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Benvenuti in PARLIAMO DI SALUTE

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Sarà affrontato anche il campo delle medicine alternative e della psicoanalisi.



Pubblicheremo inoltre interessanti articoli di storia della medicina.

29 apr 2011




Un costante “fai da te” può evitare guai
MELANOMA : CONTROLLA I TUOI “NEI”
6 mila casi l’anno in Italia. La regola dell’’ABCD. La predisposizione familiare,il tipo di pelle

Molti dei 6 mila casi di melanoma (tumore maligno della pelle, in progressivo aumento)potrebbero essere evitati, se la diagnosi fosse quantomeno tempestiva. Il miglior giudizio, al di là del medico, è quello della persona stessa. Un’efficace e costante osservazione ( come l’autopalpazione del seno per la mammella ), è infatti in grado d’insospettire. Lo spiega , alla vigilia dello Skin Cancer day ( celebrato il 4 maggio prossimo in tutto il mondo),il dott. Giovanni Bagnoni, responsabile dello specifico settore all’Unità Operativa di Dermatologia all’Ospedale di Livorno.
NEI : REGOLA DELL’ABCD – E’ semplice quanto efficace. Ogni persona dovrebbe periodicamente osservare i propri nei, secondo quanto segue. “A” sta per asimmetria, cioè tracciando una linea divisoria a metà, le due parti hanno estensione diversa. “B”, vuole invece mettere in evidenza che il bordo del melanoma non appare lineare,bensì spigoloso. “C” precisa che il colore non è uniforme e può presentare contemporaneamente più colori. “D”,infine, è la lettera che identifica il sollevamento rispetto alla superficie della pelle, come una specie di rigonfiamento. In presenza anche solo di uno di tali punti, è bene parlarne subito col medico di fiducia.
DOV’E’ IL PERICOLO – Il melanoma è pericoloso perché colpisce lo strato più profondo della pelle ed il rischio di diffondersi all’intero organismo. Rispetto ai comuni nei, i melanomi presentano una forma irregolare, superano la lunghezza di sei millimetri, possono sanguinare e dare prurito.
SOLE AMICO E NEMICO – La causa principale, nel contesto di una predisposizione familiare,è l’esposizione non corretta ai raggi del sole od anche sorgenti di luce artificiali con i lettini abbronzanti. La difesa naturale ai raggi è l’atmosfera terrestre. Non sono da sottovalutare i raggi UVA e UVB, i raggi solari che filtrano dall’atmosfera
PELLI A RISCHIO – Sono le persone con carnagione molto chiara, bionde o con capelli rossi, con molti nei, molte lentiggini, con sistema difensivo compromesso quali i malati di aids, soggetti che assumo farmaci immunosoppressori ( es. trapiantati d’organo).
CHE FARE,NEL SOSPETTO - L’esame chiesto dal medico è la biopsia, cioè l’asportazione di un frammento del neo e la sua analisi di laboratorio. Se il risultato fosse positivo occorre verificare lo stadio del tumore, così se avesse intaccato le ghiandole linfatiche.
SI PUO’RIFORMARE – Il rischio di un nuovo melanoma è tanto maggiore quanto quello per il tumore precedente.
PREVENZIONE – Prendere il sole nella fasce meno pericolose escludendo quella 12 – 15. Impiegare le opportune protezioni solari, soprattutto in chi lavori all’aperto, ricorrendo anche all’uso del cappello. No a lettini e lampade abbronzanti.

GIAN UGO BERTI

(riproduzione vietata)

20 apr 2011



salute

Il polso dei piccoli obesi predice
gli ictus e gli infarti che avranno da grandi

Uno studio della Sapienza potrebbe far compiere grandi passi avanti nel campo della prevenzione


Il polso può predire
MILANO- La circonferenza del polso nei bambini sovrappeso ed obesi predice il rischio di infarto e ictus da adulti. Un test predittivo risultato più efficace del classico indice di massa corporea (Bmi). La scoperta è italiana ed è stata pubblicata dalla rivista scientifica Circulation: Journal of the American Heart Association.

LO STUDIO - Lo studio é stato effettuato su 477 bambini e adolescenti, tra i 10 e i 12 anni, in sovrappeso ed obesi. In tutti i soggetti sono stati valutati i livelli di insulina in circolo, il grado di insulino-resistenza e l’indice di massa corporea (Bmi). Numerosi studi hanno dimostrato che le alterazioni che portano alle malattie cardiovascolari, causate da un restringimento delle arterie, cominciano nell’infanzia. L’insulino-resistenza, una condizione in cui l’organismo produce insulina ma quest’ultima mostra una ridotta capacità di utilizzare lo zucchero, è una condizione metabolica per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari in età adulta. I ricercatori hanno inoltre valutato, in 51 soggetti, la sezione trasversale dell'osso a livello del polso con la risonanza magnetica nucleare. L’analisi del sottogruppo di bambini valutati con la risonanza magnetica ha messo in evidenza che ciò che predice il rischio di insulino-resistenza e quindi il rischio cardiovascolare è la componente ossea e non quella rappresentata dal grasso sottocutaneo.

IL POLSO - La circonferenza del polso sarebbe espressione dei livelli di insulina e di insulino-resistenza nella misura del 20% circa, mentre l’aggiunta del Bmi come marcatore di insulino-resistenza aggiunge soltanto l’1% nella stima del rischio. Quindi l’associazione tra circonferenza del polso ed insulino-resistenza è significativamente maggiore rispetto a quella con il Bmi. Lo studio è stato condotto da un pool di ricercatori dell’università “Sapienza” di Roma e del “Polo Pontino”. Spiega Raffaella Buzzetti, diabetologa dell’università Sapienza, che ha coordinato la ricerca: «Abbiamo trovato una stretta correlazione fra la circonferenza del polso, la componente ossea e l'insulino resistenza nei bambini over size. Abbiamo scoperto così un nuovo marker clinico di insulino-resistenza, molto semplice da misurare, che dipende dal tessuto osseo e non da quello adiposo». Si apre una nuova prospettiva nella diagnosi del rischio di incorrere in patologie di tipo cardiovascolare. Spiega l’endocrinologo Andrea Lenzi: «Fino ad oggi era l'eccesso di grasso, soprattutto quello accumulato a livello dell'addome e dei fianchi, a rappresentare l'indicatore principale per determinare il rischio cardiovascolare. Con questo metodo clinico, invece, i medici possono prevedere con più facilità il tipo di rischio già nei bambini con chili di troppo e stimolare migliori strategie educative per prevenire le patologie cardiovascolari, con maggiore successo rispetto a ciò che si riesce a fare quando l’età è adulta». Ossia, a danni già fatti.

