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30 nov 2011


22/11/2011 - attenzione ai metalli pesanti
Mercurio, rischio di avvelenamento con la dieta

Attenzione ai cibi contenenti metalli pesanti come il mercurio che possono essere una seria minaccia per la salute - Foto: ©photoxpress.com/Alexander-Potapov

Il mercurio presente in alcuni tipi di alimenti potrebbe ridurre la quantità di antiossidanti nel corpo originando serie minacce per la nostra salute

Si sa, gli antiossidanti sono molto importanti per la nostra salute e per il ruolo che giocano nella protezione cellulare. Ma se ne siamo carenti, o se questi non funzionano come dovrebbero, possono svilupparsi molte malattie: tra queste il diabete, l’Alzheimer, la malattia di Parkinson eccetera – secondo quanto riportato sulla rivista Environmental Research Letters.
Non è un caso, pertanto, che con l’aumento di tale consapevolezza il business degli integratori alimentarti sia aumentato vistosamente negli ultimi anni.

Secondo alcuni studi condotti dall’Università dell’Alaska Fairbanks, gli antiossidanti proteggerebbero anche dal cancro e dalle malattie cardiovascolari. Fin qui tutto bene, se non fosse che ci possono essere delle sostanze presenti nella nostra dieta, come il mercurio, che intaccano gli antiossidanti rendendoci più vulnerabili a certi tipi di malattie.
Per arrivare a tale conclusione, i ricercatori hanno analizzato 12 cani di razza husky. La scelta di utilizzare dei cani è partita dalla constatazione che essi condividono le nostre stesse risposte di invecchiamento, funzione immunitaria, cognitiva e tossicologica.
«Le quantità di mercurio presenti nel salmone sono ben al di sotto dei limiti imposti dall’Environmental Protection Agency e i benefici per la salute rispetto ai prodotti alimentari trasformati sono ancora abbastanza significativi. Tuttavia, il fatto che gli indici di salute possono essere compromessi da livelli di mercurio indica che il controllo deve continuare e che la quantità di mercurio deve essere costantemente monitorata», spiega il professor Kriya Dunlap, autore principale dello studio.

Dai dati rilevati dalla dieta degli husky, infatti, che comprendeva carne e pesce, si è potuto dimostrare la loro maggiore esposizione al mercurio e di conseguenza si è verificata una diminuzione dei livelli di antiossidanti presenti nel corpo.
Perciò, se da un lato molti nutrizionisti ritengono che bisogni assumere quantità di pesce abbastanza elevate per mantenere il benessere del nostro organismo, è pur vero che aumentando la dose di pesce, aumenta anche quella di mercurio.

Si ricorda che i pesci che contengono maggiori quantità di mercurio sono generalmente i “grandi predatori”, quelli, cioè, che sono ai vertici della catena alimentare come il tonno, la verdesca e il pescespada. Più il pesce è “grande”, più potrebbe contenere mercurio. Paradossalmente, il tonno in scatola sembra essere più sicuro di quello fresco, poiché che il primo viene pescato in mari meno inquinati. Anche i pesci di allevamento generalmente sono più sicuri – tenendo tuttavia presente che nei mangimi con cui sono alimentati potrebbero esserci concentrazioni elevate di mercurio.
Insomma, è difficile capire esattamente quali e quanti veleni possiamo portare ogni giorno in sulla nostra tavola – come sempre l’equilibrio, anche duranti i pasti, è d’obbligo. Così come è importante saper scegliere.
[lm&sdp]

29 nov 2011


Difficoltà nel restare incinta: la medicina cinese aiuta


MTC sembra raddoppiare le possibilità di concepimento rispetto ai trattamenti tradizionali
Non è la prima volta che accade e sempre più studi lo confermano: la medicina antica – che si tratti di quella cinese o indiana – talvolta si rivela più efficace di quella moderna. E tale efficacia si è dimostrata anche nell’arduo compito di aumentare la fertilità nelle donne. Compito che non sempre riscontra risvolti positivi con le terapie tradizionali che, tra l’altro, non sono prive di effetti collaterali.

Secondo la dottoressa Karin Ried e colleghi ricercatori dell’Università di Adelaide, in Australia, si aprono tuttavia nuovi spiragli sul fronte concepimento. Analizzando 13 studi e diversi casi clinici che mettono a confronto le terapie occidentali con quelle della medicina tradizionale cinese (MTC), si è potuto constatare l’estrema validità di quest’ultima.
Lo studio, finanziato dal governo australiano, includeva in totale quasi 2.000 casi di donne con problemi di fertilità che hanno tratto giovamento dalla terapie della MTC. Le singole sperimentazioni hanno portato a un aumento di 3,5 volte la possibilità di portare a termine una gravidanza nel giro di soli quattro mesi di trattamento. Mentre i rapporti relativi a uno studio eseguito su 616 donne ha mostrato un aumento del 50 percento di efficacia, rispetto al 30 percento di chi seguiva una normale terapia “occidentale”.

Nel complesso, i risultati erano ancora migliori: essi, infatti, mostravano un aumento di due volte la possibilità di avere un bambino nel giro di quattro mesi, se paragonato a un approccio ortodosso.
«La nostra meta-analisi suggerisce che la Medicina Tradizionale Cinese a base di erbe può essere più efficace nel trattamento della sterilità femminile – raggiungendo in media un tasso di gravidanza del 60 percento nell’arco di quattro mesi rispetto al 30 percento ottenuto con trattamento farmacologico occidentale standard», riportano gli autori su Complementary Therapies in Medicine, dove è stato pubblicato lo studio.

Ma perché la MTC è sarebbe più efficace dei trattamenti occidentali? Secondo i ricercatori, la differenza è dovuta all’approccio medico di gran lunga più dettagliato di quello utilizzato in Occidente. Il personale esperto in MTC, infatti, analizza con attenzione e maggiori attenzioni il ciclo mestruale della donna, il periodo in cui è possibile concepire, e altri fattori che, in genere, sono considerati dagli specialisti occidentali.
[lm&sdp]

25 nov 2011


For one thing there is a dramatic rise in prevalence. Eczema, hay fever, asthma, and potentially life-threatening allergies to certain foods, drugs or other substances, have become alarmingly common: the World Allergy Organization White Book on Allergy 2011–2012 estimates that about 30–40% of the world's population is affected by one or more allergic conditions.

As allergies spread, our understanding of them is changing. For 40 years, from its first identification in the 1960s, immunoglobulin E (IgE) was the focus of the field. As the physiological processes of hypersensitive reaction were described, chemical mediators identified and drivers of those mechanisms pinned down, it began to look as though control of the IgE pathways would open the way to allergy prevention and effective therapies. Epidemiology could also expect more evidence from geneticists equipped with new tools for hypothesis-free association studies thanks to advances in genome sequencing (page S10). This Outlook, however, is not a triumphant account of strategies that overcame allergy. Recent exploration of the complexities of the adaptive immune system has turned some assumptions about allergies upside down, and researchers are swimming in unfamiliar waters.

