno rilevato gli effetti nel colon degli animali sottoposti a stress indotto, rimettendoli nelle gabbie insieme con le cavie pelose utilizzate per fare il confronto.

Circa tre mesi dopo, gli investigatori hanno ritirato fuori i topolini per condurre ulteriori studi gastrointestinali, scoprendo di non poter più distinguere gli animali geneticamente modificati da quelli normali. Il pelo era ricresciuto, folto e lucido, sulle schiene precedentemente glabre. "Quando abbiamo analizzato il numero di identificazione dei topi su cui il pelo era 'ritornato' abbiamo scoperto che, in effetti, il peptide è stato responsabile della super-ricrescita nei topi calvi", spiega Mulugeta. "Studi successivi hanno confermato questo fenomeno in modo inequivocabile".

Di particolare interesse, secondo gli autori, è la breve durata dei trattamenti: solo un'iniezione al giorno per cinque giorni consecutivi basta per mantenere gli effetti per un massimo di quattro mesi."Un tempo relativamente lungo, visto che i topi vivono meno di due anni", ha aggiunto Mulugeta. Se l'effetto si conserverà anche nell'uomo, il peptide potrebbe rappresentare una soluzione duratura contro l'incubo calvizie. UCLA e Salk Institute ci credono così tanto che hanno presentato domanda di brevetto per l'uso del peptide astressin-B per la crescita dei capelli.

Sessualità difficile: guardare troppo i siti pornografici spegne il desiderio
Secondo una ricerca italiana, accendere il pc e visitare sistematicamente i portali 'hot' "fa perdere d’interesse verso la sessualità reale che invece, per un sano sviluppo, ha bisogno di fantasia"


Roma, 24 febbraio 2011 - Accendere il pc e visitare sistematicamente siti pornografici spegne il desiderio, soprattutto nei giovanissimi. Dall’analisi del consumo in Italia dei portali dedicati al sesso emerge l’identikit di un popolo che ama spiare dal buco della serratura virtuale, a scapito della propria salute sessuale reale: a novembre 2010 sono 7,8 milioni gli italiani che fruiscono di contenuti porno, pari al 29 per cento dei navigatori totali.


Dato che confrontato con novembre 2005 registra un ragguardevole +58%: una crescita una volta e mezza più veloce dell’utenza nel suo complesso. E per i più giovani (già a 13-14 anni ci si imbatte nei primi siti a luci rosse) il rischio, già divenuto realtà in più di un caso clinico, è sviluppare una sorta di disgusto del sesso, una vera e propria "anoressia sessuale".


"Questa indagine - spiega il professor Carlo Foresta, presidente della Società italiana di andrologia e medicina sessualità, andrologo ordinario di Patologia clinica all’Università di Padova, promotore della ricerca - nasce dalla necessità di comprendere un fenomeno clinico nuovo che investe sostanzialmente i giovani sotto i 25 anni: l’anoressia sessuale. Su 50 ragazzi che si sono rivolti ai nostri ambulatori per patologie della sessualità, calo della libido e disfunzione erettile, il 70% aveva da anni la cattiva abitudine di frequentare in Internet siti pornografici molto spinti".


"La fruizione quotidiana di simili immagini - prosegue Foresta - ha rallentato la maturazione cerebrale della sessualità, svincolato il sesso dall’affettività, e fatto perdere d’interesse verso la sessualità reale che invece, per un sano sviluppo, ha bisogno di fantasia. Ed è proprio la fantasia che i siti Internet uccidono veicolando video e foto estremamente disinibiti. La sessualità in Internet è fredda, ripetitiva e questo - sottolinea Foresta - determina assuefazione e comporta poi, nella vita reale, mancanza di desiderio. Un cambiamento nell’approccio comportamentale di questi giovani ha portato significativi miglioramenti: l’abbandono completo della frequentazione dei siti porno accompagnato dalla lettura di libri che sottolineano un legame forte tra affettività, sessualità e fantasia ha contribuito in maniera importante al rafforzarsi di una sessualità sana, autentica e responsabile".


Dalla ricerca emergono alcune conferme: il target dei siti porno rimane maschile per il 70%, la fascia d’età più avvezza a cercare emozioni forti su Internet è quella tra i 24 e i 44 anni. Anche se il 10 per cento dei frequentatori del sesso online ha meno di 18 anni. Ben 1.130.000 le pagine visitate in Italia in un mese: ogni internauta "vanta" una media di 197 pagine viste nell’arco di

Fonte Agi

24 feb 2011




La frutta che farà starnutire

Pollini e cibi: sono molte le persone che «reagiscono male» ad entrambi. Con bruciore in bocca e starnuti


(Ronchi
MILANO - Tempo un mese e sarà primavera. Periodo nero per chi soffre della «sindrome orale allergica», che riguarda oltre la metà di tutti gli allergici ai cibi: un'allergia «doppia» a frutta e verdura e ad alcuni pollini che regala bruciore sulla lingua, gonfiori alle labbra starnuti, lacrime. Chi soffre di questa sindrome non può mangiare alcuni tipi di frutta e verdura (come pesche, noci o pomodori) e ha dei problemi all'aria aperta, se nelle vicinanze ci sono alberi di betulla, graminacee o composite come artemisia e ambrosia. Secondo i dati presentati, nei giorni scorsi, a Venezia, durante il Food Allergy and Anaphylaxis Meeting dell'European Academy of Allergy and Clinical Immunology, gli italiani doppiamente allergici sono circa un milione e otto milioni e mezzo gli europei.

Se sei allergico a...

LISTA DEI CIBI - «L'allergia combinata a vegetali e pollini è dovuta a una reazione "crociata": alcune proteine degli allergeni presenti negli alberi e nelle erbe allergizzanti sono infatti comuni ad alcune specie vegetali commestibili. Purtroppo la lista dei cibi che danno reazioni crociate con i pollini si sta allungando sempre di più e ora include anche diversi frutti tropicali - spiega Maria Antonella Muraro, presidente del congresso e responsabile del Centro per lo studio e la cura delle allergie e delle intolleranze alimentari dell'Università di Padova -. Il periodo peggiore per questi pazienti è la primavera, quando i sintomi delle pollinosi sono più accentuati: in chi ha la sindrome orale allergica le reazioni ai cibi di solito sono lievi, ma se si aggiungono starnuti e lacrime dovute ai pollini il disagio non è da poco». È curioso scoprire che ogni Paese europeo fa storia a sé: nei Paesi anglosassoni un allergico ai pollini su tre non tollera noci, nocciole o arachidi, nel resto d'Europa invece sono i prodotti freschi e creare parecchi problemi. Pesche e albicocche sono i frutti meno tollerati da italiani e spagnoli, i tedeschi e i francesi hanno più fastidi dalle mele, sedano e finocchi provocano allergie soprattutto agli olandesi e agli svizzeri.

DIFFERENZE - «Questa diversità dipende dall'esposizione delle varie popolazioni a pollini di tipo differenti, dalle varie abitudini alimentari e dal profilo degli allergeni in frutta e verdura di provenienza differente - chiarisce Muraro -. Nel Nord Europa, inoltre, l'allergia ai cibi è spesso secondaria a quella ai pollini e i sintomi si limitano quasi sempre a prurito o bruciore mentre si mangia il frutto; nell'Europa mediterranea invece molti si sensibilizzano direttamente a proteine della frutta a cui poi si associa o meno la pollinosi. I sintomi in alcuni casi possono essere più gravi quando si consuma il vegetale "incriminato", dal gonfiore del cavo orale si può arrivare alla difficoltà respiratoria e allo choc anafilattico». Gli studi presentati a Venezia mettono in guardia le donne: il 60 per cento delle allergie alimentari riguarda il sesso femminile. «Questo probabilmente accade perché gli estrogeni favoriscono la vulnerabilità alle malattie che coinvolgono il sistema immunitario» commenta l'allergologa.

Alice Vigna
23 febbraio 2011

22 feb 2011


LINFOMA NON – HODGKIN:PASSI AVANTI COL RITUXIMAB
Novità dal congresso della Società Americana di Ematologia

VERONA – Confortanti risultati nella cura del linfoma non – Hodgkin vengono dal congresso della Società Americana di Ematologia di Orlando. Il rituximab si sta dimostrando potenzialmente curabile nel 50-60% dei casi, una percentuale decisamente superiore a dieci anni fa. Lo steso dicasi per l’aspettativa di vita oggi ipotizzabile intorno ai dieci – quindici anni. Il dato è emerso a Verona nell’ambito del 4° meeting Educazionale promosso da Roche. Rispetto all’efficacia del trattamento con la tradizionale chemioterapia, si è riscontrato una percentuale di successi superiore di circa il 20-30%. Il prof. Umberto Vitolo, dipartimento di oncologia ed ematologia 2 all’Azienda Ospedaliera Universitaria di Torino e presidente della Fondazione Italiana Linfomi, la molecola ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una rivoluzione nello specifico settore di cura. Il futuro è proiettato dunque alla ricerca di nuove molecole, in grado di ridurre al minimo le ricadute, migliorare le terapie di mantenimento e le risposte curative attraverso una maggiore efficacia difensiva da parte degli anticorpi.
Cos’è il linfoma – tumore delle ghiandole linfatiche, strutture difensive verso gli agenti esterni e delle malattie. Non è una sola malattia,ma un gruppo con caratteristiche e storia clinica differente., I nuovi casi in Italia sono circa dodicimila l’anno. Sei su sette sono di tipo non – Hodgkin, l’altro è del tipo Hodgkin. Complessivamente è il più diffuso di tutti i tumori del sangue ed il quinto fra tutte le neoplasie ( ai primo posti,polmone, seno e colon – retto).
Tipo Hodgkin – si presenta con ingrossamento linfonodi cervicali, al torace, all’inguine. A volte,febbre alta,sudorazioni notturne,perdita di peso e prurito. Praticamente inesistente la prevenzione. Si diagnostica con un prelievo ed un esame del tessuto linfonodale e,in successione se necessari, TAC, Risonanza,linfografia.
Tipo non – Hodgkin – Colpisce anche al di fuori delle ghiandole linfatiche ( stomaco,intestino,pelle e sistema nervoso). A rischio chi sia in una condizione di carenza difensive anticorpali. Il fumo è una condizione a rischio così come la ipertensione. Si evidenzia con l’ingrossamento delle ghiandole linfatiche, ma in assenza l’identificazione è più complessa, coinvolgendo milza,fegato,midollo osseo. Anche qui, prevenzione non facile da identificarsi. La diagnosi è l’esame istologico del prelievo tissutale,dove possibile. Poi, accertamenti d’immagine se necessari.
Cure – In entrambi i casi ci si basa sulla polichemioteraopia basati sulla combinazione di più farmaci. Dove utile, la seconda fase impiega il trapianto di midollo osseo. Radioterapia nei casi localizzati. Infine, ci sono gli anticorpi monoclinali,farmaci biotecnologici creati in laboratorio e diretti contro le proteine prodotte dal tumore.