Mario Pappagallo

19 apr 2011


IL CASO


«Drogata di solarium» fin da bambina

La storia di una giovane inglese torna a far parlare di divieto ai lettini solari per i minorenni.




Tanoressia: una droga
MILANO – La tintarella come una droga, come una malattia, perché loro, i forzati della pelle nera a tutti i costi, non si percepiscono mai abbastanza scuri e si espongono a ore e ore di sole vero o artificiale. Negli Stati Uniti se ne parla già da tempo e la chiamano «tanoressia», dall’unione della parola tan, abbronzatura, all’anoressia. Ora anche in Gran Bretagna il problema torna alla ribalta con la storia di un’adolescente raccontata dal quotidiano Daily Mail: una ragazzina inglese 17enne si ritrova a fare i conti la forma più aggressiva di tumore della pelle, un melanoma, e confessa ai medici che dall’età di 12 anni rinuncia alla mensa scolastica diversi giorni alla settimana per utilizzare i soldi risparmiati al solarium. E in Italia? Secondo le più recenti statistiche la sindrome compulsava da sole sarebbe una vera e propria malattia che interessa più di 10 milioni di connazionali, fra adulti e giovani. E se sono circa un milione e mezzo i ragazzi italiani fra i 14 e i 18 anni che fanno almeno una lampada abbronzante all’anno, fra questi 700mila sono da catalogarsi come «lettino-dipendenti», perché ne fanno più di una al mese.


LA STORIA - «È una delle pazienti più giovani che abbiamo visto qui e non mi è parsa del tutto consapevole di quanto abbia messo la sua vita in pericolo - ha riferito al Daily Mail Susan Waterfield, responsabile dell’Istituto specialistico di dermatologia di Middlesbrough -. Sua madre invece era sconvolta, non sapeva che sua figlia usava i lettini solari, tantomeno con questa frequenza». E il fenomeno non sarebbe isolato: «Abbiamo avuto un aumento di casi di melanomi maligni - spiega Waterfield -. Il più giovane prima di questo caso era un 21enne, ma vediamo soprattutto molti trentenni e tutti ammettono di fare sessioni abbronzanti sin da giovanissimi». I britannici tornano così a parlare del divieto, che dovrebbe entrare in vigore a breve, di utilizzo dei lettini solari per i minori di 18 anni, con multe salate (fino a 20mila sterline) per i trasgressori. Una soluzione, quella della proibizione per i minorenni, già adottata dal Brasile e recentemente proposta anche in Italia. Soprattutto dopo il verdetto emesso nel 2009 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della Sanità : le lampade abbronzanti sono cancerogene e, soprattutto se l’abitudine al lettino solare inizia da giovanissimi, aumentano notevolemente i rischi di tumore cutaneo, anche di una forma aggressiva come il melanoma.

SOLE AMICO, SERVE SOLO BUON SENSO – Attenzione, però: se il valore del sole come alleato della salute è stato più volte scientificamente provato, al contrario non è stata dimostrata una correlazione diretta fra i raggi ultravioletti e l’insorgenza di un melanoma (che fra l’altro è un tumore più frequente in zone del corpo normalmente meno esposte alla luce, come il tronco). Cosa significa? «Significa che, come per ogni cosa, il troppo stroppia e anche per l’esposizione ai raggi ultravioletti (naturali del sole o artificiali nei solarium) basta ricorrere alla moderazione, tenendo presente che se il livello di radiazioni emanate dal sole a mezzogiorno nel mese di luglio è pari a 50 Watt quello di un lettino abbronzante è dieci volte superiore, circa 500 Watt: uno shock per i melanociti, cioè le cellule responsabili dell’abbronzatura» sintetizza Nicola Mozzillo, direttore del Dipartimento melanoma e vice direttore scientifico dell’Istituto tumori Fondazione Pascale di Napoli. I raggi solari sono invece un toccasana certo per chi soffre di psoriasi e un’esposizione solare moderata e costante può essere un antidepressivo naturale grazie alla stimolazione del rilascio di endorfine. E ancora, la vitamina D (che l’organismo sintetizza in gran parte proprio grazie all’azione dei raggi ultravioletti assorbiti dalla pelle) è un prezioso fortificante delle nostre ossa che agisce anche contro malattie infettive, autoimmuni e cardiovascolari. «Bisogna solo evitare le ore più calde, prendere il sole gradualmente e utilizzare una crema protettiva per evitare le scottature – conclude Mozzillo -. Le ustioni non vanno prese alla leggera perché, fra i principali fattori di rischio di alcuni tumori cutanei (quelli epiteliali, cioè carcinomi basali e spinocellulari), c’è proprio l’eccessiva esposizione al sole in età infantile e giovanile, insieme a pelle e occhi chiari e a un elevato numero di nei. Frequenti e ripetute scottature potrebbero, in questi casi, portare al formarsi di lesioni precancerose».