Asthma, for instance, develops and responds in many different ways, not all triggered by allergy. It is better understood not as one disease, but many (page S20). Defects in skin and other epithelial barriers, once considered as symptoms of allergy, are being re-evaluated as potential primary causes (page S12). And, while environmental and lifestyle changes have been linked to the rising prevalence of allergy (page S2), attention to the role of gut-dwelling microbes has given a new dimension to the concept of a crucial balance toppled, with the human body seen not as a single organism but a complex ecosystem (page S5).

We are pleased to acknowledge the financial support of Nestlé Research Center in producing this Outlook. As always, Nature retains sole responsibility for all editorial content.

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Consultant Editor
Roger East

24 nov 2011




Arriva il test genetico per la degenerazione maculare senile

In nuovo esame permette di conoscere il rischio di sviluppare
la malattia nei soggetti sani



MILANO - Scoprire per tempo la predisposizione genetica a sviluppare la degenerazione maculare senile e attuare subito strategie preventive è oggi possibile grazie a un nuovo kit di diagnosi genetica che verrà presentato in occasione del prossimo Congresso della Società oftalmologica italiana, che si terrà a Milano dal 23 al 26 novembre.

Il TEST - Il nuovo esame, calibrato su circa 12mila persone affette dalla malattia, si basa su un semplice prelievo di DNA, ottenuto strisciando uno spazzolino sulla mucosa della bocca. L’esame, che può essere eseguito presso l’oculista, è in grado di individuare gli eventuali polimorfismi associati alla degenerazione maculare senile con una sensibilità che supera l’80%. «Oggi sappiamo che sono diversi i fattori che possono favorire lo sviluppo della degenerazione maculare senile – spiega Alfredo Pece, primario della Divisione di oculistica dell’Ospedale di Melegnano e presidente della Fondazione Retina3000 di Milano -. Tra questi rientrano, oltre all’età avanzata, fattori ambientali e collegati allo stile di vita (come l’eccessiva esposizione alla luce solare, il fumo, abitudini alimentari scorrette), nonché aspetti genetici. Si stima, in particolare, che le cause della malattia dipendano per circa il 70% da fattori genetici di predisposizione». Da qui l’importanza di poter disporre di uno strumento in grado di quantificare il rischio genetico “puro” di sviluppare la malattia dopo i 60 anni in soggetti sani e nei consanguinei di soggetti ammalati. Ma non solo, il nuovo kit può fornire anche altre informazioni preziose come riferisce il professor Stefano Piermarocchi, docente di oftalmologia presso il Policlinico universitario di Padova: «È possibile conoscere il rischio di sviluppare una forma avanzata della malattia in soggetti già ammalati, qual è il rischio di svilupparla nel secondo occhio e, infine, prevedere se il paziente risponderà bene alle cure con i più recenti farmaci anti-angiogenici (anti-VEGF)».

LE RICADUTE – Ma quali sono i benefici che possono derivare dal conoscere in anticipo il proprio destino? «L’individuazione dei soggetti con un rischio genetico elevato ci permette di mettere in atto interventi di prevenzione per ridurre le possibilità di ammalarsi o rallentare l’evoluzione della malattia – riferisce Piermarocchi -. Eliminare il fumo di sigaretta, proteggere gli occhi dalle radiazioni solari, assumere eventualmente specifici integratori antiossidanti sono tutte strategie preventive. Non solo, di fronte a un soggetto a rischio il medico può proporre un più stretto monitoraggio e calibrare meglio le terapie in chi è già malato: se si sa a priori che i farmaci anti-VEGF hanno poche possibilità di funzionare, si può pensare di ricorrere ad altri strumenti terapeutici comunque validi».

LA MALATTIA – La degenerazione maculare senile è la più comune causa di cecità legale sopra i 60 anni. Colpisce tra l’8,5 e l’11% della popolazione di età compresa tra i 65 e i 74 anni, e sopra i 74 anni interessa quasi una persona su tre. Si tratta di una malattia della retina legata all’invecchiamento che inizia con la formazione di depositi, le drusen, e può evolvere in due complicanze: la prima, più lenta e meno rapidamente invalidante, viene chiamata atrofia geografica ed è anche conosciuta come forma “secca”. La seconda più rapida nel compromettere la vista si chiama forma neovascolare o “umida”. Uno dei primi sintomi della malattia è dato dalla distorsione delle linee rette nella zona visiva centrale: se questo inconveniente dura per più di un giorno bisogna sottoporsi con urgenza a una visita oculistica. Tra gli altri disturbi visivi che possono far supporre la presenza di degenerazione maculare ci sono anche diminuzione della vista, immagini offuscate, difficoltà a distinguere i colori, perdita della visione centrale a causa di spazi bui o vuoti. Per confermare i sospetti si ricorre ad alcuni esami diagnostici: l’esame del fondo oculare; l’OCT (tomografia a coerenza ottica), la fluoroangiografia e, in alcuni casi, l’angiografia con verde di indocianina. Molto utile per la valutazione dell’atrofia geografica è la visualizzazione dell’autofluorescenza del fondo oculare.

LE CURE - Per ora non esistono cure definitive, ma solo alcuni trattamenti in grado di evitare ulteriori peggioramenti della vista. Per la forma umida la cura rivelatasi più valida in molti casi è l’iniezione nel vitreo di inibitori del fattore di crescita dell’endotelio vasale (VEGF), molecola chiamata in causa nello sviluppo dei nuovi vasi. Oltre a limitare il danno, un intervento precoce è anche più efficace sulla lesione neovascolare. Attualmente sono in corso alcuni studi per la valutazione di altri farmaci o la loro combinazione. Tuttavia non vanno dimenticati altri trattamenti utili in alcuni casi, quali la terapia fotodinamica e la fotocoagulazione laser. Discorso molto diverso per l’atrofia geografica: per ora non c’è nessuna possibilità di trattamento anche se sono in corso diversi studi clinici per la valutazione di nuove terapie.

Antonella Sparvoli

21 nov 2011




Il ritorno dello scorbuto
Per una dieta sbagliata

Il caso di una dottoressa che si diagnostica la malattia «dei marinai» e dell'unica collega che le crede



I limoni da sempre rappresentano un antidoto naturale allo scorbuto
MILANO - Non molti erano disposti a credere a Simona Ghiozzi quando le balenò in testa che la causa di tutti i suoi guai potesse essere lo scorbuto, la carenza di vitamina C che un tempo affliggeva i marinai che per mesi navigavano senza toccare terra e senza perciò mangiare frutta e verdura fresche. Possibile che quella ragazza milanese, medico di poco più di trent'anni, nel 2010 avesse una malattia tanto "antica"?