GIAN UGO BERTI
(riproduzione vietata)
Cos'è il linfoma
Il linfoma è un tumore che prende origine dalle ghiandole linfatiche, ovvero dalle cellule contenute nei tessuti (presenti in tutto il corpo) che hanno la funzione di difendere l’organismo dagli agenti esterni e dalle malattie.
Non è una singola malattia ma un gruppo eterogeneo con caratteristiche e storia clinica differenti.



LINFOMA NON HODGKIN



Quanto è diffuso

I linfomi non-Hodgkin sono un gruppo eterogeneo di tumori che possono derivare dalle ghiandole linfatiche, ma anche al di fuori di esse; nel 30 per cento dei casi, infatti, questa malattia può insorgere in organi diversi quali ad esempio stomaco, intestino, cute e sistema nervoso centrale.

I linfomi non-Hodgkin sono tumori tipici dell’età adulta: la possibilità di ammalarsi aumenta con l’età. Esistono comunque casi in età pediatrica e giovanile.

L’incidenza è in aumento in varie parti del mondo, in seguito ai progressi diagnostici e alla diffusione dell’AIDS, che è una causa importante di linfoma non-Hodgkin.


Chi è a rischio
I fattori di rischio di questa malattia non sono noti con certezza. Esistono fattori predisponenti e causali quali le immunodeficienze, le malattie autoimmuni, alcuni agenti infettivi, chimici e fisici.
L’AIDS (la sindrome da immunodeficienza acquisita, causata dal virus HIV) e le immunodeficienze congenite che sono anche causa di deficit del sistema immunitario rivestono una notevole importanza. Tra le malattie autoimmuni la tiroidite di Hashimoto e la malattia celiaca si possono talvolta associare con linfomi a partenza rispettivamente dalla tiroide o dall’intestino.
È presente talvolta un’associazione con l’infezione da virus di Epstein-Barr (il quale fa parte della famiglia degli herpesvirus) che è l’agente responsabile della mononucleosi infettiva.

Accanto al fumo di sigaretta, alcuni agenti chimici (per esempio alcune tinture per capelli o certi tipi di pesticidi e solventi), se assunti in quantità massiccia, come nel caso dell’uso professionale, sono sospettati di promuovere il processo di sviluppo del tumore.




Tipologie
In passato erano presenti numerosi sistemi di classificazione che utilizzavano criteri differenti per l’identificazione dei vari tipi di linfoma. Tutte queste classificazioni si basavano su criteri di tipo morfologico e cioè sull’aspetto che le cellule tumorali presentano quando vengono osservate al microscopio. Negli ultimi anni, con l’avvento di metodiche d’indagine più sofisticate, come la immunoistochimica e la biologia molecolare, è stata proposta la classificazione REAL (Revised European American Lymphoma) e successivamente una nuova classificazione sponsorizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In linea generale si distinguono i linfomi che derivano dai linfociti B (fino al 90 per cento dei casi) da quelli che derivano dai linfociti T; ogni categoria si divide a sua volta in numerosi sottogruppi.

In genere, più attive sono le cellule tumorali, maggiore è la loro malignità, in quanto sono in grado di moltiplicarsi più velocemente. Un altro aspetto molto importante da considerare è il tipo di alterazione provocata dalle cellule maligne nel linfonodo: se l’infiltrazione è localizzata solo in alcune zone (come nel linfoma follicolare) il tumore ha in genere un andamento più lento rispetto ai casi con infiltrazione diffusa, che indica malattia più avanzata o a evoluzione più rapida. Esistono comunque alcune eccezioni a queste regole.
Con le tecniche di biologia molecolare, infine, è possibile studiare sempre più a fondo il patrimonio genetico e le molecole espresse sulla superficie delle singole cellule, che sono anch’esse un indicatore importante di malignità.




Sintomi
Il linfoma esordisce tipicamente con un ingrossamento delle ghiandole linfatiche, localizzato per esempio in una o più stazioni linfonodali superficiali (collo, ascelle e inguine), ma in un terzo dei casi possono essere colpite le vie digerenti superiori, l’intestino, il midollo osseo, il sistema nervoso centrale o la cute. In questi casi non è possibile individuare la malattia con la semplice palpazione.
L’ingrossamento dei linfonodi è quasi sempre non doloroso.
Ci può essere diffusione dalla sede di origine ad altri linfonodi e infine alla milza, al fegato e al midollo osseo; la disseminazione delle cellule tumorali può anche avvenire nel sangue con un quadro simile a quello della leucemia.
La febbre, le sudorazioni notturne e la perdita di peso si manifestano con minor frequenza (10-15 per cento) rispetto al linfoma di Hodgkin, e rappresentano un segno indiretto di malattia in fase avanzata.

20 feb 2011





STUDIO EUROPEO

Frutta e verdura: ne servono di più

Mangiare alimenti vegetali otto volte al giorno abbassa
il rischio di morire per malattie cardiovascolari


(Ansa)
MILANO - Per proteggere il cuore non bastano più le cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura suggerite nel 2003 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ora la richiesta è salita a otto. Secondo quanto pubblicato sull'European Heart Journal chi mangia otto volte al giorno frutta e verdura ha il 22 per cento di probabilità in meno di morire per malattie di cuore e vasi rispetto a chi ne consuma solo tre porzioni nell’arco delle 24 ore.

LO STUDIO - Lo studio in questione è frutto della collaborazione tra numerosi istituti europei coordinati da Francesca Crowe, ricercatrice presso l’Università di Oxford. In particolare i ricercatori guidati dalla Crowe hanno analizzato dati provenienti dal European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC), un progetto finanziato dalla Comunità Europea che si propone di valutare le relazioni tra dieta, stili di vita, fattori ambientali e l’insorgenza di tumori e altre malattie croniche come quelle cardiovascolari. Le informazioni raccolte dal 1992 al 2000 riguardano abitudini alimentari e condizioni di salute di più di 300mila persone tra i 40 e gli 85 anni provenienti da otto Paesi europei, tra cui l’Italia. Dall’elaborazione dei dati è emerso che consumare alimenti vegetali almeno otto volte al giorno ridurrebbe di quasi un quarto la probabilità di morire per malattia coronarica. Inoltre, secondo i ricercatori, a ogni porzione in più di frutta e verdura, quantificata in 80 grammi, più o meno una piccola banana o una carota, corrisponderebbero 4 punti percentuali in meno di rischio cardiovascolare.

DIETA O ALTRO? - «Dobbiamo però essere cauti davanti a questi risultati - precisa la Crowe -. Spesso infatti chi ha un’alimentazione sana adotta anche altri salutari stili di vita che potrebbero contribuire, insieme al consumo di frutta e verdura, alla protezione cardiovascolare». D’altra parte è anche vero che chi mangia più cibi di origine vegetale riduce l’apporto calorico della dieta tenendo così lontani i chili di troppo che condurrebbero a sovrappeso e obesità, appurati nemici della salute cardiocircolatoria e non solo. «Se è vero che frutta e verdura hanno un effetto protettivo sul cuore - sostiene in un editoriale di commento allo studio Micheal Marmot, direttore dello University College di Londra -, si potrebbe produrre una pillola coi nutrienti responsabili e non preoccuparsi più della dieta. Ma esperimenti condotti somministrando vitamine antiossidanti non hanno portato a conclusioni chiare e definitive sul loro ruolo nel ridurre l’incidenza di cancro e malattie cardiovascolari». Sembrerebbe dunque che l’effetto benefico sulla salute non risieda tanto nei singoli micronutrienti quanto in qualcosa di più complesso e articolato. «Se con ulteriori studi riusciremo a scoprire i meccanismi biologici che stanno alla base della relazione tra frutta e verdura e malattie coronariche - conclude la Crowe - saremo in grado di stabilire se in questo legame c’è un vero rapporto di causalità».

L’ALIMENTAZIONE IN ITALIA - Indipendentemente dalle spiegazioni scientifiche il messaggio però appare chiaro: più si mangia sano, con più frutta e verdura, e meglio è. L’Italia a questo proposito sembra essere sulla buona strada. Tra tutti i Paesi coinvolti nell’indagine, è infatti l’unico, insieme alla Spagna, in cui si superano in media le sei porzioni di vegetali nell’arco della giornata. In parte ciò è dovuto alla grande varietà di frutta e ortaggi e alla tradizione culinaria di cui sono dotati i Paesi mediterranei come appunto l’Italia. Non a caso infatti sono proprio gli stati dell’Europa del Nord, meno dotati sotto il profilo della varietà alimentare, a consumare meno frutta e verdura. Le porzioni di vegetali consumate giornalmente da un inglese sono in media 4,5, mentre uno svedese non arriva neppure alle 4. Sul totale del campione europeo considerato dalla Crowe, però, solo una persona su 5 arriva alla meta delle caldeggiate otto porzioni. In Italia in realtà le linee guida dell’INRAN, l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, suggeriscono, per mantenersi in buona salute, di consumare frutta e verdura circa cinque volte al giorno. Nel Bel Paese però si abbonda con le quantità, non più gli striminziti 80 grammi citati nell’EPIC, ma bensì i 250 e 150 grammi, rispettivamente per verdura e frutta, definiti dall’INRAN come singola porzione.