Vera Martinella (Fondazione Veronesi)

18 apr 2011



SINDROME DI PENELOPE:COLPITE 50 MILA DONNE

FIRENZE – Sono circa 50 mila le donne anziane in Toscana affette dalla Sindrome di Penelope. Il dato è emerso dal congresso dell’associazione italiana di psicogeriatria a gardone Riviera. Se una persona anziana viene ricoverata in ospedale ,per un problema improvviso ed acuto, quando è dimessa sviluppa nel tempo depressione, affaticamento ed ansia. Ciò avviene in una donna su 5, uno su tre negli uomini, così come per il sintomo dolore. Un disturbo intenso che interferisce con le attività quotidiane.
Come Penelope,la moglie di Ulisse, sono donne con età superiore ai 75 anni, malate di nostalgia del tempo passato, che non guariscono dal dolore fisico perché lo alimentano con il malessere psicologico. Dalla difficoltà a camminare,alla stanchezza all’ ipertensione, i disturbi più comuni. Importante,dunque,è la diagnosi precoce.
GIAN UGO BERTI

16 apr 2011



Si celebra la “Giornata mondiale”
EMOFILIA: PROGRESSI CON L’ECOGRAFIA
Consente una diagnosi precoce della presenza di sangue articolare . E’ l’80% dei 6 mila casi d’emofilia in Italia

MILANO – In occasione della “Giornata Mondiale dell’Emofilia” che si celebra il 17 aprile, si parla di una grossa novità: l’ecografia,come tecnica per la diagnosi di una delle più comuni e gravi complicazioni della malattia ( affezione congenita del sangue causa di difficoltà alla coagulazione, 6000 casi in Italia), quella a carico delle articolazioni in cui va a formarsi una raccolta liquida, con dolore ed impotenza funzionale.
Ed, a dimostrazione dell’importanza della scoperta, nei 18 Centri specialistici nazionali che hanno aderito all’iniziativa,verranno effettuati controlli ecografici gratuiti. Il tutto fa parte del progetto HEAD US ( Haemophilia Early Detection with Ultrasound),promosso da Pfizer e patrocinato dall’Associazione Italiana Centri dell’Emofilia (AICE) e dalla Federazione delle Associazioni Emofilici (FEDEMO). Un progetto – come si è detto nella presentazione a Milano, cui era presente il campione di volley,Luigi Mastrangelo,testimonial d’eccezione della campagna), volto a promuovere l’uso dell’ecografia come il necessario complemento della visita e delle indagini effettuate dallo specialista.
Si tratta di un esame non invasivo(ultrasuoni) che permette d’identificare – prima della tradizionale radiografia - lesioni articolari anche sotto il millimetro di dimensione, che attaccano la cartilagine e la membrana sinoviale.
L’artropatia colpisce l’80% dei pazienti emofilici,compromettendo la capacità di movimento e la vita di relazione ( maggiormente interessate sono caviglia,ginocchio e gomito): la prevenzione precoce, una corretta profilassi,insieme alla pratica di uno sport a basso impatto come il nuoto e la ginnastica, possono prevenire tale complicazione, in grado di condurre all’intervento di protesi ortopedica.
Alla manifestazione erano presenti Pier Mannuccio Mannucci, presidente AICE, Carlo Martinoli e Massimo Morfini, delle Università di Genova e Firenze.
MALATTIA DEI NOBILI
Trasmessa dalle donne e presente negli uomini (con rare eccezioni),l’emofilia ha preso corpo attraverso la consanguineità e dunque i matrimoni in cerchie ristrette di popolazione, come la nobiltà di un tempo.
Il difetto risiede in uno dei fattori della coagulazione – VIII nella forma A,IX nella B – con successive emorragie sia esterne in caso di tagli,ferite e traumi,sia interne.
Terapia – Infusione del fattore mancante che viene somministrato quale fattore plasmatico altamente purificato o ricombinante, grazie all’ingegneria genetica. La cura è al bisogno o segue fasi costanti, a scopo preventivo.
Per un problema di sensibilizzazione, nel tempo un terzo dei pazienti può evidenziare una scarsa risposta alla cura, con differente qualità di vita. Nei bambini,però,per un più difficile accesso venoso la profilassi può creare un problema.
Iniziando la profilassi sin dai primi mesi di vita, oggi i pazienti possono arrivare all’età adulta senza mai presentare un episodio emorragico. Il paziente vorrebbe guarire perché ,pur conducendo vita normale, è pur sempre un malato e la consapevolezza di doversi sempre sottoporre ad una cura. Vive inoltre molto male la propria situazione, perché la presenza di una malattia genetica viene percepita come una tara.
GIAN UGO BERTI
(riproduzione vietata)

(Ansa)Roma, 13 aprile 2011 - Sbarca in Italia un nuovo contraccettivo ormonale sottocutaneo. Lo impianta il ginecologo nel braccio della donna, dove rimane posizionato e attivo per tre anni, e se si cambia idea basta rimuoverlo. La novità è stata presentata a Roma.

Nessun rischio, quindi, di dimenticare di assumere la pillola: a partire da maggio sarà disponibile questo piccolo ‘bastoncino’ di due millimetri di diametro e 4 cm di lunghezza che il medico inserisce sotto la cute del braccio.

"Il ginecologo, appositamente istruito - ha detto Chiara Benedetto, ordinario di ostetricia e ginecologia e direttore del Dipartimento di discipline ginecologiche e ostetriche dell’Università di Torino - ha a disposizione uno speciale applicatore. Il primo atto che compie è inserire il dispositivo sotto la cute, nella parte interna del braccio, in modo che possa essere rilevato dalla donna in qualunque momento. E qui rimane per 3 anni".

"Se in questo periodo la paziente decide di non avere più bisogno di contraccezione, torna dal ginecologo e fa rimuovere l’impianto sottocutaneo con un’anestesia locale, senza lasciare cicatrici".

13 apr 2011


LA STORIA

Stanchezza cronica: il giallo del virus
«nato» in laboratorio


Una patologia senza spiegazioni,
una scoperta stupefacente, un mix di linee cellulari


MILANO - Sembrava fatta. Sembrava che i ricercatori avessero finalmente scoperto il colpevole della sindrome da stanchezza cronica: un virus chiamato Xmrv, lontano cugino di quello dell'Aids. Non è così e c'è di più: il microrganismo non esiste in natura, ma sarebbe il prodotto accidentale di manipolazioni sulle cellule. Ecco come la storia di un virus, cominciata cinque anni fa, si è rapidamente trasformata in un giallo da laboratorio. Il primo capitolo nasce nel marzo del 2006, quando un ricercatore americano dell’Ohio University, Robert Silverman scrive, sulla rivista PLoS Pathogens , di una scoperta stupefacente: per la prima volta documenta la presenza di un virus, l'Xmrv appunto, nei tessuti di certi tumori alla prostata.