La sua storia inizia quando ha tre anni e si scopre che è allergica a noci e frutta secca. «Eliminandole dalla dieta tutto è andato bene fino all’adolescenza — racconta —. Poi, dopo i vent'anni, ho iniziato a stare di nuovo male. Non riuscivo a capire che cosa mi desse fastidio, nel tempo ho eliminato moltissimi cibi, finché, due anni fa, il verdetto: mi dicono che sono allergica a frutta e verdura. Così ho smesso di mangiare anche i pomodori, gli ultimi vegetali che continuavo a concedermi».

Nel gennaio del 2009 Simona sta di nuovo bene, non ha disturbi. Ma nel giro di un paio di mesi arrivano nuovi problemi: le gambe si riempiono di petecchie, macchie rosse segno di piccole emorragie sotto l'epidermide. Gli ematologi e i dermatologi pensano a un disturbo dei vasi sanguigni, ipotizzando una vasculite; poco tempo dopo la ragazza comincia a perdere sangue con le feci e gli specialisti le danno una cura per l'infiammazione dei vasi, somministrandole cortisone ad alte dosi assieme a farmaci per proteggerle lo stomaco (la melena, così si chiama la grossa perdita di sangue con le feci, dipende di solito da emorragie allo stomaco). A questo cocktail aggiungono un supplemento di ferro e vitamina C, sempre utili in caso di emorragie: il ferro contrasta l'anemia dovuta alla perdita dei globuli rossi, la vitamina C rinforza i vasi sanguigni.

Simona risolve i suoi disturbi, ma tutti danno il merito al cortisone e nessuno può immaginare che il miglioramento abbia a che fare con la vitamina C. Dopo qualche mese, nel dicembre del 2009, si decide di sospendere la terapia perché tutto sembra sotto controllo. Di nuovo, nel giro di un paio di mesi Simona torna a stare malissimo: la pelle si copre ancora di lividi e petecchie. Riprende solo il cortisone, ma stavolta non funziona e con il passare dei mesi le sue condizioni si aggravano finché, a novembre, non riesce più a respirare bene: le viene il fiatone solo a fare due passi, è costantemente in affanno. Viene ricoverata all'ospedale Sacco di Milano e qui incontra la cardiologa e internista Maria Teresa Landoni, che prende a cuore il suo caso. La dottoressa Landoni scopre che Simona è gravemente anemica (ha un tasso di emoglobina nel sangue pari a 7 grammi per decilitro, il limite è 12) e, per chiarire la causa della mancanza di respiro, la sottopone a un'ecocardiografia che rivela una grave ipertensione polmonare: la pressione nei polmoni è a 75 mmHg (il valore soglia è 25), in queste condizioni il sangue non arriva bene ai polmoni, non viene ossigenato a sufficienza e il cuore si affatica, non pompa più il sangue in circolo come dovrebbe.

«L'elettrocardiogramma di Simona però era normale e, alla TAC polmonare, non si rilevavano emboli che potessero spiegare il suo problema. Così l'abbiamo trasfusa e dimessa dopo 5 giorni — racconta Landoni —. Dopo due settimane tuttavia è tornata, stavolta con un’emoglobina a 4 grammi per decilitro: abbiamo temuto il peggio, era piena di ecchimosi e perdeva sangue nelle feci, dalle gengive. A quel punto però Simona si era documentata e aveva cominciato a supporre che la sua dieta senza frutta e verdura potesse averle causato un deficit importante di vitamina C e quindi lo scorbuto. Tutti i sintomi tornavano: i vasi sanguigni debolissimi, le emorragie, l'anemia, l'ipertensione polmonare e lo scompenso cardiaco, che arrivano quando la malattia è in fase avanzata e in passato uccidevano i marinai».

«A un certo punto è stato come fare due più due — dice Simona —. Quando, quasi due anni prima, avevo avuto le prime manifestazioni, un collega mi aveva suggerito di prendere un po' di vitamina C assieme al cortisone, perché, anche se allora si pensava a una vasculite su base autoimmune, "di certo - mi aveva detto - non può farti male". E io ero stata bene solo allora». Maria Teresa Landoni ricorda ancora i colleghi che guardavano Simona molto perplessi, ma la cardiologa si convince che la sua paziente potrebbe avere ragione e la sottopone al dosaggio della vitamina C nel sangue. «I livelli normali vanno da 460 a 1940 milligrammi per decilitro, lei non arrivava a 100 — spiega —. Simona ha quindi cominciato ad assumere 20 gocce al giorno di vitamina C ed è rifiorita: tutto si è risolto in pochi giorni, l'ipertensione polmonare è scomparsa, il cuore è tornato a lavorare al meglio, i sintomi sono spariti. Ora continua a prendere vitamina C e sta benissimo».

La sua vicenda, secondo la cardiologa, dovrebbe farci riflettere: i casi di scorbuto oggi sono per fortuna rari e quasi sempre riguardano persone indigenti, che non riescono ad alimentarsi come dovrebbero, o gli alcolisti, perché l'alcol aumenta l'eliminazione della vitamina C. Sono però tantissimi quelli che si imbarcano in diete sbilanciate, e di rado per motivi medici, come nel caso di Simona: i più rinunciano a nutrienti di varia natura per dimagrire o "purificarsi", o magari perché si convincono di essere "intolleranti" a una serie di alimenti; poi ci sono i tanti pazienti con disturbi del comportamento alimentare come l'anoressia. Tutti sono esposti al rischio di carenze che possono portare a malattie vere e proprie.

Così, ad esempio da circa un decennio si parla di recrudescenza del rachitismo in Europa e Usa, con casi in aumento soprattutto nei bambini immigrati: poca vitamina D dai latticini (se la mamma in gravidanza non ne consuma abbastanza la carenza si ripercuote sul piccolo), scarsa esposizione al sole ed ecco che le ossa si indeboliscono, specialmente quelle delle gambe. E chissà che non tocchi rivedere casi di pellagra, molto diffusa anche in Italia fino alla metà del secolo scorso e provocata da uno scarso apporto di niacina (vitamina PP), o perfino il beri-beri, una malattia che provoca seri sintomi neurologici ed è dovuta alla carenza di vitamina B1. La niacina è abbondante in carne, pesce, legumi e frutta secca; la vitamina B1 si trova nei cereali integrali e nei legumi. Qualsiasi regime alimentare ragionevole non dovrebbe provocare deficit, ma la fantasia di chi sta a dieta non conosce limiti e così Simona conclude: «Se una persona si alimenta in modo inconsueto e ha sintomi insoliti è bene pensare anche all'ipotesi di uno stato carenziale o una malattia da malassorbimento. Scorbuto e simili non sono solo malattie del passato».

Elena Meli

19 nov 2011


Nature | News
Targeted treatment tested as potential cancer cure
Trial will deploy genetically targeted therapy early, rather than as last resort.