Cristina Gaviraghi
17 febbraio 2011

19 feb 2011


Pessimisti si nasce, non si diventa "E' tutta colpa di una molecola"
A rivelarlo è una ricerca dell'Università del Michigan pubblicato sulla rivista 'Archives of General Psychiatry'. Sarebbe la presenza di una sostanza chiamata, NPY, a mostrare il bicchiere sempre mezzo vuoto

)Washington, 8 febbraio 2011 - Pessimisti si nasce, non si diventa: alcune persone sono geneticamente programmate per essere negative. Uno studio dell'Università del Michigan, pubblicato sulla rivista 'Archives of General Psychiatry', ha trovato elevate quantità di una sostanza chimica nel cervello delle persone pessimiste che sembra influire sulla visione che hanno del mondo.

I ricercatori hanno scoperto che i livelli della molecola chiamata 'neuropeptide Y' (NPY) definiscono direttamente se vediamo un 'bicchiere mezzo vuoto' o un 'bicchiere mezzo pieno'. Quelli con i più bassi livelli della sostanza sono molto più negativi e hanno maggiori difficoltà a far fronte a situazioni stressanti.

Sono inoltre più suscettibili alla depressione. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno sottoposto un gruppo di persone a una risonanza magnetica funzionale, scansionando l'attività di un certo numero di volontari mentre visualizzavano su uno schermo delle parole neutre (come 'materiale'), parole cariche negativamente (come 'assassino') e parole cariche positivamente (come 'pieno di speranza').

In risposta alle parole negative, i soggetti con bassi livelli di NPY hanno mostrato una forte attività della corteccia prefrontale, coinvolta con il processamento delle emozioni. Mentre i soggetti con un livello più alto di NPY hanno dimostrato una risposta più contenuta.

In un secondo test, i soggetti hanno comunicato le loro esperienze emotive nel corso di una sfida stressante. I ricercatori hanno iniettato nel muscolo della mandibola una dose di soluzione salina in modo da produrre un moderato dolore per 20 minuti senza provocare un danno durevole.

I livelli di dolore percepiti da ogni persona sono stati misurati su una scala da uno a 10. I ricercatori hanno valutato la positività e la negatività dei soggetti prima e dopo la sfida del dolore. Ebbene, le persone con un basso livello di NYP sono stati più negativi prima e dopo il test, nel senso che sono stati emotivamente più colpiti. Infine, i ricercatori hanno confrontato la quantità di NYP con i disturbi depressivi per vedere se
ci fosse un'associazione.

Ed è stato proprio così: i soggetti con poco NYP erano più propensi a soffrire di depressione. "Speriamo che questo studio - ha sottolineato Brian Mickey, psichiatra e coordinatore della ricerca - ci possa guidare verso la valutazione del rischio individuale per lo sviluppo di depressione e ansia"

Fonte Agi

18 feb 2011


Farmaci: Mdc, falsi dimagranti online aprono strada ad anoressia in giovani
Roma, 17 feb. (Adnkronos Salute) 18:19
Farmaci venduti online e magari contraffatti?

"Un pericolo soprattutto per i minori, che tramite internet riescono ad acquistare sostanze anoressizzanti e dopanti", che aprono la strada a malattie come l'anoressia e la bulimia. E' quanto sostiene in una nota Lucia Moreschi, Responsabile nazionale del Dipartimento Junior del Movimento difesa del cittadino, a fronte dei recenti sequestri di medicinali falsi venduti anche on line, effettuati dai Nas. "Un fenomeno sommerso venuto alla luce - dice Moreschi - che espone a gravi rischi per la salute anche i minori. E il rischio può essere quello di incentivare patologie gravi come l'anoressia e la bulimia. L'acquisto in rete con ordinazioni on line e anonimato rendono infatti accessibili anche ai consumatori più giovani sostanze, apparentemente innocue, che possono causare gravi danni all'organismo". Mdc Junior ricorda che secondo i dati del Primo monitoraggio sui disturbi alimentari online in Italia condotto da Eurispes, ogni anno si contano in Italia 3.500 nuovi casi di anoressia e 6.000 di bulimia. Con una media, secondo i dati del ministero della Salute, di 6 nuovi casi ogni 100mila abitanti. A essere interessati dal fenomeno sono soprattutto i giovani tra i 12 e i 25 anni e a preoccupare maggiormente è l'incremento dell'incidenza della bulimia: mentre l'anoressia negli ultimi anni si è attestata su 4-8 nuovi casi l'anno su 100mila abitanti, non è così per la bulimia, per la quale si registrano attualmente 9-12 casi. "Anche a fronte di questi dati è utile sottolineare la facilità di acquisto online anche da parte dei giovani – sottolinea la responsabile di Mdc Junior - che tramite internet riescono ad acquistare sostanze anoressizzanti e farmaci dopanti". Che fare quindi? "Un plauso va sicuramente alla nuova legge europea finalizzata a contrastare l'ingresso di farmaci contraffatti nella filiera farmaceutica legale. Ma accanto a nuovi dispositivi di sicurezza e misure di tracciabilità, è necessario prevedere forme di tutela che impediscano