La pubblicazione fa discutere: il virus era conosciuto, ma soltanto perché poteva provocare leucemie nel topo (Xmrv significa appunto: Xenotropic murine leukemia virus- related virus : cioè virus correlato alla leucemia murina virale). Il fatto che possa giocare un ruolo anche nei tumori umani è intrigante e se così fosse davvero, la ricerca sarebbe da Nobel. L'Xmrv andrebbe ad aggiungersi ad altri quattro retrovirus (si chiamano così perché si inseriscono nel Dna delle cellule umane e le sfruttano per la loro moltiplicazione) capaci di infettare l'uomo e cioè: l'Hiv 1 e 2, agenti dell'Aids, e l'Htlv 1 e 2, responsabili di certe forme di leucemia. Il secondo capitolo arriva dopo tre anni. Nell'autunno del 2009, Judy Mikovits, un’immunologa del Whittemore Peterson Institute a Reno, nel Nevada, pubblica uno studio che dimostra uno stretto legame fra il virus Xmrv e la sindrome da stanchezza cronica.

Una notizia che fa scalpore e circola su tutti i mass media, tanto più che il lavoro è stato pubblicato su una delle più autorevoli riviste, Science. La ricercatrice ha trovato il virus nel 67% dei campioni di sangue prelevati da persone malate e solo nel 3-4% di quelle sane. Per spiegare i sintomi sono state fatte varie ipotesi (vedi box in alto accanto al disegno). Ultimo imputato l'Xmrv che ha fatto sperare in nuove soluzioni terapeutiche. La stanchezza cronica interessa, infatti, molte persone: sarebbero 300 mila in Italia, soprattutto giovani. Il terzo capitolo, lo scrivono, nei successivi 24 mesi, gruppi di ricercatori, al di là e al di qua dell'Atlantico, che tentano di riprodurre i risultati della Mikovits. Ed ecco il colpo di scena: i gruppi europei (in Francia, Gran Bretagna, Spagna e Olanda) non riescono a trovare il virus, che sembra presente solo negli Usa. Intanto nasce il sospetto del conflitto di interesse: il Whittemore Peterson Institute ha venduto a un'azienda la licenza per mettere a punto il test per la ricerca del virus e il sito Web indirizza addirittura i navigatori al sito dove possono acquistarlo per 549 dollari. Con il quarto capitolo si arriva ai primi mesi di quest'anno.
In marzo, la rivista Retrovirology pubblica un lavoro di ricercatori dell'University College di Londra e della Oxford University che, confrontando il Dna del virus del topo con quello isolato nei pazienti senza trovare differenze, arrivano alla conclusione che il virus non causa la malattia, ma è il risultato di una contaminazione di laboratorio. I virus, infatti, passando dall'animale all'uomo, si evolvono e mutano le loro caratteristiche. Sempre in marzo a Boston, in occasione della 18ma Conferenza sui retrovirus, l' affaire sembra avviarsi a una conclusione. Vinay Pathak del National Cancer Institute americano dimostra che l'Xmrv non è un vero virus, ma è una chimera accidentalmente creata in laboratorio. Per capire che cosa è avvenuto, occorre fare un passo indietro fino agli anni Novanta. Allora, nei laboratori della Case Western Reserve University a Cleveland, in Ohio, si tentava di creare una linea di cellule cancerose da studiare in laboratorio. Per farlo, i ricercatori avevano più volte trapiantato cellule umane di cancro prostatico nei topi. La linea cellulare (chiamata 22 Rv1), che avevano ottenuto, ha fatto il giro di molti laboratori negli Stati Uniti. Studiando tutti i passaggi che sono serviti per produrre questa linea cellulare, Vinay Pathak scopre, con un collega, due virus, entrambi somiglianti al Xmrv, ma non uguali.

Per farla breve: l'Xmrv è la somma di questi due virus. Un mélange genetico, insomma, che non esisteva in natura e che ha fatto la sua comparsa fra il 1993 e il 1996. Ma come era finito il virus nel laboratorio dell'esperta di stanchezza cronica a Reno? Lo svela lei stessa, martedì 29 marzo 2011, durante un seminario organizzato dalla New York Academy of Science: alcuni dei suoi campioni di sangue, prelevati da persone affette da stanchezza cronica, sono stati esaminati nel laboratorio di Robert Silverman, protagonista del capitolo numero uno, il ricercatore che aveva isolato il virus dai tumori della prostata umani e che il 17 marzo aveva dichiarato al Chicago Tribune che aveva sempre utilizzato la famosa linea cellulare 22Rv1. Quindi, la contaminazione da parte del virus chimera era proprio partita dal suo laboratorio: ecco spiegato il perché il virus è stato trovato sia in tumori umani della prostata, sia nei casi di stanchezza cronica. Fine della storia? Non ancora. Il quinto capitolo, tutto da scrivere, dovrà chiarire perché i campioni di sangue delle persone con sindrome da stanchezza risultano più "contaminati" dal virus rispetto a quelli di soggetti sani. E dovrà accertare se incidenti di laboratorio di questo tipo potranno succedere di nuovo. La fantascienza ci ha sempre creduto.