Erika Check Hayden 16 November 2011

After Van VanderMeer was diagnosed with advanced lung cancer, the results of a genetic test offered some hope. Last year, the 64-year-old lawyer learned that his cancer featured a genetic rearrangement that might render it vulnerable to a drug being tested in clinical trials. But because the experimental drug, crizotinib, was being given only to patients who had failed chemotherapy, VanderMeer had to wait for more than a year to gain access to the drug. Even though VanderMeer's tumours had by then spread to both of his lungs, crizotinib vaporized them within two weeks.

VanderMeer is now doing well and hoping to continue beating the disease: more than half of patients who take the drug, made by Pfizer of New York, seem to have a better prognosis than do those who didn't receive treatment. But what if VanderMeer had started taking it sooner?

Now oncologists, pathologists and geneticists are hoping to answer that question with a study that will test whether genetically targeted treatments, applied soon enough, can cure patients of lung cancer rather than buying them a few extra months of life.

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Targeted therapies have now been approved for many cancers, and it has become routine for major cancer centres to genotype patients' tumours to determine whether they might benefit from targeted drugs, in case standard treatments fail. But the clinical trial, which will be conducted by the Alliance for Clinical Trials in Oncology, a nationwide group funded by the US National Cancer Institute in Bethesda, Maryland, will test whether using targeted treatments earlier can prevent patients with lung cancer from ever reaching that point.

In the trial, tumours will be genotyped after surgery to determine whether mutations are present in a gene encoding epidermal growth factor receptor (EGFR). Mutations in this gene are targeted by many molecular therapies, including erlotinib and gefitinib, which are approved for the treatment of advanced lung cancer. Some of the patients who have EGFR mutations will begin taking erlotinib after surgery, instead of waiting to see whether their cancer recurs.

Although similar approaches have been tested in smaller trials, yielding mixed results, organizers say that a larger, better-defined study is needed to provide a clear answer.

“We have never tested these drugs in the right population,” says oncologist Ramaswamy Govindan of Washington University in St Louis, leader of the trial. “We have never tested a group of patients who have mutations in EGFR and then asked the question, 'could these patients be cured by gefitinib or erlotinib?'”




ExpandSOURCE: L. V. SEQUIST ET AL. ANN. ONCOL. (2011)
He hopes to expand the analysis to include crizotinib, which targets a different genetic rearrangement and was approved by the US Food and Drug Administration in August. Other targeted therapies are in the pipeline. In a 9 November paper, for instance, a consortium of researchers from Massachusetts General Hospital and Harvard Medical School, both in Boston, and Yale University in New Haven, Connecticut, describe the results of a study that tested more than 500 patients with non-small cell lung cancer (L. V. Sequist et al. Ann. Oncol. http://dx.doi.org/10.1093/annonc/mdr489; 2011). The authors examined mutations in several genes relevant to therapies that have been approved or are in development (see 'Identifying targets'). Of the 353 patients with the most advanced lung cancers, 22% were matched to clinical trials appropriate for their cancer type.

The Alliance trial will be logistically difficult. Only 10–20% of patients with non-small cell lung cancer have mutations in the EGFR gene; only 20% of patients are diagnosed early enough to benefit from surgery; and only a fraction of patients with the appropriate mutations will actually gain any advantage from targeted treatments. To reach their target of 400 participants, Govindan and his colleagues may need to screen as many as 1,500 people.

VanderMeer, for one, hopes that the efforts pay off — and spare other patients from what he calls the “blunderbuss” of chemotherapy.

Il linguaggio del cane. Capisci cosa dice il tuo cane?

Il linguaggio del cane. Capisci cosa dice il tuo cane?


Un momento prima del concepimento la cellula uovo (in viola nella foto al microscopio elettronico) è circondata da diversi spermatozoi e circondata dalla zona pellucida, una membrana che protegge e avvolge l'ovulo e contiene i recettori per le cellule riproduttrici maschili. Un recente studio statunitense pubblicato sulla rivista scientifica The British Journal of Pharmacology ha evidenziato come le future mamme non debbano esagerare con il caffè. Se una tazzina al risveglio è un piacere, le donne che desiderano un figlio farebbero meglio a non abbondare con la caffeina, che sembra avere ripercussioni negative sulla fertilità. Assunta in abbondanza, secondo i ricercatori, potrebbe interferire con i movimenti contrattili delle tube di Falloppio, i condotti che fanno transitare la cellula uova nel suo viaggio dall'ovaio all'utero.

18 nov 2011




In antichità c'era chi li considerava il fulcro dell'attività vitale del corpo umano. In effetti, senza i reni - e in particolare senza le loro unità fondamentali, i nefroni - il nostro organismo non subirebbe quella giornaliera attività di pulizia dalle scorie che lo mantiene sano e in equilibrio. In ciascuno dei reni sono presenti più di un milione di nefroni, la cui parte più estesa, i tubuli renali (nella foto al microscopio) trasforma in urina il filtrato dei glomeruli, una rete di capillari sanguigni che si occupa di ripulire il sangue in transito nelle arterie renali dai materiali di scarto. Questa sofisticata catena di montaggio depura ogni giorno circa 150-170 litri di sangue.

16 nov 2011


Medicina
L'importanza delle vitamine
Poca vitamina C, rischio insufficienza cardiaca letale

livelli di vitamina C nell’organismo espongono al rischio di infiammazione e malattie cardiache fatali
Al pari di altre, la vitamina C è importante per il buon funzionamento dell’organismo e, se questa è poco presente e i livelli nel corpo sono troppo bassi, si può per contro verificare un innalzamento dei livelli di una proteina denominata hs-CRP. A detta dei ricercatori dell’Università di Ulsan in Corea del Sud, questo fattore può essere causa di infiammazione e patologie cardiache.

Gli scienziati coreani hanno presentato i risultati della loro ricerca all’American Heart Association Scientific Sessions, ribadendo che una scarsa assunzione di vitamina C, affiancata alla presenza di oltre 3 milligrammi per litro di sangue della proteina hs-CRP, espone al doppio delle probabilità di morire per malattie cardiovascolari.
Questo studio, riferiscono i ricercatori, è il primo a dimostrare il collegamento tra bassi livelli di vitamina C e possibili eventi infausti per i malati di cuore. «Abbiamo scoperto che un adeguato apporto di vitamina C era associato a una sopravvivenza più lunga nei pazienti con insufficienza cardiaca», spiega Eun Kyeung Song, assistente professore in scienze infermieristiche, College of Medicine, dell’University of Ulsan e coautore dello studio.