16 feb 2011


Usi terapeutici della Cannabis
di Marcello Pamio

Non dovevo occuparmene più!
Dopo aver scritto Cannabis connection, mi ero promesso di regalare alla pianta più boicottata dell’umanità un meritato e doveroso riposo. Invece…parlando con diverse persone ho potuto constatare quanto sia ancora radicata la disinformazione sulla canapa. Una disinformazione medica che mi ha costretto a riprendere in mano la questione e trattare una volta per tutte l’aspetto forse più importante della pianta: quello terapeutico.
A tal proposito esiste una documentazione faraonica: libri, articoli, antichissimi erbari, ricerche e pubblicazioni scientifiche, esperienze di volontari, ecc. Tutto testimonia a favore della cannabis nella cura di patologie che vanno dai dolori muscolo-scheletrici, al glaucoma, dall’anoressia e depressione a malattie tremende come epilessia e sclerosi multipla, per non parlare del validissimo aiuto nell’alleviamento degli effetti secondari dei trattamenti chemioterapici nel cancro, come nausea e vomito, e negli stati debilitanti della Sindrome da Immunodeficienza (AIDS).
I risultati sono così entusiasmanti che oggi sperimentazioni mediche controllate sono iniziate in Stati Uniti, Germania, Spagna, Inghilterra, Belgio, Israele, Olanda e Canada. In quest’ultimo paese addirittura, l’Associazione Medica che riunisce tutti i 52 mila medici canadesi vorrebbe rimuovere dal codice penale l’uso personale della cannabis e sostituirlo con una semplice ammenda[1]. Cosa dire poi del recentissimo studio sull’abuso della droga da parte di una Commissione governativa inglese la cui conclusione è a dir poco incredibile: “Lo spinello dà meno assuefazione delle sigarette e dell’alcol[2]”. Non solo, il gruppo di esperti incaricati dal Ministro dell’Interno britannico per valutare i pro e i contro di un alleggerimento della legge sulle sostanze illecite, sostiene che la cannabis potrebbe addirittura fare bene alla salute: “l’azione cardiovascolare – spiega il rapporto – è simile agli effetti dell’esercizio fisico”.
Ma cosa sta succedendo? Una delle piante più antiche viene prima messa al bando rendendola illegale per decine di anni - paragonata ad una droga tossica e pericolosa per la salute - per poi saltare agli onori delle cronache vivendo oggi un periodo di quasi religiosa redenzione.
Una redenzione ostacolata da pochi e osannata da molti per via delle altre numerose applicazioni pratiche da guinness dei primati. Dalla canapa infatti oltre a medicinali che funzionano, e questo basterebbe, si possono ottenere: carta indistruttibile, materiale tipo plastica, coloranti, solventi, tessuti resistentissimi, cordame e molto altro ancora. Per questo, molto probabilmente, è stata oggetto della più grande opera di boicottaggio mai realizzata nella storia a noi conosciuta. Una fitocospirazione da fantascienza, che se non lo avete ancora letto vi consiglio di farlo al più presto (Cannabis connection)
Questo recente riconoscimento è la presa di coscienza di un errore passato di proibizionismo gratuito - anche se di gratuito non ha proprio nulla - o la riabilitazione obbligatoria per via di un numero sempre maggiore di utilizzatori e di prove della sua efficacia, almeno in termini medici? La cosa certa è che oggi chi giova di tutto questo, tranne pochissime persone autorizzate dai rispettivi governi a fumarsi la “piantina”, sono le corporazioni chimico-farmaceutiche che approfittando della situazione stanno commercializzando prodotti di sintesi, i cosiddetti analoghi, che emulano il principio attivo della cannabis: il THC. Una emulazione che vedremo in seguito presenta qualche piccolo inconveniente.
Prima però osserviamo a livello fisiologico come agiscono questi cannabinoidi “colpevoli” degli eccezionali risultati terapeutici.
Il THC, come abbiamo detto è il principio attivo della cannabis, cioè quello che agisce direttamente sull’organismo. Per essere più precisi interagisce con un sistema detto cannabinoide[3] normalmente presente nel corpo umano, e produce i suoi effetti agendo sui recettori del sistema. I recettori sono delle proteine molto speciali che si trovano sulle superfici di determinate cellule. La droga, in soldoni, forma una specie di ponte, un legame con queste proteine e per così dire attiva delle funzioni cellulari interne molto precise. Sono stati identificati due tipi di recettore: il CB1 e il CB2.
I CB1 sono presenti sui neurociti encefalici e spinali come in certi tessuti periferici; i CB2 si trovano principalmente sulle cellule del sistema immunitario ma non nel cervello[4].
Questo è molto interessante: abbiamo recettori della cannabis sul cervello e addirittura nel sistema immunitario[5].
Per dover di cronaca è doveroso anche sottolineare che non esiste solo il THC, questo indubbiamente è il più famoso e il più presente nella pianta, ma esistono oltre 60 cannabinoidi diversi l’uno dall’altro. Al momento attuale non si sa molto sulle proprietà di questi cannabinoidi se non che sembrano essere privi di effetti psicoattivi e/o psicotropi sul cervello. Quindi l’ipotesi che anch’essi influenzino positivamente gli effetti terapeutici della cannabis senza però interferire sul comportamento umano non è da scartare.
In definitiva questi cannabinoidi di origine naturale interagiscono con parecchie funzioni organiche e sono in grado tra le altre cose di bloccare la liberazione dell’acido glutammico, il principale neurotrasmettitore implicato nella patogenesi dell’ictus[6]; liberare dopamina, un altro importantissimo neurotrasmettitore collegato alla capacità di controllare i movimenti, e tanti altri aspetti più sottili che sono in fase avanzata di studio. A proposito di studi: prima ho accennato alle numerose sperimentazioni che si stanno facendo in tutto il mondo. Bene. Le sperimentazioni per chi non lo sapesse sono sempre costosissime, e nessun istituto di ricerca si sognerebbe di spendere soldi senza la certezza matematica di un notevole tornaconto. Un tornaconto che si materializza molto spesso in un farmaco o una terapia. Nel caso della cannabis abbiamo, per il momento, due tornaconti sintetici: Dronabinolo e Nabilone. Ce ne sarebbero altri, come il Levonantradolo, l’HU-210, il SR141716A, ecc. ma per il momento sono disponibili solo per usi sperimentali. Per il momento però. Domani…è un altro giorno.
Il Dronabinolo, il cui nome commerciale è Marinol® è prodotto dalla Unimed Pharmaceuticals Inc., una compagnia della Solvay Pharmaceuticals Corporation. Il Nabilone detto anche Cesamet® è prodotto in Inghilterra dalla Cambridge Selfcare Diagnostics Ltd per conto della Eli Lilly & Corporation, quella del Prozac® per intendersi.[7]
Naturalmente a questo punto era d’obbligo spulciare i foglietti illustrativi di questi farmaci. Cosa secondo voi abbiamo trovato? Siamo sempre alle solite: svariati effetti collaterali! Fin qui nulla di strano, visto che non esistono medicinali di sintesi privi di controindicazioni. Però se vi dicessi che le reazioni avverse sono le stesse curate però dalla pianta naturale, come anoressia, depressione, astenia[8], la cosa non assume una aspetto tragicomico? Se uso per esempio la “cannabis sintesis” per aiutare un’astenia potrei vedere insorgere una depressione accompagnata pure da vertigini. Oppure, che ne so, per alleviare nausea e vomito provoco palpitazioni e/o ansietà. Interessante vero? Si cura da una parte e si pagano le conseguenze dall’altra! L’onnipresente rovescio della medaglia. Sicuramente il dritto sarà un basso costo di vendita al pubblico, giusto? Sbagliato. Una ventina di capsule di Cesamet® per esempio, costano 102 sterline circa[9]! E il Marinol è ancora più costoso[10]. Avete capito? Una singola pastiglia, per capirci, costa oltre 15mila di vecchie lire! Più che un dritto, mi sembra un altro rovescio! Il problema è che nessuno sta giocando a tennis, qui abbiamo a che fare con la vita e la salute, già precarie, di tantissime persone sofferenti.
Allo stato attuale quindi, abbiamo da una parte una pianta illegale a gratis che si potrebbe coltivare quasi ad ogni latitudine senza necessità di pesticidi e con un tempo di maturazione rapidissimo di pochi mesi, dall’altra dei prodotti sintetici che costano molto, richiedono diversi anni di studi e presentano inconvenienti secondari da non sottovalutare.
Cosa fare a questo punto? Legalizzare la pianta proibita per antonomasia, catalogata fin dagli anni ’60 nel campo delle “droghe senza alcun effetto terapeutico”[11], oppure continuare a non vederne i risultati in ambito terapeutico puntando esclusivamente nella chimica di sintesi? Secondo voi cosa opteranno i governi democratici dell’unione europea indirizzati magari dalle potenti corporazioni transnazionali della chimica e della farmaceutica? Una vaga idea io ce l’ho, non so voi…
Nessuno certamente vorrebbe una società in cui persone sane si spacciano per malati immaginari inventandosi patologie o peggio ancora falsificando esami per farsi prescrivere dal proprio medico una sigarettina farcita, o peggio ancora vedere malati che soffrono realmente di gravose patologie debilitanti che non possono utilizzare i derivati della cannabis se non da degenti ospedalieri, come sta succedendo oggi nel nostro paese. La farmacia del Policlinico Umberto I per esempio, ma questo è valido per tutti gli ospedali, può somministrare il farmaco derivato dal THC solo dopo il ricovero[12]. Non è questa una burocratica assurdità all’italiana? Una persona in grado tranquillamente di seguire la terapia nella comodità del focolare domestico, magari con la vicinanza dei propri cari, si vede costretta a entrare nell’ambiente asettico e freddo di un nosocomio.
Speriamo allora che passi il recente Disegno di Legge che introdurrebbe l’uso terapeutico della cannabis. Questo almeno permetterebbe di trovare i fitofarmaci sintetici direttamente in farmacia, previa naturalmente ricetta di un medico del servizio sanitario.
Nell’attesa di questo Disegno concludiamo con una comparazione dal punto di vista pratico e farmacologico tra la pillola sintetica e la sempreverde pianta plurimillennaria.
Apro una parentesi doverosa perché i fattori influenzanti nel caso della cannabis naturale sono numerosissimi: stati d’animo della persona, quanto e come il fumo viene aspirato, quanta cannabis contiene la sigaretta, quanto THC è presente nella pianta, dal tipo di pianta, ecc.
Chiudiamo la parentesi e prepariamoci ad entrare in campo.
Il fumo di una sigaretta di cannabis rilascia in circolo oltre il 30% del THC totale, mentre per via orale, la pillola, è di 2 o 3 volte inferiore perché dopo essere stata assorbita attraverso l’intestino viene metabolizzata dal fegato prima di raggiungere il grande circolo[13].
Uno a zero per la cannabis e palla al centro. Per essere onesti ci sarebbe una punizione per la chimica se consideriamo le supposte rettali che bypassando il fegato permettono un maggior assorbimento del THC in circolo.
Una volta entrato nel torrente circolatorio il THC si distribuisce in tutto il corpo principalmente nel tessuto adiposo perché essendo liposolubile si scioglie solo nel grasso. Questa proprietà intrinseca della cannabis è un grosso limite per la formulazione dei preparati cannabinoidi, oltre a rallentare il loro assorbimento intestinale[14].
Due a zero e di nuovo palla al centro.
Per quanto riguarda gli effetti farmacologici della cannabis documentati finora sono relativi alle vie respiratorie. Uno studio del Western Journal of Medicine del 9 giugno 1993[15] afferma che chi fuma cannabis rischia malattie alle vie respiratorie per il 19% in più di chi non fuma, e che nessuna dipendenza e/o assuefazione fisica è stata dimostrata se non una sporadica dipendenza psicologica in alcuni soggetti. Dall’altra abbiamo gli effetti secondari del Marinol® e del Cesamet® visti prima.
Diamo un punto alla sintesi chimica perché non tutte le persone sarebbero disposte a utilizzare la pianta attraverso la sigaretta. Se però consideriamo che dei sessanta cannabinoidi naturali contenuti nella canapa, i prodotti farmacologici attualmente in commercio sono basati quasi esclusivamente nel Tetraidrocannabinolo (THC), l’unico con effetti psicotropi, tralasciando gli altri cinquantanove privi di attività sul cervello, è lecito pensare che al momento attuale la pianta potrebbe essere almeno sessanta volte più completa di qualsivoglia prodotto uscito da un laboratorio di ricerca. Calcolando infine i costi rispettivi decisamente incomparabili il risultato finale è di quattro a uno per la cannabis! Avrete capito che questa è una gara surreale perché se avvenisse realmente l’arbrito, rappresentato dalle lobby del farmaco, fischierebbe almeno due o tre rigori per la chimica espellendo magari qualche cannabinoide per “intervento” troppo deciso. Non ci resta che sperare quindi in una invasione di campo che metta fine una volta per tutte a questa assurda e controproducente rivalità. Un “invasione pacifica” da parte di una maggiore consapevolezza che dia, anzi ri-dia, al malato il suo ruolo principale di essere vivente e che santifichi una volta per tutte uno dei diritti più importanti: quello della libera scelta terapeutica. Una scelta che spetta esclusivamente ai singoli individui e non alle organizzazioni sanitarie, tanto meno alle corporazioni; perché…una volta imboccata la strada terapeutica siamo noi a pagarne le conseguenze e/o goderne i benefici. Nessun altro!

Marcello Pamio

Toscana, cannabinoidi contro dolore
Prima legge in Italia, somministrati solo se farmaci inefficaci
13 febbraio, 20:07

(ANSA) - FIRENZE, 13 FEB - In Toscana la cura del dolore con i cannabinoidi e il loro utilizzo nel fine vita saranno regolati da una legge e sara' la prima in Italia. All'iniziativa sta lavorando il consigliere regionale del Pd Enzo Brogi che punta a far approvare la legge a maggio. L'uso di questi farmaci, che saranno interamente rimborsati, sara' previsto in strutture sanitare, l'estensione ai pazienti a casa avverra' sotto stretto controllo medico. Saranno utilizzati solo in caso di inefficacia di altri farmaci.

14 feb 2011




Katya, il cane che "fiuta" l'epilessia

Riesce a prevedere gli attacchi della padrona con molti minuti di anticipo, permettendole di mettersi al sicuro

MILANO - Fra gli animali utili alla pet therapy, il cane occupa senz’altro un posto d’onore. «Particolarmente adatti sono i cani da caccia, come per esempio i labrador o i setter, perché facili da addestrare e abituati a lavorare con l’uomo - spiega Francesca Cirulli, dell’Istituto superiore di sanità -. Queste razze, poi, sono anche quelle che incontrano di più le simpatie dei pazienti». All’origine c’è senz’altro la naturale disponibilità del cane nei confronti del suo amico bipede, ma anche una sensibilità che la scienza non riesce sempre a spiegare.