Adriana Bazzi
abazzi@corriere.it
10 aprile 2011

10 apr 2011




La malattia che rese
Enrico VIII un despota

Scoperte le cause della difficoltà a procreare e della «metamorfosi» del sovrano inglese


Enrico VIII
MILANO- Enrico VIII, re d'Inghilterra e fondatore della Chiesa anglicana, era il Brad Pitt del suo tempo. Affascinante, attraente per il gentil sesso e anche cortese, per essere un membro della famiglia Reale. Così era descritto da giovane. Poi tutto è cambiato: a quarant'anni ha cominciato a essere ingordo, tanto da diventare obeso, ad avere problemi di salute e a soffrire di disturbi psichici. Diventò un tiranno e fece addirittura giustiziare due delle sue mogli. Ora i bioarcheologi e gli antropologi cercano di "riabilitare" la sua immagine, con le prove della genetica. Perché alla base del comportamento del sovrano ci sarebbero almeno due difetti del suo Dna (anzi, uno non è un vero e proprio difetto) che spiegano non soltanto le modificazioni del suo comportamento, ma anche il fatto che non abbia lasciato eredi maschi, nonostante le sei mogli e le molte amanti. E il perché sia diventato un despota. Catrina Banks Whitley e Kyra Kramer della Southern Methodist University a Dallas hanno analizzato la discendenza del sovrano, ipotizzando che Enrico VIII potesse avere un particolare gruppo sanguigno, incompatibile con quelli delle donne che aveva sposato. Così Caterina di Aragona e Anna Bolena, le sue due prime mogli, erano andate incontro ad aborti ripetuti, avevano dato alla luce bambini morti o sopravvissuti pochi giorni dopo la nascita.

ANTIGENI DI SUPERFICIE - Secondo gli studiosi, il sovrano era portatore di un gruppo di antigeni (proteine) sulla superficie dei globuli rossi, chiamati Kell: si tratta di antigeni che si comportano più o meno come il fattore Rh del sangue. Se un uomo positivo per questi antigeni genera un figlio con una donna negativa, alla prima gravidanza non succede nulla, nel senso che il neonato nasce sano. Successivamente, però, la donna produce anticorpi anti-Kell che aggrediranno il feto nel caso di gravidanze successive. Oggi si può correre ai ripari, ma un tempo non si sopravviveva a questi scherzi della genetica. Enrico VIII aveva quasi 18 anni quando sposò la ventitreenne Caterina d’Aragona: la loro primogenita nacque morta. Il secondo, un maschio, sopravvisse soltanto 52 giorni. Seguirono altre quattro gravidanze, ma tre dei figli nacquero morti o morirono subito dopo la nascita. L'unica superstite, nata da questo matrimonio, fu Maria (il perché fosse nata sana sarebbe spiegato dal fatto che aveva ereditato dal padre uno dei cromosomi senza il gene Kell). «Il gene che codifica per l'antigene Kell — spiega Paolo Vezzoni, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche, all'Istituto Humanitas di Milano — si trova sul cromosoma 7 ed è dominante, nel senso che basta ereditare un solo gene mutato per diventare Kell positivi, mentre se non si eredita si è negativi». La seconda moglie fu Anna Bolena e, sottolineano i ricercatori, le sue gravidanze furono un esempio da "manuale di alloimmunizzazione Kell", cioè di come l'organismo della madre "accetti" il primo figlio e "rigetti" i successivi, come fossero un trapianto. La prima gravidanza portò, infatti, alla nascita di una femmina sana, tutte quelle che seguirono, nel tentativo di dare un erede maschio al sovrano, si risolsero in una lunga serie di aborti.[

LE AMANTI - Altrettanto sfortunato fu il Re con le sue amanti: il numero preciso degli aborti subiti dalle sue partner, legittime e illegittime, è difficile da determinare, ma si stima che Enrico VIII abbia dato inizio ad almeno 11 o 13 gravidanze: di tutte, soltanto quattro portarono alla nascita di bambini che sopravvissero all'infanzia. Una mortalità troppo elevata per poter essere giustificata dalle cattive condizioni sanitarie dell'epoca o dalla malnutrizione. E nemmeno l'ipotesi più in voga che vorrebbe attribuire alla sifilide non solo i disastri riproduttivi, ma anche il cambiamento di personalità del re, sembra reggere, secondo i ricercatori americani. Con il loro lavoro, pubblicato su The Historical Journal, infatti, non solo attribuiscono i "reali" disastri riproduttivi a un'incompatibilità immunitaria fra marito e moglie, ma ipotizzano che i disturbi mentali e il decadimento fisico (da quell'uomo atletico ed energico che era, Enrico VIII si trasformò in un individuo paranoico, immobilizzato da un eccesso di peso e da ulcere alle gambe) siano da attribuire alla sindrome di Mc Leod, una malattia a esordio tardivo che può manifestarsi nelle persone positive per gli antigeni Kell. Per avere una conferma di queste teorie adesso i ricercatori vorrebbero riesumare il corpo del sovrano, sepolto nella cappella di San Giorgio al castello di Windsor. Ma per questo ci vuole l'autorizzazione dell'attuale Casa Reale.

from THE TIME


Facebook , un elisir di memoria
per gli anziani

Secondo uno studio, gli over 65 con i social network
stimolano i ricordi, mentre si riducono ansia e stress


Anziani al computer
MILANO - Facebook elisir di memoria quando comincia ad abbandonarci: è questo l'effetto che il popolare social network ha fra gli over 65, dove continua a raccogliere fan. Sono infatti oltre un milione e mezzo gli anziani con un profilo facebook, e a questi si aggiungono un altro milione di internauti dai capelli bianchi che si tengono in contatto con parenti e amici via Skype, o guardano i video dei nipotini lontani su Youtube. Il tutto con positivi effetti sulla salute. A raccontare questo fenomeno in crescita è l'Associazione italiana di psicogeriatria (Aip), in corso a Gardone Riviera.