I partecipanti allo studio erano 212, con un’età media di 61 anni. Il 45 per cento circa dei volontari aveva una diagnosi da moderata a grave insufficienza cardiaca. Un terzo di questi erano donne.
Durante il periodo di test, durato quattro giorni, i partecipanti dovevano completare un diario alimentare verificato da un nutrizionista. Al tempo stesso, un software calcolava la loro assunzione di vitamina C. Infine, per mezzo di esami del sangue si è misurata la presenza e i livelli di hs-CRP.
In questa circostanza i ricercatori hanno scoperto che 82 pazienti (il 39 per cento) avevano un’inadeguata assunzione di vitamina C, secondo un criteri stabiliti dall'Institute of Medicine.
Dopo di ciò, i ricercatori hanno diviso i partecipanti in due gruppi: un primo gruppo che presentava livelli di oltre 3 mg per litro di hs-CRP; un secondo gruppo con livelli più bassi.
Terminata la prima fase dello studio, i pazienti sono stati seguiti per un anno. In questo periodo s’intendeva determinare il lasso di tempo trascorso dalla loro prima visita al pronto soccorso a causa di problemi cardiaci o morte.

Terminato il periodo di follow-up, un anno dopo, il 29 per cento dei pazienti – ossia 61 pazienti – è stato vittima di eventi cardiaci. I problemi relativi alla salute cardiovascolare sono stati rilevati per mezzo di una visita ricevuta al pronto soccorso, un ricovero o la morte del paziente.
Dai dati raccolti, i ricercatori ritengono dunque che bassi livelli di vitamina C – a causa di una scarsa assunzione – abbinati a livelli di hs-CRP elevati possa essere causa di problemi cardiaci che possono portare anche alla morte.

Anche se non soffriamo di insufficienza cardiaca, non dimentichiamo di assumere giuste quantità di vitamina C; questo non solo ci può fare bene, ma può anche essere un aiuto nella prevenzione delle malattie. In questa stagione i modi per fare il pieno di questa vitamina non mancano: ricordiamoci di includere nella nostra dieta alimenti che ne sono naturalmente ricchi come, per esempio, arance e kiwi.
[lm&sdp]

15 nov 2011


taiwan


Aromaterapia, possibili
rischi per la salute?

Senza adeguata ventilazione, nelle stanze dei trattamenti si possono accumulare sostanze dannose



Aromaterapia: nelle stanze dei trattamenti deve esserci adeguata ventilazione
MILANO- Farsi massaggiare con gli oli essenziali usati per l'aromaterapia è un'abitudine che può rivelarsi pericolosa? La pulce nell'orecchio la mette uno studio dell'università di Tainan, a Taiwan, secondo cui nell'aria delle spa dove si fa ampio uso di prodotti aromaterapici e oli essenziali si possono trovare livelli elevati di inquinanti ambientali potenzialmente dannosi come i composti organici volatili o il particolato ultrafine.

STUDIO – L'allarme arriva da una ricerca pubblicata su Environmental and Engineering Science per la quale i ricercatori hanno testato alcune fragranze e oli essenziali derivati da erbe cinesi in una camera ad ambiente controllato, per verificare se e quanto dessero luogo alla formazione di aerosol organici secondari. Inoltre, hanno condotto alcuni test in due spa che fanno uso di prodotti per aromaterapia, soprattutto per i massaggi. «Gli oli essenziali derivati dalle piante possono rilasciare composti organici volatili; questi, reagendo con l'ozono presente nell'aria, si degradano formando prodotti secondari ultrafini, gli aerosol organici, che possono provocare irritazioni agli occhi e alle vie aeree», spiega Der-Jen Tsu, coordinatore della ricerca. I risultati delle analisi dimostrano che praticamente tutti gli oli essenziali testati sono in grado di rilasciare aerosol di particelle ultrafini, dal diametro inferiore ai 50 nanometri.

SPA – Non solo: durante i massaggi con oli essenziali aromaterapici, nell'aria delle stanze delle spa i ricercatori hanno rilevato quantità considerevoli di composti organici volatili e particelle ultrafini, pari a dieci volte rispetto al normale. Particolarmente capaci di “sporcare” l'aria sarebbero i prodotti a base di lavanda, menta, limone ed eucalipto e secondo Tsu bisognerebbe fare attenzione, perché i composti volatili rilasciati potrebbero rivelarsi irritanti per gli occhi e le prime vie aeree, o anche provocare mal di testa e nausea. «I livelli di inquinanti ambientali che si trovano nell'aria dopo un massaggio con oli essenziali tuttavia dipendono molto dalle caratteristiche della stanza dove si svolge il massaggio e soprattutto dalla ventilazione: se si ha l'accortezza di aerare bene i locali, i potenziali rischi dovuti a una maggior concentrazione di sostanze inquinanti si riducono tantissimo», ha spiegato Tsu. Perciò, anche se i dati dei taiwanesi andranno confermati, meglio avere l'accortezza di aprire le finestre dopo aver utilizzato gli oli essenziali, ad esempio per un bagno o un massaggio casalinghi. Ed è bene sottolineare che i prodotti aromaterapici, così come qualsiasi altro prodotto per la cura del corpo, possono provocare allergie o irritazioni cutanee: meglio non superare le dosi consigliate e, prima di usarli, fare un test su una piccola zona della pelle per vedere come reagisce.

Elena Meli



Rapiti dagli alieni?
Forse è solo un disturbo del sonno

La paralisi ipnagogica, che colpisce l'8 per cento
della popolazione, potrebbe spiegare gli episodi



Allucinazioni alla Bosch? No, un disturbo del sonno
MILANO - Possessioni demoniache, esperienze extracorporee, rapimenti di alieni: nessuno finora ha mai saputo trovare una spiegazione soddisfacente a tutto questo. C'è del vero o chi racconta questi fatti è irrimediabilmente un ciarlatano? Oggi, secondo uno studio pubblicato sulleSleep Medicine Reviews, si scopre che demoni e presenze maligne potrebbero essere il frutto niente affatto sovrannaturale di un disturbo del sonno poco conosciuto, la paralisi ipnagogica.


STUDIO – Brian Sharpless, psicologo dell'università della Pennsylvania, si è messo a rivedere i dati di 35 ricerche sul tema condotte negli ultimi 50 anni, che hanno coinvolto oltre 36mila persone in tutto il mondo. Sharpless voleva capire innanzitutto quanto è comune la paralisi ipnagogica, una condizione che si verifica più spesso nelle fasi di addormentamento o di risveglio nella quale i muscoli volontari sono paralizzati, mentre i movimenti oculari e respiratori restano intatti; nei pochi minuti di paralisi che ai pazienti sembrano eterni è come se il corpo fosse già entrato o ancora immerso in una condizione di assoluto riposo, mentre il cervello è già sveglio e attivo. In questi momenti di transizione il paziente spesso ha delle allucinazioni, e sono queste che potrebbero spiegare le strane esperienze riferite da chi sostiene di essere posseduto oppure di essere stato rapito dagli alieni. «Non c'erano finora dati precisi circa la frequenza del disturbo, così ho rianalizzato tutte le ricerche precedenti e un mio recente studio condotto in soggetti di diverse età e caratteristiche – spiega Sharpless –. I risultati indicano innanzitutto che il problema è relativamente frequente: circa l'8 per cento della popolazione ha avuto un episodio almeno una volta nella vita, ma c'è pure chi ne ha tutte le notti».