EPILESSIA - Singolare, per esempio, è il caso di Abigayle Williams, una ragazzina statunitense con una grave forma di epilessia, alla quale qualche anno fa è stato affiancato un cane capace di aiutarla nei momenti più difficili. I cani per l’epilessia sanno riconoscere gli attacchi e proteggono i loro amici umani evitando loro rovinose cadute o anche chiamando i soccorsi. Ma Katya, il pastore tedesco di Abigayle, fa molto di più: riesce infatti a prevedere gli attacchi epilettici con molti minuti di anticipo, permettendo alla ragazzina di mettersi al sicuro (GUARDA IL VIDEO). «Non si capisce come faccia - dice Cirulli -. Di certo però questo caso dimostra che gli animali sanno instaurare con l’uomo relazioni molto speciali e profonde, e che hanno sensibilità particolari. I cani, per esempio, possono essere addestrati a percepire i cali di glicemia nei pazienti diabetici». Ed è delle scorse settimane la notizia che il fiuto canino, opportunamente addestrato, è capace anche di diagnosticare il tumore alla prostata dalle urine dei malati, e quello dell’intestino dalle feci oppure dall’alito.



M.F.
13 febbraio 2011


EDEMA MACULARE DIABETICO: COLPITI 60 MILA ITALIANI
Complicanzione del diabete,si può riconoscere con la perdita della visione centrale. Meglio è fare controlli costanti. Il ranibizumab approvato dalla Commissione Europea

MILANO – Sono circa 60 mila i diabetici che,in Italia,soffrono di una particolare complicazione della malattia,l’edema, cioè il gonfiore,maculare (nella parte centrale della retina,la membrana nervosa dell’occhio),in pratica il 2%. Può colpire sia gli insulino – dipendenti, sia gli altri. In pratica,due diebetici su tre, dopo vent’anni di malattia, vanno incontro a questa evenienza.
Sintomi – E’ la visione centrale che viene a calare progressivamente, le immagini si fanno sfocate e distorte. E’ quindi problematico leggere un libro guardare la televisione, guidare l’automobile. I disturbi si manifestano, solitamente, nella fase più avanzata, una situazione che rischia di poter intervenire troppo tardi quando la capacità visiva è ormai compromessa. Non è comunque da escludere il ruolo di un controllo non corretto della condizione diabetica, dunque s’impone il necessario impegno a mantenere valido il supporto terapeutico.
Altre cause – Alcool,fumo,pressione alta, elevata concentrazione di colesterolo e trigliceridi nel sangue,presenza di proteine nelle urine e la nefropatia diabetica.
Come avviene la diagnosi – Indispensabili sono l’esame del fondo oculare, la fluorangiografia e l’OCT (tomografia a coerenza ottica). La seconda evidenzia l’estensione dell’edema,attraverso l’iniezione endovenosa di un colorante. La visione dei vasi sanguigni consente il rilevamento di eventuali punti di rottura on fuoriuscita di siero sanguigno nei tessuti. Il terzo calcola lo spessore maculare, assieme all’individuazione degli spazi entro cui s’accumula il liquido. E’ una tecnica non invasiva. Ma una valutazione empirica, quanto valida è chiudere un occhio. Sarà più facile per sapere se qualcosa non va nell’altro. Secondo test: osservare un foglio a quadretti. Se l’immagine centrale è distorta e sfocata, necessario è parlarne col medico.
Terapia – La sua efficacia è strettamente correlata alla tempestività della diagnosi. Si conferma la necessità di controlli specialistici costanti. Tre sono i tipi di cura.
Laser - Il laser focale od a griglia,terapia di riferimento,è in grado di provocare una bruciatura del tessuto con cicatrizzazione dei microaneurismi e riduzione della trasudazione. Non rigenera dunque la retina,né ridà la vista perduta,ma blocca la progressione della malattia.
Chirurgia – Una scelta che viene attuata nei casi più gravi e consiste nella rimozione del vitreo(vitrectomia)
Terapia con anti – VEGF – La Commissione Europea ha recentemente approvato l’uso specifico del ranibizumab, un anticorpo monoclonale, che agisce bloccando il fattore di crescita vascolare endoteliale VEGF-A, una classe di proteine responsabili dell’aumento della permeabilità vascolare, causa dell’edema. La molecola è già in uso per la forma di degenerazione maculare legata all’età, con validi riscontri. In Italia il ranibizumab è rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale per le persone con degenerazione maculare legata all’età neovascolare attiva ed acuità visiva con la migliore correzione uguale o superiore ai 2/10.
Di questo, se ne è parlato a Milano ad un incontro promosso da Novartis, cui hanno partecipato i proff.Paolo Lanzetta, dell’Università di Udine,Stefano Piermarocchi, dell’ateneo di Padova, Monica Varano della Fondazione “Bietti”, Maria Lucia Specchia, dell’ Università romana del “Sacro Cuore” ed il presidente dell’Agenzia Italiana per la Prevenzione della Cecità, Giuseppe Castronovo. In Italia ci sono oggi un milione e mezzo di ipovedenti e 362mila non vedenti.

GIAN UGO BERTI

(riproduzione vietata)

11 feb 2011




Alle uova è sceso il colesterolo

Ne hanno il 14 per cento in meno rispetto a quelle di
un decennio fa. E il 64 per cento di vitamina D in più


(Reuters)
MILANO - Meno colesterolo e più vitamina D: l’uovo dei nostri tempi, secondo uno studio americano, è molto più sano che in passato. Tanto che qualcuno prova a sfornare il proverbio "eating one egg a day is ok" (mangiare un uovo al giorno va bene), sulla falsa riga della mela al giorno che toglie il medico di torno. Ma i nutrizionisti non sono d’accordo.

LO STUDIO - La ricerca è stata condotta dall’Agricultural Research Service del Dipartimento di Agricoltura americano, che ha rilevato come rispetto agli ultimi esami del contenuto nutritivo dell’uovo, datati 2002, questo prodotto abbia oggi una quantità inferiore di colesterolo nella misura del 14 per cento. Inoltre è emerso che le uova contengono il 64 per cento in più di vitamina D (deputata alla regolazione di calcio e fosforo nell’organismo) rispetto a quanto si era creduto finora. I ricercatori hanno analizzato le uova provenienti da 12 differenti allevamenti sparsi per il Paese, riscontrando un miglioramento del prodotto in circolazione che dipende, probabilmente, da una maggior attenzione nell’alimentazione dei polli e da altri fattori. In particolare un uovo americano medio nel 2011 ha un contenuto di colesterolo di 185 milligrammi, a fronte del limite di 300 milligrammi consigliato dalle linee guida dei dietologi e della soglia dei 200 milligrammi giornalieri che non dovrebbe oltrepassare chi ha una propensione alle malattie cardiovascolari.

UN UOVO AL GIORNO? - Alla luce della recente ricerca ha dunque senso mangiare un uovo al giorno? Nonostante le dichiarazioni del direttore esecutivo dell’Egg Nutrition Center americano, Mitch Kanter, che ne consiglia un quotidiano consumo, appare intuitivo che il vecchio luogo comune che suggerisce di limitare l’utilizzo di questo alimento ha sempre un fondamento. È vero infatti che un uovo ha una quantità di colesterolo abbondantemente al di sotto dei limiti, ma è vero anche che con un tuorlo una persona si gioca quasi i due terzi della dote giornaliera di colesterolo a propria disposizione.

IL PARERE DELL’ESPERTO - Abbiamo sentito a questo proposito il parere di Andrea Ghiselli, ricercatore dell’Inran (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) che cura il forum del Corriere.it dedicato alla nutrizione: «Se un individuo sceglie le uova sottraendo al proprio regime dietetico la carne può essere una scelta giusta, ma nell’equilibrio dietetico non può essere consigliato un quotidiano consumo di uova a scapito di pesce e legumi». Come spiega il dottor Ghiselli, «gli alimenti vanno sempre visti da due punti di vista: quello che apportano e quello che spostano. E se le uova hanno un apporto di colesterolo tollerabile è altrettanto vero che non possono sostituire altri cibi essenziali».

LA VITAMINA D - E che significato ha quel 64 per cento in più di vitamina D che possono vantare le uova made in Usa e che gli allevatori dichiarano di voler ulteriormente aumentare? «Di per sé non ha un ruolo così importante - sottolinea Ghiselli -, poiché la vitamina D dal punto di vista nutrizionale e delle carenze non è la più significativa e soprattutto in Paesi a una certa latitudine le persone possono provvedere al fabbisogno di questa vitamina spontaneamente, attraverso una moderata esposizione al sole». Vero è però che stanno emergendo alcune proprietà extravitaminiche di questa sostanza, che potrebbero rivestire un compito cruciale nella prevenzione di patologie arteriosclerotiche e tumorali. A questo proposito la questione è ancora aperta e il buon senso sembra continuare a suggerire un consumo moderato di uova, nonostante quel 14 per cento in meno di colesterolo. A meno che non si decida di rinunciare al tuorlo.



Emanuela Di Pasqua


AFFINITÀ LINGUISTICHE

La coppia durerà? Dipende da come parli

Studio dell'università del Texas: uno stile di linguaggio simile predice una buona relazione fra due persone


(Emblema)
MILANO - Chi si somiglia si piglia, dice il proverbio. Ebbene, pare che una coppia che funzioni debba assomigliarsi soprattutto nel modo in cui i due partner parlano e scelgono le parole: se il linguaggio è simile, è molto probabile che la relazione abbia un futuro, secondo gli studi di un gruppo di ricercatori dell'università del Texas pubblicati su Psychological Science.

STILE - La compatibilità di coppia, stando ai risultati, non dipende solo dall'avere valori comuni o personalità simili: pure il modo di parlare conta. Nello specifico lo stile di linguaggio, ovvero come utilizziamo le cosiddette "parole-funzione": non sono i nomi o i verbi, ma tutte le parole che impieghiamo per correlarli come le congiunzioni, gli articoli, i pronomi (un, il, qualcosa, suo e così via). «Le parole funzionali sono "sociali", perché sono quelle che più imprimono lo stile ai nostri scritti o alle nostre conversazioni; quindi, usarle richiede abilità sociali - spiega James Pennebaker, il coordinatore della ricerca -. Per esempio, se parlo con un interlocutore dell'articolo che sta per essere pubblicato e dopo qualche minuto faccio riferimento a "l'articolo", utilizzando l'articolo determinativo, io e lui capiremo di che cosa si tratta, un terzo che non fosse stato parte della nostra conversazione non comprenderebbe ciò di cui si parla». Nel suo studio Pennebaker si è concentrato sul modo di usare le parole funzionali di una serie di volontari, tutti studenti del college.