LO STUDIO Uno studio condotto in due residenze sanitarie assistite, in provincia di Cremona e di Brescia, ha dimostrato che collegarsi quotidianamente a Facebook per un'ora ha un effetto benefico sulla memoria, conservandola attiva perchè stimolata, e migliora l'umore. «Negli ultimi anni il numero di anziani che si è avvicinato al web è cresciuto dell'80% - spiega Marco Trabucchi, presidente Aip - Anzi, gli anziani sono la fascia di utenti cresciuta di più. Basti pensare che gli over 65 iscritti a Facebook o MySpace sono circa l'8% del totale». Un fenomeno in parte spiegabile, perchè si avvicina alla rete una quota sempre maggiore di anziani con un più elevato livello di istruzione. Quattro su 10 si fanno insegnare i segreti della rete dai nipoti, cosa che contribuisce a rinsaldare i rapporti. «I risultati del progetto nelle rsa - continua Trabucchi - sono incoraggianti, perchè dimostrano che internet e le nuove tecnologie tengono viva la curiosità culturale degli anziani, migliorano le prestazioni cognitive e mantengono giovane il cervello, stimolando l'attenzione, la memoria, la percezione».

MENO ANSIA E STRESS Inoltre l'uso della rete riduce i sintomi di ansia, stress e depressione ed è un valido aiuto nel creare reti di supporto per gli anziani con disabilità che avrebbero altrimenti relazioni sociali molto limitate. Il mondo virtuale è per loro un'occasione di condivisione, di trasmissione, di scambio e di aggiornamento, un mezzo per interagire con gli altri ed essere più autonomi. Benefici che sono più efficaci in chi, per vicende personali, ha maggiormente ridotto i propri contatti sociali e nelle donne. Per loro è un ritorno alla vita. emozioni. «Il prossimo passo - conclude Trabucchi - è rendere possibili le videochiamate con Skype nelle rsa: queste possono essere molto utili soprattutto nei pazienti con demenza, perchè la visione del volto di un familiare può favorire il riconoscimento dell'interlocutore e migliorare le capacità di comprensione rispetto a una semplice telefonata» (Fonte: Ansa)

8 apr 2011


Ricerca anti-crisi: lo shopping allunga la vita
Un gruppo di ricerca di Taiwan mette in evidenza che l'attività (fisica e relazionale) svolta nel fare compere può essere benefico: così sembra dallo studio condotto su quasi 2000 persone

Washington, 7 aprile - La notizia farà felici schiere di donne e uomini dediti allo shopping, come pure i commercianti in questa fase di contrazione dei consumi: andare almeno una volta al giorno a fare spese allunga la vita. Lo assicura uno studio durato dieci anni e pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health.

I ricercatori del Taiwan’s National Health Research Institutes hanno studiato le abitudini di 1.865 persone sopra i 65 anni, tutte in buona salute, dal 1998 al 2008. Di queste il 17 per cento andava a fare compere una volta al giorno, il 22 per cento tra due e quattro volte alla settimana, il 13 per cento una volta alla settimana e il 48 per cento meno frequentemente. Nelle persone del primo gruppo la probabilità di morte nel periodo studiato è risultata inferiore del 27 per cento, e la ‘terapià è risultata essere più efficace per gli uomini, con una percentuale del 28 per cento, mentre per le donne si è fermata al 23 per cento.

''Lo shopping coinvolge diverse dimensioni del benessere personale - scrivono gli autori - sia dal punto di vista della salute che della coesione sociale, e potrebbe quindi aumentare la longevità''. Secondo gli esperti l’effetto potrebbe essere lo stesso anche senza l’acquisto: ''Un viaggio al supermercato o al centro commerciale implica un contatto sociale - hanno continuato - e un pò di esercizio, che potrebbero essere sufficienti ad assicurare l’effetto''. (AGI)

7 apr 2011





MAMMELLA:NOVITA’ NELLE CURE

Un passo avanti nella cura del tumore al seno ( 10 nuovi casi al giorno in Toscana). Si tratta di una novità che interessa la fase più delicata ovvero la presenza di metastasi (le sue ripetizioni a distanza rilevabili nel 30% dei casi), grazie ad innovative tecniche che consentono il trasporto del farmaco dentro ogni cellula malata.
Il tumore – si è detto ad un incontro stampa sull’argomento promosso, a Roma,da Celgene – non è soltanto una massa come si riteneva fin’ora, bensì un insieme di cellule alterate. Cambia dunque radicalmente il meccanismo d’azione anche con molecole già in uso, quali i “taxani”.
Il primo segreto è la riduzione delle dimensioni delle molecole del farmaco che diviene più piccolo di un globulo rosso e vengono rivestite dal loro trasportatore, come una “navicella spaziale”, una molecola d’albumina umana. Secondo vantaggio è la possibilità di non utilizzare altre sostanze alternative, causa di reazioni allergiche ed evitare così il ricorso al cortisone.
Su queste basi agisce il Paclitaxel, con la possibilità di aumentare le dosi di terapia e dunque potenziarne l’effetto. Terzo, la capacità d’accelerare i tempi della seduta che,dalle quattro ore attuali con cadenza trisettimanale, scende ad una soltanto, a medesimi intervalli.
In tal senso si sono espressi i proff. Paolo Marchetti e Francesco Cognetti di Roma e Sabino De Placido di Napoli. Per le donne che affrontano la fase più difficile della battaglia contro il tumore al seno – è il loro messaggio – l’attenzione alla qualità della vita è un principio fondamentale: l’aggiustamento personalizzato della dose,tempi brevi d’infusione ed effetti indesiderati mitigati rappresentano vantaggi significativi per una paziente con neoplasia in fase avanzata, spesso costretta a fronteggiare non solo gli effetti della malattia, ma anche la pesantezza delle cure ed i loro eventuali riscontri collaterali.
Non esiste un unico trattamento standard di terapia e per individuare il più adeguato occorre considerare i fattori prognostici, eventuale stato della menopausa, presenza di altre malattie, dolore, previsti effetti indesiderati,non ultime, le preferenze della paziente.
GIAN UGO BERTI



Alcol più caffeina,
il risultato non cambia

Gli effetti delle due sostanze non si annullano:
i pericoli rimangono, soprattutto al volante


Gli energy drink possono
esser «ingannevoli»
MILANO - Ancora una volta viene smentita la teoria cara ai consumatori più giovani, anche perché alimentata strumentalmente da messaggi pubblicitari equivoci, che l'aggiunta di caffeina all'alcol «metta la ali» e contrasti gli effetti negativi sulla capacità di condurre autoveicoli. Le nuove e ulteriori prove, pubblicate su Addiction, provengono da una ricerca statunitense coordinata dalla Boston University School of Medicine.