STUDENTI E PAZIENTI – La frequenza della paralisi ipnagogica si impenna però in due gruppi di persone: gli studenti giovani, dove la prevalenza arriva al 28 per cento, e i pazienti con disturbi psichiatrici, fra cui si arriva al 32 per cento od oltre (in chi soffre del disturbo di panico, ad esempio, si sale fino al 35 per cento). Tutto ciò forse si spiega con i motivi che più spesso sono alla base del problema, ovvero mancanza di sonno, stress, ritmi di vita irregolari. Il problema è assai poco piacevole, viste le allucinazioni che accompagnano la paralisi: nella maggior parte dei casi il paziente “sente” la presenza di un intruso, oppure un senso di oppressione al petto accompagnato dall'idea di essere aggrediti, oppure ancora si ha la sensazione di fluttuare al di fuori del proprio corpo e levitare. Quasi tutti sono impauriti, si sentono impotenti; moltissimi poi pensano di essersi svegliati, ma sono invece ancora immersi nel sogno. Così, ecco spiegate possessioni, rapimenti alieni ed esperienze extracorporee: secondo Sharpless è tutta colpa della “paralisi nel sonno” e delle sue allucinazioni visive, tattili, uditive e olfattive, che poi nelle diverse culture prendono “colori” diversi. Ce n'è pure testimonianza in un grande romanzo, Moby Dick, quando Ismaele “sente” un'oscura presenza malevola nella sua stanza, di notte. «Per chi soffre spesso di episodi di paralisi ipnagogica andare a dormire può essere un incubo, sono pochi quelli a cui piacciono le sensazioni provate durante le fasi di paralisi – osserva Sharpless –. Ora che sappiamo che si tratta di un disturbo non così raro, dobbiamo chiederci come riconoscerla e come aiutare i pazienti, quando la paralisi ha un impatto negativo sulle loro vite».



Elena Meli

9 nov 2011


Gelosia: donne e uomini ne soffrono per motivi diversi


+ Malattie mentali: le differenze tra uomo e donnaFemmine più sensibili all’aspetto emotivo; uomini all’aspetto sessuale. I due pianeti Marte e Venere reagiscono in modo diverso ai possibili rapporti del proprio partner con l’altro sesso
Potenza dei reality show. Oggi fanno tendenza anche nella ricerca psicologica, sostituendosi agli scienziati che analizzano i comportamenti umani.
Pensate che il reality americano “Cheaters” ha attirato l’interesse dei ricercatori e psicologi perché è stato in grado di rivelare le differenze tra donne e uomini in fatto di gelosia. Differenze che pongono ancora una volta in risalto come i due generi sessuali si approccino in modo diverso ai rapporti e quali siano i comportamenti che adottano nei diversi casi della vita di coppia.

Questa era la volta della gelosia. E il programma Tv ha dato modo di scoprire come reagiva una lei o un lui venendo a conoscenza che il proprio partner si era "visto" con qualcun altro.
La prima evidente differenza di reazione e comportamento è stata per la donna il timore che lui fosse sentimentalmente coinvolto da questa relazione, ossia se amava l’altra. Per l’uomo, invece, il più grande timore era che lei avesse avuto un rapporto sessuale con l’altro.

È buffo, per così dire, che sia un programma televisivo a mostrare come si sia evoluta la psicologia delle persone e come si comportino in determinate situazioni. Nonostante ciò, gli scienziati hanno, di seguito, fatto le loro ipotesi – basandosi anche su precedenti studi.
La prima ipotesi è che le differenze tra le reazioni siano dovute anzitutto a questioni evolutive. L’uomo è preoccupato dell’aspetto sessuale della possibile infedeltà perché il suo istinto è quello di assicurarsi la sopravvivenza della progenie e del codice genetico: per questo motivo vuole essere certo che i figli siano suoi.
Le donne, invece, sono più interessate a un compagno che si prenda cura di loro e dei loro figli: in questo caso la paura è che una rivale possa portare via il loro uomo – da qui il timore di un coinvolgimento sentimentale.

Insomma, anche se non ce ne rendiamo conto, spesso reagiamo alle situazioni spinti dall’istinto più che dalla ragione. Un istinto che, tuttavia, non è da demonizzare perché è anche grazie a lui che l’essere umano si è potuto moltiplicare ed evolvere nel tempo. Quello stesso istinto che, spesso, ci ha salvato da situazioni pericolose in cui non c’era tempo di ragionare.
Ragioniamoci.
[lm&sdp]

Stress, uomini e donne reagiscono in modo diverso

Uomini e donne reagiscono in modo diverso allo stress: da uno studio i maschi ne uscirebbero più suscettibili - Foto: ©photoxpress.com/Christopher Hall

C’è chi si “stressa” per un nonnulla; chi invece sopporta situazioni estreme senza far troppa fatica. Eh sì, è proprio vero che ognuno di noi è diverso. Ma tale diversità, secondo un team di ricercatori dell’Università della Florida, non cambia solo da soggetto a soggetto, ma anche a seconda che si tratti di un uomo o una donna.

Per arrivare a tale conclusione, il coordinatore della ricerca, dottor James Harnsberger, ha preso in esame persone che venivano considerate molto “impegnate”, ovvero che facevano parte attivamente di gruppi, siano essi comunitari, religiosi o altro.
I membri, partecipanti allo studio, sono stati registrati sia a livello audio che video per verificare eventuali dichiarazioni ingannevoli. Ma non solo: venivano anche “minacciati” di rivelare la verità al gruppo, nel caso la registrazione non fosse stata conforme a quanto affermato.

Lo stress, poi, veniva indotto ai volontari per mezzo di scariche elettriche tarate e personalizzate per ogni singola persona. Le risposte erano infine misurate attraverso la frequenza cardiaca, del polso e per il livello di conduttanza cutanea altrimenti chiamato Galvanic Skin Resistence – si tratta di un test che misura la resistenza elettrica cutanea attraverso l’ausilio di elettrodi applicati direttamente sulla mano che rilevano la variazione dell’umidità delle pelle in relazione a stimoli emozionali.

Dai risultati è emerso che i maschi rispondevano diversamente rispetto alle femmine, a parità di stress indotto. In particolare, la risposta maschile era sempre maggiore rispetto a quella femminile.
Per James Harnsberger tale risultato è stato una vera e propria sorpresa. Infatti, si aspettava che la risposta allo stress potesse essere identica tra uomini e donne, invece non è stato così. Negli uomini la risposta era sempre più elevata, come a dire che l’uomo si stressa di più.
E’ forse ora di ribaltare la vecchia credenza su chi appartiene al “sesso debole?”.
[lm&sdp]

6 nov 2011


More clues in the genetics of schizophrenia
Chinese researchers add three chromosomal regions to a slow-growing list of genetic links.