TEST - Il primo test consisteva in uno "speed-date" fra coppie di studenti: si tratta di un modo per conoscere velocemente un bel po' di aspiranti partner e diversi locali ne organizzano, senza propositi scientifici come in questo caso. In pratica, un ragazzo e una ragazza sconosciuti si parlano per qualche minuto (nel test degli psicologi quattro minuti) e, se fra loro scatta una "scintilla", possono decidere di rivedersi. L'occhiuto Pennebaker intanto registrava ogni incontro, ogni dialogo (che tra l'altro, nota lo psicologo, ricalcava sempre le stesse domande: da dove vieni, ti piace il college e via elencando). Ognuna di quelle conversazioni a un orecchio inesperto sarebbe parsa assolutamente identica alle altre; Pennebaker però le ha fatte analizzare al computer, tramite un programma da lui messo a punto per trovare le "sincronie" del linguaggio, ovvero le similarità nell'uso delle parole funzionali. Ebbene, i ragazzi che avevano un "punteggio di analogia del linguaggio" superiore alla media decidevano di incontrarsi di nuovo 4 volte più spesso rispetto a chi non parlava con stili linguistici simili. Risultato simile a quello di un secondo test, fatto analizzando i dialoghi nelle chat su internet: le coppie con linguaggi simili si frequentavano ancora dopo tre mesi dall'analisi nell'80 per cento dei casi, quelle meno "compatibili" verbalmente solo in un caso su due.

COMPUTER - «Ciò che diciamo gli uni agli altri è importante, ma lo è anche il modo in cui lo diciamo - osserva Pennebaker -. Non possiamo decidere razionalmente il nostro stile di linguaggio: viene fuori così, è "nostro". Ed è un ottimo "rilevatore" del nostro grado di compatibilità con il prossimo». Chiunque può fare il test di compatibilità linguistica messo a punto dallo psicologo americano: sul sito www.utpsyc.org/synch si può sottoporre un dialogo fra due persone e il programma computerizzato di Pennebaker dirà il punteggio di analogia del linguaggio (più alto è, maggiore è l'affinità nella coppia). Non è necessario che si tratti di una coppia amorosa, il test può essere fatto per capire il nostro grado di compatibilità con chiunque: basta copiare messaggi email che ci si è scambiati, messaggi di chat o anche testi diversi, purché contengano almeno 50 parole e siano simili come tipologia (non ha molto senso confrontare un sms con una lettera d'amore, per dire). Poi si inserisce qualche informazione in più: il tipo di testo inserito, la natura della relazione fra le due persone (sconosciuti, partner, amici, colleghi), la loro età. A questo punto pensa a tutto il computer, che in pochi secondi dà il suo verdetto; l'unico guaio, per il momento, è che il test "funziona" bene se i testi sono scritti in inglese. E quando arriva il risultato, in ogni caso, c'è scritto a chiare lettere: «Si tratta di un test sperimentale: non prendere troppo sul serio i risultati di questo test». Come dire, non piangete lacrime amare se lo stile linguistico del partner non è simile al vostro: non è detto che solo per questo la coppia scoppi.



Elena Meli

10 feb 2011


Questioni d'amore INDAGINE DELLA Società italiana di ginecologia e ostetricia

Alcol e internet sono nemici del sesso

Il 29% dei maschi e il 35% delle femmine giudica insoddisfacente la propria vita di coppia tra le lenzuola



MILANO - Lui, lei e il computer (o lo smartphone). Nell'Italia che va di fretta il terzo incomodo è la tecnologia, padrona anche in camera da letto. Circa 3 uomini su 10 (28%) trascorrono tutte le serate tra mouse e tastiera, mentre quasi una donna su 2 (43%) non si separa dal telefonino nemmeno sotto le lenzuola. Ma nella "tecno-alcova" la passione sta stretta e la coppia rischia di scoppiare: con pc e cellulari accesi a oltranza la frequenza dei rapporti sessuali cala, fino al 70% in meno. Sono i risultati di un sondaggio promosso dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) per il progetto "Scegli tu", su seicento under 35. L'obiettivo dell'iniziativa, che ha coinvolto anche la Società italiana di andrologia (Sia), è mettere in guardia i giovani sui dieci nemici della sessualità. Oltre alla tecnologia anche l'alcol, il fumo, la droga, l'obesità, la mancanza di sonno, lo stress, la sedentarietà, il dolore e le malattie sessualmente trasmissibili. Risultato: il 29% dei maschi e il 35% delle femmine giudica insoddisfacente la propria vita sessuale.

ALCOL E CIBO SPAZZATURA - Ma tra le cattive abitudini che deprimono la libido la "tecnomania" la fa da padrone: se infatti si considera anche chi ammette di usare il computer di sera «ogni tanto» (67% dei maschi e 66% delle femmine), la quota dei nottambuli del pc arriva a coprire il 95% degli uomini e l'84% delle donne. Tuttavia riscuotono successo anche gli altri nove nemici dell'amore: alcol e droga in primis, spesso considerati addirittura degli "aiuti" per migliorare le performance. Passando al capitolo sigarette (una minaccia per la fertilità, oltre che per il desiderio e l'efficienza sessuale), dice di fumare il 37% dei maschi e il 24% delle femmine. E ancora: 4 uomini su 10 mangiano di regola cibi poco sani, senza pensare che gli errori a tavola si pagano anche a letto; una donna su 5 prova dolore nei rapporti intimi ed è malata di stress; il 75% delle femmine e il 53% dei maschi dormono male abitualmente o ogni tanto; il 13% degli uomini e il 42% delle donne ritengono di avere sofferto di almeno una malattia sessualmente trasmissibile; quasi un quinto degli uomini e un terzo delle donne non fanno mai sport. E sono proprio i problemi con Morfeo e la pigrizia a preoccupare di più gli esperti. Secondo uno studio inglese, 7 coppie su 10 sono troppo stanche per fare l'amore e 2 su 3 trovano energie per il sesso soltanto nel weekend. Quanto alla sedentarietà, raddoppia il pericolo di depressione, triplica la vulnerabilità a fumo, alcol e droghe e nelle ragazze moltiplica i disturbi mestruali.

I PROBLEMI A LETTO - Ma se solo il 12% dei giovani uomini e appena il 9% delle donne definisce «ottima» la propria vita sessuale, quali sono i problemi più diffusi nelle stanze da letto? Per lui eiaculazione precoce (32%), difficoltà di erezione (27%), ansia da prestazione (21%) e calo del desiderio (14%), che invece schizza al primo posto tra i crucci femminili (26%), seguito dal dolore ai rapporti (21%) e dall'ansia da prestazione (9%) che ormai contagia sempre più spesso anche la donna. A completare il quadro si aggiunge l'incoscienza: solo il 35% dei maschi utilizza abitualmente il preservativo (mentre il 22% ricorre abitualmente al coito interrotto e un altro 39% lo fa ogni tanto), e appena il 18% delle donne usa la pillola. Insomma, precisa Alessandra Graziottin, direttrice del Centro di ginecologia e sessuologia medica dell'ospedale San Raffaele Resnati di Milano, «il livello di conoscenza degli italiani su questi temi è piuttosto scarso per loro stessa ammissione: fra i maschi il 16% si dichiara poco o per nulla competente, percentuale che sale al 20% tra le femmine» (Fonte: Adnkronos)

8 feb 2011


DONNE E CREPACUORE:OGGI SAPPIAMO PERCHE’ SI PUO’ MORIRE
Convegno a Frascati del Gruppo Italiano Salute e Genere
FRASCATI - Non è il dolore emotivo che può fermare il cuore. Tutto cambia in quel termine, crepacuore, caro alla letteratura ed alla cronaca d’un tempo. E’infatti una condizione che più facilmente colpisce le donne per un problema anatomico (arterie coronarie più strette) e di predisposizione alla malattia ( l’aterosclerosi nell’uomo è a placche, quindi circoscritta, mentre nel sesso femminile è più uniformemente estesa). La maggiore lunghezza della vita media,nel secondo caso, completa il discorso.
Lo spartiacque è rappresentato dalla menopausa con tutti i cambiamenti ormonali e biologici ch ne conseguono, ha detto Stefano Vella, dell’Istituto Superiore di Sanità, parlando a Frascati ad un incontro promosso da Novartis sulla Medicina di Genere. Dopo quel periodo,infatti, s’inverte la casistica fra uomo e donna. In chiave femminile è quindi un problema medico – sociale che interessa circa duecento mila persone ogni anno nel nostro Paese.
Ma le donne risultano in generale più vulnerabili – si è detto nell’incontro coordinato da Flavia Franconi, presidente del Gruppo Italiano Salute e Genere – sia perché in media pratica meno sport rispetto all’uomo, sia per le caratteristiche biologiche ( maggiore suscettibilità contro tumori, infezioni). L’aids colpisce nel 65% di casi le donne.
In pratica, esistono sostanziali diversità nella scelta dei farmaci,secondo il sesso. La stessa terapia disintossicante per il fumo, con i “cerotti” deve seguire percorsi selettivi e diversificati. “Da qui, ha concluso Flavia Franconi,occorre creare un “quaderno” e riscrivere pagina per pagina che uomo e donna non sono uguali né in salute,né in malattia.
GIAN UGO BERTI
(riproduzione vietata)

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Grande decisione? Decide un'area del cervello piccola come una lenticchia


È grande come una lenticchia, si attiva per le decisioni morali e conflittuali. Potrà essere molto importante per lo studio di nuovi approcci ai problemi di shopping compulsivo o ipersessualità
MILANO
Ce l’hanno persino i moscerini, le rane e gli uccelli. È una piccola e antica parte del cervello, grande come una lenticchia, ma è in grado di fare la differenza quando si devono prendere decisioni morali molto combattute. Sotto la lente di un gruppo di scienziati milanesi è finito il subtalamo. Gli esperti hanno scoperto che è implicato nei processi decisionali che generano conflitto.