LO STUDIO Le prestazioni di un test di guida simulata sotto l'effetto dell'alcol non vengono migliorati dall’aggiunta di caffeina alla bevanda incriminata. Per giungere a questi risultati 130 giovani di 21-30 anni, non alcolizzati ma avvezzi agli eccessi del sabato sera – il consumo smodato e occasionale meglio noto come binge drinking – sono stati divisi in 4 gruppi cui erano somministrate birra o birra analcolica con aggiunta o meno di caffeina fino a raggiungere un tasso di alcol nel sangue di 1,2 g/l, elevato ma non di raro riscontro tra chi abbia alzato il gomito (il limite per la guida legale per la guida e di 0,5 g/l). La capacità di attenzione e i tempi di reazione, parametri fondamentali per il controllo al volante, erano costantemente compromessi dall’alcol e non venivano ripristinati neppure parzialmente dall’azione eccitante della caffeina.

UN PERICOLOSA INGANNEVOLE ECCITAZIONE In Italia più che le birre con caffeina vanno molto i mix tra superalcolici e bevande già pronte, i cosiddetti energy drink. Oltre a un contenuto di caffeina equivalente a quello di un espresso e almeno triplo di una bevanda alla cola – ma i giovani protagonisti delle happy hour ne buttano giù 3 o 4 l’uno dopo l’altro – sono integrati da altri eccitanti come la taurina. Emanuele Scafato direttore dell’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità si è spesso pronunciato contro questo preoccupante consumo: «Il messaggio sugli energy drink deve essere molto preciso: una persona ubriaca alla guida resta tale anche se forse con un po’ più di tono ma si tratta una sensazione illusoria per quanto attiene alla sicurezza sulla strada. Tocca agli adulti filtrare ogni tipo di equivoco e disinformazione su questo concetto, ma la chiarezza è anche nell’interesse dei produttori di bevande. E va anche sottolineato che i giovani sono i più a rischio per le modalità del bere episodico ma eccessivo che facilmente determina concentrazioni ematiche di alcol molto elevate».

TUTTO IL MONDO È PAESE Anche la Food and Drug Administration (FDA), l'ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, si è pronunciata nel novembre 2010 contro i prodotti alcolici con caffeina aggiunta, contenuti in lattine coloratissime e graficamente accattivanti e dai nomi evocativi, chiamate nel gergo giovanile «black out in lattina». L’invito ai produttori è stato quello di ritirare o modificare la composizione di queste bevande in quanto «pericolose per la salute». Secondo le sue abitudini la FDA ha poredisposto anche un documento informativoper il pubblico. Ma oltre al divieto al commercio o alle avvertenze ai consumatori, secondo Scafato: «E’ importante una buona informazione. In tutti i locali dove si distribuiscono bevande alcoliche sono esposte le tabelle predisposte dall’Istituto Superiore di Sanità che indicano le quantità di bevande con cui si raggiungono concentrazioni a rischio. E chiunque può rilevare che oltre alle quantità assunte hanno un’influenza notevole l’età, il sesso, il peso corporeo. Inoltre è necessario un cambiamento culturale: i giovani devono capire che ci si può emozionare e divertire anche senza sostanze e senza doping, alcol o caffeina che siano.»




Maria Rosa Valetto

4 apr 2011


dossier

Generazione Alzheimer


I dieci sintomi premonitori


1. Perdita di memoria che compromette la capacità lavorativa. E' normale, di quando in quando, dimenticare un compito, una scadenza o il nome di un collega, ma la dimenticanza frequente o un’inspiegabile confusione mentale a casa o sul lavoro può significare che c’è qualcosa che non va.

2. Difficoltà nelle attività quotidiane. Una persona molto impegnata può confondersi di tanto in tanto: per esempio dimenticare qualcosa sui fornelli accesi o non ricordare di servire parte di un pasto. Il malato di Alzheimer potrebbe preparare un pasto e non solo dimenticare di servirlo ma anche scordare di averlo fatto.

3. Problemi di linguaggio. A tutti può essere capitato di avere una parola “sulla punta della lingua”, ma il malato di Alzheimer può dimenticare parole semplici o sostituirle con parole improprie rendendo quello che dice difficile da capire.

4. Disorientamento nel tempo e nello spazio. E’ normale dimenticare che giorno della settimana è o quello che si deve comprare, ma il malato di Alzheimer può perdere la strada di casa, non sapere dove è e come ha fatto a trovarsi là.

5. Diminuzione della capacità di giudizio. Scegliere di non portare una maglia o una giacca in una serata fredda è un errore comune, ma un malato di Alzheimer può vestirsi in modo inappropriato, indossando per esempio un accappatoio per andare a fare la spesa o due giacche in una giornata calda.

6. Difficoltà nel pensiero astratto. Compilare un libretto degli assegni può essere difficile per molta gente, ma per il malato di Alzheimer riconoscere i numeri o compiere calcoli può essere impossibile.

7. La cosa giusta al posto sbagliato. A chiunque può capitare di riporre male un portafoglio o le chiavi di casa. Un malato di Alzheimer, però, può mettere questi e altri oggetti in luoghi davvero singolari, come un ferro da stiro nel congelatore o un orologio da polso nel barattolo dello zucchero, e non ricordarsi come siano finiti là.

8. Cambiamenti di umore o di comportamento. Tutti quanti siamo soggetti a cambiamenti di umore, ma nel malato di Alzheimer questi sono particolarmente repentini e senza alcuna ragione apparente.

9. Cambiamenti di personalità. Invecchiando tutti possiamo cambiare la personalità, ma un malato di Alzheimer la può cambiare drammaticamente: da tranquillo diventa irascibile, sospettoso o diffidente.