David Cyranoski


Large-scale genetic studies of Chinese populations have turned up fresh genetic links to schizophrenia.
J. James/Getty ImagesTwo of the largest studies yet carried out on the genetics of schizophrenia in Chinese populations have turned up three genetic loci, or chromosomal regions, previously not known to be related to the disease.

These genome-wide association studies (GWAS), done independently and published in Nature Genetics on 30 October1,2, also begin to redress a geographical imbalance: until now, GWAS have focused mainly on Western populations.

Roughly 1 in 100 people will suffer from schizophrenia in their lifetimes, which is considered largely heritable (up to 80%). But this genetic influence seems to be produced by hundreds of variations in DNA, each of which increases risk by a small amount. Researchers have so far found some 20 such variants, but have been unable to pin down the exact genes that are affected by those variations or molecular mechanisms that cause the disease.

In one study1, a group led by Wei Huang, a geneticist at the Chinese National Human Genome Centre in Shanghai, and Dai Zhang a neuroscientist at Peking University in Beijing, compared the genomes of 746 people with schizophrenia with those of 1,599 controls. They found that previously unknown variations in a region of chromosome 11 — 11p11.2 — were linked with the disease. The correlation was verified in follow-up studies of another 4,027 people with schizophrenia and 5,603 controls.

In another study2, a team led by Lin He and Yongyong Shi, of the Bio-X Institutes at Shanghai Jiao Tong University, compared the genomes of 3,750 people with schizophrenia with those of 6,468 controls. They turned up two culprit regions: 8p12 and 1q24.2. The association with schizophrenia of the two regions was validated in another study of 4,383 people with schizophrenia and 4,539 controls.

"[These genetic loci] represent new potential targets to help understand schizophrenia. As we have only a relatively small number, this represents an important increase," says Pamela Sklar, chief of psychiatric genomics at the Mount Sinai School of Medicine in New York, who was not involved in either study.

Something old, something new
Both studies also reinforce previous findings in studies of European populations3,4,5 that a region of chromosome 6 associated with the major histocompatibility complex (MHC), a gene family involved in the immune system and autoimmunity, is involved in schizophrenia.

"This definitely strengthens the case that one or more genetic factors in this broad region are involved in disease risk," says Shaun Purcell, who develops statistical and computational tools for genetic studies at Massachusetts General Hospital in Boston.

Pablo Gejman, a psychiatry researcher at the University of Chicago's Pritzker School of Medicine, agrees. "The replication of the MHC locus is of great potential significance," he says. "The MHC is a well replicated common variant locus for schizophrenia and suggests aetiological mechanisms of disease that have not been previously considered with sufficient focus."

But there is much work still to be done. "None of the studies by themselves pinpoint specific genes or causal alleles in this large, complex [MHC] region," says Purcell. The next step might be to integrate the Chinese and European data, he adds. "It would be great to see these large data sets combined."

Grist for the mill
The three newly implicated loci will point to future studies, but researchers will have to start nailing down the genes and specific molecular mechanisms that drive the disease. "The connections with underlying gene expression will need deeper exploration to verify the connection with schizophrenia pathogenesis," says Sklar.

Lin He says the next step is to identify the risk genes affected by the variants in the interesting regions. "After carrying out fine mapping studies and functional validations, we might have the chance to report the right risk gene in an associated region soon," he says.

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It is still unclear whether the genetics at work in schizophrenia differ between Asian- and European-descended populations, although the latest studies may be a first step towards uncovering the answer. "These are the first large GWAS studies in Asians," says Sklar, adding that "the extent to which population-specific genetic factors exist is an important and open question".

"This is a largely understudied topic," says Gejman. "GWAS studies are potentially helpful, but the studied samples will need to be much larger to understand the genetic architecture of schizophrenia in the Chinese population, as well as in European populations."

References
1.Yue, W.–H. et al. Nature Genet. http://dx.doi.org/10.1038/ng.979 (2011).
2.Shi, Y. et al. Nature Genet. http://dx.doi.org/10.1038/ng.980 (2011).
3.Stefansson, H. et al. Nature 460, 744-747 (2009). | Article | PubMed | ISI | ChemPort |
4.The International Schizophrenia Consortium Nature 460, 748-752 (2009). | Article | PubMed |
5.Shi, J. et al. Nature 460, 753-757 (2009). | Article | PubMed | ISI | ChemPort |

A Brief Guide to Embodied Cognition: Why You Are Not Your Brain
By Samuel McNerney | November 4, 2011 | 21




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Embodied cognition, the idea that the mind is not only connected to the body but that the body influences the mind, is one of the more counter-intuitive ideas in cognitive science. In sharp contrast is dualism, a theory of mind famously put forth by Rene Descartes in the 17th century when he claimed that “there is a great difference between mind and body, inasmuch as body is by nature always divisible, and the mind is entirely indivisible… the mind or soul of man is entirely different from the body.” In the proceeding centuries, the notion of the disembodied mind flourished. From it, western thought developed two basic ideas: reason is disembodied because the mind is disembodied and reason is transcendent and universal. However, as George Lakoff​ and Rafeal Núñez explain:

Cognitive science calls this entire philosophical worldview into serious question on empirical grounds… [the mind] arises from the nature of our brains, bodies, and bodily experiences. This is not just the innocuous and obvious claim that we need a body to reason; rather, it is the striking claim that the very structure of reason itself comes from the details of our embodiment… Thus, to understand reason we must understand the details of our visual system, our motor system, and the general mechanism of neural binding.

What exactly does this mean? It means that our cognition isn’t confined to our cortices. That is, our cognition is influenced, perhaps determined by, our experiences in the physical world. This is why we say that something is “over our heads” to express the idea that we do not understand; we are drawing upon the physical inability to not see something over our heads and the mental feeling of uncertainty. Or why we understand warmth with affection; as infants and children the subjective judgment of affection almost always corresponded with the sensation of warmth, thus giving way to metaphors such as “I’m warming up to her.”

Embodied cognition has a relatively short history. Its intellectual roots date back to early 20th century philosophers Martin Heidegger​, Maurice Merleau-Ponty​ and John Dewey and it has only been studied empirically in the last few decades. One of the key figures to empirically study embodiment is University of California at Berkeley​ professor George Lakoff.


Noam Chomsky​ (Wikimedia Commons)
Lakoff was kind enough to field some questions over a recent phone conversation, where I learned about his interesting history first hand. After taking linguistic courses in the 1960s under Chomsky at MIT, where he eventually majored in English and Mathematics, he studied linguistics in grad school at Indiana University. It was a different world back then, he explained, “it was the beginning of computer science and A.I and the idea that thought could be described with formal logic dominated much of philosophical thinking. Turing machines were popular discussion topics, and the brain was widely understood as a digital computational device.” Essentially, the mind was thought of as a computer program separate from the body with the brain as general-purpose hardware.