Lo studio, appena pubblicato online sulla rivista Social Neuroscience, è stato condotto da ricercatori (neurologi, psicologi, neurochirurghi, ingegneri) dell’università degli Studi di Milano e del Policlinico, guidati da Alberto Priori, in collaborazione con l’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano, l’Irccs Galeazzi e l’Istituto neurologico Mondino di Pavia. Gli scienziati hanno osservato che nelle profondità del cervello umano c’è una piccola struttura anatomica che si attiva in particolare quando le persone devono fare scelte difficili.

Per approfondire il ruolo del subtalamo sono stati reclutati 16 pazienti nei quali, per altre patologie, erano stati impiantati elettrodi millimetrici all’interno del cervello. Strumenti che hanno consentito di registrare l’attività dei neuroni nel corso di test condotti in un laboratorio di psicologia sperimentale. Obiettivo del gruppo di ricerca: capire in che modo il subtalamo è coinvolto nelle decisioni morali conflittuali, che ruolo svolge nell’orientare e guidare il comportamento da un punto di vista sociale e relazionale con i nostri simili.

Ai pazienti venivano presentate sullo schermo di un computer delle frasi, alcune neutre (ad esempio “Il sonno è un elemento necessario alla vita”, “Il violino è il più piccolo strumento ad arco”), altre con riferimenti ad aspetti morali non conflittuali (ad esempio “Tutti gli uomini hanno il diritto di vivere”, “I malati hanno il diritto di essere curati”) e altre che implicano scelte morali conflittuali (ad esempio “Alcuni reati devono essere puniti con la pena di morte”, “L’aborto è ammissibile quando il feto è malato”). Al paziente veniva chiesto di esprimere il proprio accordo o disaccordo.

Durante il test, gli elettrodi in profondità registravano l’attività elettrica del subtalamo. Risultato: la ministruttura si attiva solo durante la lettura e la valutazione delle frasi morali conflittuali e risulta importante per le decisioni in questi frangenti.

«Gli esperimenti - spiega in una nota Manuela Fumagalli, ricercatrice dell’Unità operativa di neurofisiologia del Policlinico di Milano, che ha preso parte allo studio - dimostrano per la prima volta il ruolo del subtalamo nei processi decisionali che generano un conflitto. Tutto ciò, oltre a essere importante per la comprensione neurofisiologica dei processi decisionali, è rilevante per sviluppare nuovi approcci terapeutici a disturbi come lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo patologico, l’ipersessualità. Così come per studiare più a fondo l’eventuale capacità decisionale in pazienti con ampie lesioni della corteccia cerebrale».

6 feb 2011


Siamo a rischio di essere a rischio?
17 gennaio 2011 Alice Fabbri

La “pre-ipertensione”, al pari di altre “pre-malattie” quali la pre-osteoporosi e il pre-diabete, sembra avere il potenziale di trasformare la maggior parte della popolazione adulta del nostro pianeta da sana a malata.


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“Chi decide che cosa costituisce una patologia e cosa è normalità?” Con questa provocatoria domanda si apre un editoriale recentemente pubblicato sul BMJ, a firma di Fiona Godlee[1]. Fino ad ora, scrive la direttrice della rivista inglese, queste decisioni sono state per lo più appannaggio dei più autorevoli membri della professione medica; tuttavia, in considerazione della loro crescente vicinanza a coloro che traggono profitto dallo sviluppo e dalla vendita di farmaci, la Godlee si domanda se essi siano ancora il soggetto più indicato per svolgere tale ruolo.
L’editoriale è stato scritto dopo la pubblicazione, il 24 agosto 2010, di un articolo di Ray Moynihan, giornalista australiano autore del libro “Farmaci che ammalano”, che da anni indaga sulla relazione tra medici e industria farmaceutica[2]. Il bersaglio di Moynihan in quell’articolo era una condizione nota come “pre-ipertensione” che, al pari di altre “pre-malattie” quali la pre-osteoporosi e il pre-diabete, sembra avere il potenziale di trasformare la maggior parte della popolazione adulta del nostro pianeta da sana a malata.

Seguendo Moynihan, proviamo a ricostruire le tappe di questa vicenda iniziata nel 2003, quando le autorità sanitarie statunitensi hanno redatto le nuove linee guida per il trattamento dell’ipertensione, istituendo una categoria, prima inesistente, in cui far ricadere i soggetti con pressione arteriosa nel range più alto della norma. La prima questione che si è posta, racconta Moynihan, è stata la scelta del nome da attribuire alla nuova entità, e già in questa fase è arrivata in soccorso la ricerca di mercato.

George Bakris, uno dei membri del comitato che ha definito la pre-ipertensione come categoria clinica, ha riferito che sono stati organizzati focus group al fine di stabilire quale delle tre possibili definizioni proposte – pressione borderline, pressione normale alta, o pre-ipertensione – avrebbe avuto maggior presa sul pubblico.
Le linee guida del 2003 affermano chiaramente che la pre-ipertensione non rappresenta un’entità patologica, bensì una nuova classificazione per i soggetti con pressione arteriosa sistolica compresa tra 120 e 139 mmHg, o diastolica compresa tra 80 e 89 mmHg[3]. Tali linee guida chiariscono anche che, per ridurre il proprio rischio, i soggetti con pre-ipertensione non necessitano di un trattamento farmacologico, ma dovrebbero innanzitutto agire modificando il proprio stile di vita.

Attualmente, però, l’industria sta tentando di penetrare anche questo mercato, potenzialmente molto vasto dato che una persona su tre potrebbe essere classificata come pre-ipertesa, e appare in questa luce legittimo il dubbio di Moynihan sul fatto che la pre-ipertensione possa non rappresentare una classificazione clinica realmente utile, ma piuttosto “una miniera d’oro globale”. L’opportunità si è presentata in occasione dell’organizzazione della Conferenza internazionale sulla pre-ipertensione e la sindrome cardiometabolica, che si svolgerà a Vienna nel Febbraio del 2011. Obiettivo della conferenza, organizzata grazie ai finanziamenti dell’industria , è quello di avviare lo sviluppo di linee guida per il trattamento farmacologico della pre-ipertensione[4]. Secondo un primo studio condotto già nel 2006 in questo ambito, il Candesartan sarebbe infatti risultato moderatamente protettivo per lo sviluppo di ipertensione in 800 pazienti “affetti” da pre-ipertensione[5].

Sono tuttavia numerose anche le voci critiche che si stanno sollevando, all’interno della comunità scientifica internazionale, in merito a un possibile trattamento farmacologico di questa condizione, e ancor prima in merito alla definizione stessa di pre-ipertensione.
Curt Furberg, professore di Salute Pubblica alla Wake-Forest University, sostiene che la pre-ipertensione non è una patologia, ma “un modo per incrementare il mercato delle industrie farmaceutiche”. Anche Jay Meltzer, docente al Columbia College di New York, ritiene che la pre-ipertensione sia in realtà una pseudo-sindrome e afferma: “Queste sono persone sane che entrano nell’ambulatorio del proprio medico non sentendosi malate e si sentono dire che hanno una nuova malattia. E’ indegno”. Meltzer ritiene inoltre che la conferenza di Vienna sia una “un’idea orribile” in quanto potrebbe “creare un centinaio di milioni di nuovi pazienti, bersaglio di un trattamento farmacologico”.

La vicenda della pre-ipertensione rappresenta quindi un eccellente studio di caso per riaprire il dibattito su quali possano essere le conseguenze di un’eccessiva vicinanza tra la professione medica e l’industria del farmaco. In primo luogo, vi è la delicata questione della ricerca sponsorizzata da privati: sette degli undici autori dello studio del 2006 sul trattamento farmacologico della pre-ipertensione hanno infatti dichiarato molteplici legami con le compagnie farmaceutiche, e uno di essi era addirittura dipendente dell’AstraZeneca, ditta produttrice del Candesartan.

In secondo luogo, il “caso pre-ipertensione” solleva il problema dei legami finanziari degli estensori delle linee guida: in base alle dichiarazioni dei conflitti di interesse accessibili sul web, 11 dei 12 membri del comitato statunitense che nel 2003 ha creato la categoria della pre-ipertensione avevano multiple connessioni con l’industria farmaceutica[6]. Questi dati, che non rappresentano un’eccezione ma al contrario una prassi costituita, sono la conferma che i panel che elaborano linee-guida sono diventati una sorta di “concentratore” di conflitti di interesse, la cui dichiarazione e gestione spesso non è affatto ottimale.

La vicenda della pre-ipertensione si collega infine anche alla delicata e controversa questione delle pre-malattie. Numerose infatti sono le pre-condizioni – come il pre-diabete e la pre-osteoporosi – che stanno creando un notevole dibattito all’interno della comunità scientifica, in quanto hanno il potenziale di etichettare come malate persone che sarebbero in realtà meglio inquadrate come “a rischio di essere a rischio”. A questo proposito, Moynihan richiama anche il concetto di “Surveillance Medicine” utilizzato da David Armstrong, professore di Medicina e Sociologia al King’s College di Londra. La “Surveillance Medicine” ha infatti ridisegnato i confini tra salute e malattia portando alla problematizzazione del “normale”; in altre parole, essa sta ricostruendo la natura stessa di ciò che consideriamo patologico in modo tale che il problema diventa “meno la malattia di per sé, ma piuttosto uno stato di rischio semipatologico e di premalattia”[7].

Questo riapre inevitabilmente la questione sollevata da Fiona Godlee nel suo editoriale: chi definisce cosa è malattia e cosa è normalità? Fino ad ora questo compito è stato affidato ad autorevoli professionisti, ma la sempre più stretta vicinanza tra la professione medica e l’industria del farmaco dovrebbe spingerci a domandarci se essa sia ancora in grado di svolgere al meglio tale ruolo.“Prevenire gli effetti devastanti di un infarto, di un ictus e della frattura di anca è nell’interesse di tutti; tuttavia, se il modo migliore per farlo sia medicalizzare miliardi di persone sane, etichettate con una pre-malattia, è una questione che richiede un serio dibattito all’interno di un gruppo di voci più ampio” [2]. Questa è quindi l’interessante proposta avanzata da Moynihan, e cioè la costituzione di un ampio gruppo rappresentativo in cui la società più estesa possa prendere queste decisioni in maniera indipendente, “al di fuori dalle lunghe ombre delle multinazionali del farmaco”[2].