10. Mancanza di iniziativa. E' normale stancarsi per le faccende domestiche, il lavoro o gli impegni sociali, ma la maggior parte della gente mantiene interesse per le proprie attività. Il malato di Alzheimer lo perde progressivamente: in molte o in tutte le sue solite attività. Utilizzato con il consenso dell’Alzheimer Association - USA



Per la «generazione Alzheimer»
serve un piano d'emergenza

Il nostro Paese non è pronto ad affrontare il prevedibile aumento del numero dei malati nei prossimi decenni


(Coerbis)
MILANO - Se il costo delle cure per la demenza fosse il bilancio di una nazione, questa sarebbe la 18esima al mondo per valore economico, 604 miliardi di dollari, pari all'1% del Pil mondiale. Secondo il Rapporto mondiale di Alzheimer Disease's International, pubblicato a settembre 2010, oggi nel mondo le persone affette da demenza sono 35,6 milioni: ebbene questo numero è destinato a raddoppiare nel 2030 e triplicare nel 2050. In Europa è previsto un aumento del 34% in questo decennio. Negli Stati Uniti hanno fatti i loro conti e hanno pubblicato, a gennaio, un'analisi chiamata Generation Alzheimer report: calcola, per esempio, che dei 10 milioni americani che quest’anno compiono 65 anni uno su 8 si ammalerà di demenza e che, tra quelli che supereranno gli 85 anni, i malati saranno 1 su 2. Risultato: oggi negli Usa si spendono 172 miliardi di dollari, nel 2050 serviranno più di mille miliardi.

Queste sono le cifre che giustificano il termine emergenza, senza timore di essere accusati di allarmismo. Meno di un mese dopo il rapporto sulla Generazione Alzheimer, Obama ha avviato una legge (National Alzheimer's Project Act) per coordinare ricerca, cure e assistenza pubblica e privata. In altri Paesi europei (Danimarca, Scozia e Inghilterra, Finlandia e Portogallo) sono partiti piani governativi per affrontare l’emergenza e strutture evolute sono presenti in Francia, Spagna e Germania. E in Italia? Noi in verità eravamo partiti bene, con il progetto Cronos, avviato nel 2000, che prevedeva l'istituzione sul territorio di circa 700 Uva (Unità di valutazione Alzheimer) che avevano il compito di individuare i malati, valutarne il grado di compromissione, mettere a punto le terapie possibili e fornire i farmaci per i primi mesi, collaborando poi con i medici di famiglia. L’obiettivo era quello di creare una rete di centri di riferimento specialistici.

«Il progetto Cronos è stato sicuramente un passo avanti per i malati e le loro famiglie», dice Gabriella Salvini Porro, presidente della federazione Alzheimer Italia, la principale associazione che si occupa delle demenze. «È stata una reale opportunità anche se l'integrazione tra assistenza e terapia non è stata sufficiente. In pratica si è troppo spesso prescritto solo farmaci e non ci si è presi cura in modo globale del malato». Ora però, compiuti dieci anni, il Progetto appare indebolito, sfaldato: attualmente le Uva dovrebbero essere 503, ma mostrano una grande disomogeneità. E non si sa nemmeno esattamente quali e dove sono, anche perché in alcune regioni hanno cambiato nome e funzioni e spesso mancano elenchi ufficiali.

«Non si capisce come le famiglie possono individuare il centro di cura dove portare il congiunto», ha denunciato in un recente convegno Nicola Vanacore dell'Istituto superiore di Sanità. Anche per questo in Lombardia è stato condotto un censimento (e una valutazione) delle strutture che si occupano dei malati con demenza, condotto dall'Istituto Mario Negri e dalla federazione Alzheimer Italia, con l'obbiettivo di realizzare una banca dati online. Inoltre, ha aggiunto Vanacore, «accanto a realtà d'avanguardia c'è un 25 per cento di Uva che sono aperte un solo giorno alla settimana e un 8 per cento in cui è presente, quando può, un solo medico». È il tipico ritratto della sanità italiana: da una parte centri di vera eccellenza (e alcuni lo erano già da prima del progetto), che hanno cercato di sviluppare i propri compiti verso l’assistenza ai malati e alle loro famiglie, dall'altra strutture burocratiche e vaste aree del Paese scoperte. «I finanziamenti con cui sono nate le Uva servivano praticamente solo per i farmaci, tranne una piccola parte per la ricerca», ricorda Giuseppe Magnani del dipartimento dei disturbi della memoria dell’Istituto di neurologia del San Raffaele di Milano. «Per il resto hanno dovuto arrangiarsi con le strutture e il personale esistente, tenendo conto che i pazienti con demenza richiedono molto impegno e molto tempo. E che serve personale specializzato, per esempio gli psicologi. E così ci sono quelli che si sono dati da fare, soprattutto per trovare le risorse, altri che si sono limitati al minimo. Ora servirà ben altro: è necessario rifinanziare, potenziare i centri, dare loro maggiori risorse». Perché anche i migliori oggi sono ricompensati con un enorme carico di lavoro e una domanda crescente, che resta spesso insoddisfatta.

Serviranno dunque, di fronte all’emergenza della «generazione Alzheimer», nuove risorse per ridare vigore ed estendere la rete di orientamento. Serviranno più soldi per la ricerca specifica, anche se l’emergenza arriverà probabilmente troppo presto per i tempi lunghi della scienza. Serviranno quindi soprattutto massicce risorse per un piano nazionale di assistenza. In Italia il costo dei pazienti non autosufficienti, in generale, ricade per la maggior parte sulle famiglie, perché, rispetto all'Europa, sono meno diffusi i servizi di assistenza domiciliare e residenziale. I circa 600mila pazienti italiani affetti da demenza, per i quali servono, si calcola, circa 60mila euro all'anno ciascuno (calcolando anche i mancati guadagni sia dei malati sia di chi li assiste), sono ancora più «abbandonati» degli altri. Sono i malati più scomodi, e saranno sempre di più, di cui nessuno vuole farsi carico.


Riccardo Renzi
03 aprile 2011