Alice Fabbri. Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, Università di Bologna

Bibliografia

Godlee F. Are we at risk of being at risk? BMJ 2010; 341:4766.
Moynihan R. Who benefits from treating prehypertension? BMJ 2010; 341:4442.
Chobanian A, Bakris G, Black H, et.al. Seventh report of the joint national committee on prevention, detection, evaluation, and treatment of high blood pressure. Hypertension 2003;42:1206-52.
Prehypertension and Cardio Metabolic Syndrome International Conference Secretariat. Sponsorship and exhibition prospectus. [PDF: 910 Kb]
Julius S, Nesbitt S, Egan B, et al. Feasibility of treating prehypertension with an angiotensin-receptor blocker. NEJM 2006;354:1685-97.
National Heart, Lung, and Blood Institute. Seventh report of the joint national committee on prevention, detection, evaluation, and treatment of high blood pressure (JNC 7). Conflicts of interest: financial disclosure.
Armstrong D. The rise of surveillance medicine. Sociol Health Illn 1995;17:393-404.

4 feb 2011


Perché gli hamburger di McDonald’s non si decompongono mai
La vera storia dietro la storia
Di Mike Adams - NaturalNews.com
tratto da www.comedonchsciotte.org

È sempre interessante notare come i media principali “scoprono” notizie che credono essere nuove anche se la comunità salutista ne ha parlato per anni. Per esempio, recentemente il New York Times ha pubblicato un articolo intitolato Quando le medicine causano problemi che dovrebbero prevenire.
Abbiamo parlato per anni di questo argomento, di come la chemioterapia causi il cancro, i medicinali per l’osteoporosi provochino fratture alle ossa e di come gli antidepressivi portino a comportamenti suicidi.

L’ultima “novità” scoperta dai media principali è che gli hamburger e le patatine del Happy Meal della McDonald’s non vanno a male, anche se li si lascia per sei mesi. Questa storia è stata ripresa dalla CNN, dal Washington Post e altri media commerciali che sembrano essere rimasti folgorati dal fatto che il cibo spazzatura delle catene dei fast food non marcisce.
La cosa divertente è che l’industria salutista si era già interessata a questo argomento anni fa.

Ricordate il video Bionic Burger di Len Foley? Era apparso nel 2007 ed è stato visto 2 milioni di volte su Youtube. Nel video c'è un ragazzo che ha comprato i suoi hamburger da McDonald’s nel 1989 e dopo due decenni non si sono ancora decomposti!
Ora lui conserva un museo di hamburger non avariati nel suo scantinato.

I media principali hanno ripreso questa storia? No, nemmeno una parola. La storia era stata completamente ignorata. Soltanto nel 2010, quando un artista ha postato una racconto su un hamburger McDonald’s che da 6 mesi non andava a male, i media l’hanno raccontato.
Date un’occhiata al video indicato sopra e vedrete un intero museo di Big Macs e hamburgers riuniti lungo gli anni, e nessuno di essi si è decomposto.

Ed è di particolare interesse soprattutto perché il recente “Happy Meal Project” che verifica lo stato di un hamburger per sei mesi, ha attirato molte critiche da chi sostiene che l’hamburger va a male se gli si dà il tempo sufficiente. Questi critici ignorano evidentemente l’esistenza del museo dei burger mummificati fin dal 1989. Questa roba sembra non decomporsi mai!

Perché gli hamburger della McDonald’s non si decompongono?
E allora perché gli hamburger e le patatine dei fast food non marciscono? La risposta più facile potrebbe essere che sono fatti con tanti agenti chimici che nemmeno la muffa li attaccherebbe.
In parte è vero, ma non è tutto.
La verità è che molti cibi trattati non si decompongono né vengono attaccati dalle muffe, insetti o topi. Provate a lasciare della margarina fuori nel cortile e vedrete che niente la attaccherà. Anche la margarina sembra essere immortale!

Le patatine durano decenni. Le pizze congelate resistono notevolmente alla decomposizione.
Avete presenti le salsicce e le carni trattate vendute a Natale e durante le feste? Potete tenerle per anni e mai andranno a male.
La ragione essenziale per cui le carni non si decompongono è il loro elevato contenuto di sodio.
Il sale è un grande conservante, come ben sapevano gli esseri umani che lo hanno usato per millenni. Le polpette di carne della McDonalds sono così piene di sodio che sono da considerare carne trattata, senza parlare degli agenti chimici che potrebbero contenere.

Sulla carne non ho dubbi circa la loro mancata decomposizione. La domanda che mi faccio invece è perché capita lo stesso con i panini? Questa è la parte che mi spaventa, dal momento che il pane naturale comincia a creare muffa dopo qualche giorno. Cosa può mai esserci nei panini della McDonalds che li preserva dalla vita microscopica per oltre due decenni?

In realtà, se non siete dei chimici non riuscirete nemmeno a leggere la lista degli ingredienti a voce. Ecco cosa contengono i panini, così come indicato nella pagina internet (non in quello italiano, ndt) della McDonald’s:
Farina arricchita (farina di grano sbiancata, farina di frumento maltata, niacina, ferro ridotto, tiamina mononitrato, riboflavina, acido folico, enzimi), acqua, sciroppo di alto fruttosio (HFCS), zucchero, lievito, olio di soia e/o olio di soia parzialmente idrogenato, contiene il 2% o meno di: sale, solfato di calcio, carbonato di calcio, glutine di grano, solfato di ammonio, cloruro di ammonio, agenti ammorbidenti per la pasta (lattato steaorile di sodio, estere diacetiltartarico di mono- e digliceridi degli acidi grassi, acido ascorbico, azodicarbonamide, mono- e digliceridi, monocalcio fosfato, enzimi, gomma di guar, perossido di calcio, farina di soia), propionato di calcio e propionato di sodio (conservanti), lecitina di soia.

Non c'è male, vero? Soprattutto l’HFCS (qualcuno vuole il diabete?), l’olio di soia parzialmente idrogenato (causa malattie cardiache) e la lunga lista di chimici come il solfato di ammonio e il propionato di sodio. Yumm, mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci.
Ma la drammatica verità è che secondo me niente mai mangerà il panino della McDonald (tranne gli esseri umani) perché non è cibo!
Nessun animale normale può avere la percezione del panino McDonald’s come cibo e a quanto risulta nemmeno i batteri o le muffe. Secondo il loro buon senso, quella è roba non commestibile. Ecco perché questi burger bionici non andranno mai a male.

E ora arrivo alla mia conclusione su questa risibile vicenda: esiste una sola specie sul pianeta terra che è così stupida da pensare che l’hamburger della McDonald è cibo. Questa specie soffre di altissimi tassi di diabete, cancro, malattie cardiache, demenza e obesità. Si tratta di una specie che sostiene di essere la più intelligente del pianeta eppure si comporta in modo così stupido che alimenta i propri bambini con agenti chimici velenosi e con non-cibo talmente atroce che nemmeno la muffa se lo mangia.

Mike Adams
Fonte: www.naturalnews.com
Link: http://www.naturalnews.com/030074_Happy_Meal_decompose.html
Traduzione per www.comedonchsciotte.org a cura di RENATO MONTINI

3 feb 2011



Studio statunitense

Il cane è il migliore dei personal trainer

Non c'è stanchezza o maltempo che tenga: per l'animale passeggiata d'obbligo e vantaggio dell'accompagnatore



MILANO - Avere un cane in casa fa bene alla salute, perché costringe anche i padroni più pigri ad abbandonare il divano e a muoversi quel poco che occorre per proteggere il cuore. Lo dimostra una ricerca svolta dall'Università di San Diego presso due grosse cliniche veterinarie e pubblicata su Preventive Medicine.

LO STUDIO - I ricercatori californiani hanno sottoposto un questionario a circa un migliaio di proprietari di cani. Tra quelli che hanno risposto, due su tre hanno dichiarato di occuparsi personalmente dell'uscita obbligata. Dalle risposte è emerso che, in questo modo, il 64 per cento di loro raggiungevano senza accorgersene i livelli di attività fisica raccomandati per prevenire le malattie del cuore e della circolazione da due importanti società scientifiche mediche come l'American College of Sports Medicine e l'American Heart Association. I proprietari che delegavano ad altri il dog walking, come chiamano gli americani la passeggiata col guinzaglio in mano, erano invece tendenzialmente più sedentari: poco più della metà si muoveva almeno quel tanto necessario per mantenersi in buona salute.

QUANTI PASSI PER LA SALUTE? - Per stare bene non occorre essere grandi sportivi. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità per guadagnare salute basta mezz'ora di attività fisica moderata (come si ottiene con una camminata a passo sostenuto, praticabile a tutte le età e anche se si è un po' acciaccati) almeno 5 giorni la settimana. I padroni che si fanno carico personalmente di portar fuori il cane, secondo i dati dello studio, fanno anche di più, camminando in media più di tre ore la settimana. Katherine Hoerster, che ha coordinato l’inchiesta, conosce bene, in quanto psicologa ed esperta di salute pubblica, la difficoltà di modificare stili di vita non corretti, come la sedentarietà: «Rispetto ad altre modalità di promozione dell'attività fisica in cui la persona non intravede alcun obiettivo e prima o poi abbandona il programma consigliato, l’avere un cane ha il vantaggio di fornire una motivazione precisa e inderogabile, da mantenere necessariamente a tempo indeterminato».

STRUMENTO DI PREVENZIONE - Negli Stati uniti quasi quattro famiglie su dieci hanno almeno un cane. In Italia la tendenza ad avere in casa l’animale è meno diffusa: una stima del Ministero della salute ne conta circa 7 milioni. Molti ci rinunciano proprio per non avere la schiavitù della passeggiata, mentre magari investono denaro in corsi e palestre per mantenersi in forma. Basta invece passare al canile per rimettersi in forma. E chi il fedele compagno ce l’ha già, non deve maledire le fredde serate in cui è costretto a portarlo a spasso, ma essergli grato per il guadagno di salute che gli procura, costringendolo a praticare ogni giorno l’attività fisica che gli occorre.



Maria Rosa Valetto
03 febbraio 2011