Chomsky’s theory of language as a series of meaningless symbols fit this paradigm. It was a view of language in which grammar was independent of meaning or communication. In contrast, Lakoff found examples showing that grammar was depended of meaning in 1963. From this observation he constructed a theory called Generative Semantics, which was also disembodied, where logical structures were built into grammar itself.

To be sure, cognitive scientists weren’t dualists like Descartes – they didn’t actually believe that the mind was physically separate from the body – but they didn’t think that the body influenced cognition. And it was during this time – throughout the 60s and 70s -Lakoff realized the flaws of thinking about the mind as a computer and began studying embodiment.

The tipping point came after attending four talks that hinted at embodied language at Berkeley in the summer of 1975. In his words, they forced him to “give up and rethink linguistics and the brain.” This prompted him and a group of colleagues to start cognitive linguistics, which contrary to Chomskyan theory and the entire mind as a computer paradigm, held that “semantics arose from the nature of the body.” Then, in 1978, he “discovered that we think metaphorically,” and spent the next year gathering as many metaphors as he could find.

Many cognitive scientists accepted his work on metaphors though it opposed much of mainstream thought in philosophy and linguistics. He caught a break on January 2nd 1979, when he got a call from Mark Johnson, who informed him that he was coming to Berkeley to replace someone in the philosophy department for six months. Johnson had just gotten his PhD from Chicago where he studied continental philosophy and called Lakoff to see if he was interested in studying metaphors. What came next was one of the more groundbreaking books in cognitive science. After co-writing a paper for the journal of philosophy in the spring of 1979, Lakoff and Johnson began working on Metaphors We Live By, and managed to finish it three months later.

Their book extensively examined how, when and why we use metaphors. Here are a few examples. We understand control as being UP and being subject to control as being DOWN: We say, “I have control over him,” “I am on top of the situation,” “He’s at the height of his power,” and, “He ranks above me in strength,” “He is under my control,” and “His power is on the decline.” Similarly, we describe love as being a physical force: “I could feel the electricity between us,” “There were sparks,” and “They gravitated to each other immediately.” Some of their examples reflected embodied experience. For example, Happy is Up and Sad is Down, as in “I’m feeling up today,” and “I’m feel down in the dumbs.” These metaphors are based on the physiology of emotions, which researchers such as Paul Eckman​ have discovered. It’s no surprise, then, that around the world, people who are happy tend to smile and perk up while people who are sad tend to droop.

Metaphors We Live By was a game changer. Not only did it illustrate how prevalent metaphors are in everyday language, it also suggested that a lot of the major tenets of western thought, including the idea that reason is conscious and passionless and that language is separate from the body aside from the organs of speech and hearing, were incorrect. In brief, it demonstrated that “our ordinary conceptual system, in terms of which we both think and act, is fundamentally metaphorical in nature.”


David - brain (Wikimedia Commons)
After Metaphors We Live By was published, embodiment slowly gained momentum in academia. In the 1990s dissertations by Christopher Johnson, Joseph Grady and Srini Narayanan led to a neural theory of primary metaphors. They argued that much of our language comes from physical interactions during the first several years of life, as the Affection is Warmth metaphor illustrated. There are many other examples; we equate up with control and down with being controlled because stronger people and objects tend to control us, and we understand anger metaphorically in terms of heat pressure and loss of physical control because when we are angry our physiology changes e.g., skin temperature increases, heart beat rises and physical control becomes more difficult.

This and other work prompted Lakoff and Johnson to publish Philosophy in the Flesh, a six hundred-page giant that challenges the foundations of western philosophy by discussing whole systems of embodied metaphors in great detail and furthermore arguing that philosophical theories themselves are constructed metaphorically. Specifically, they argued that the mind is inherently embodied, thought is mostly unconscious and abstract concepts are largely metaphorical. What’s left is the idea that reason is not based on abstract laws because cognition is grounded in bodily experience (A few years later Lakoff teamed with Rafael Núñez to publish Where Mathematics Comes From to argue at great length that higher mathematics is also grounded in the body and embodied metaphorical thought).

As Lakoff points out, metaphors are more than mere language and literary devices, they are conceptual in nature and represented physically in the brain. As a result, such metaphorical brain circuitry can affect behavior. For example, in a study done by Yale psychologist John Bargh​, participants holding warm as opposed to cold cups of coffee were more likely to judge a confederate as trustworthy after only a brief interaction. Similarly, at the University of Toronto, “subjects were asked to remember a time when they were either socially accepted or socially snubbed. Those with warm memories of acceptance judged the room to be 5 degrees warmer on the average than those who remembered being coldly snubbed. Another effect of Affection Is Warmth.” This means that we both physically and literary “warm up” to people.

The last few years have seen many complementary studies, all of which are grounded in primary experiences:

• Thinking about the future caused participants to lean slightly forward while thinking about the past caused participants to lean slightly backwards. Future is Ahead

• Squeezing a soft ball influenced subjects to perceive gender neutral faces as female while squeezing a hard ball influenced subjects to perceive gender neutral faces as male. Female is Soft

• Those who held heavier clipboards judged currencies to be more valuable and their opinions and leaders to be more important. Important is Heavy.

• Subjects asked to think about a moral transgression like adultery or cheating on a test were more likely to request an antiseptic cloth after the experiment than those who had thought about good deeds. Morality is Purity

Studies like these confirm Lakoff’s initial hunch – that our rationality is greatly influenced by our bodies in large part via an extensive system of metaphorical thought. How will the observation that ideas are shaped by the body help us to better understand the brain in the future?

I also spoke with Term Assistant Professor of Psychology Joshua Davis, who teaches at Barnard College and focuses on embodiment. I asked Davis what the future of embodiment studies looks like (he is relatively new to the game, having received his PhD in 2008). He explained to me that although “a lot of the ideas of embodiment have been around for a few decades, they’ve hit a critical mass… whereas sensory inputs and motor outputs were secondary, we now see them as integral to cognitive processes.” This is not to deny computational theories, or even behaviorism, as Davis said, “behaviorism and computational theories will still be valuable,” but, “I see embodiment as a new paradigm that we are shifting towards.”

What exactly will this paradigm look like? It’s unclear. But I was excited to hear from Lakoff that he is trying to “bring together neuroscience with the neural theory of language and thought,” through a new brain language and thought center at Berkeley. Hopefully his work there, along with the work of young professors like Davis, will allow us to understand the brain as part of a much greater dynamic system that isn’t confined to our cortices.

The author would like to personally thank Professors Lakoff and Davis for their time, thoughts, and insights. It was a real pleasure.
About the Author: Sam McNerney recently graduated from the greatest school on Earth, Hamilton College, where he earned a bachelors in Philosophy. However, after reading too much Descartes and Nietzsche, he realized that his true passion is reading and writing about the psychology of decision making and the neuroscience of language. Now, he is trying to find a career as a science journalist who writes about philosophy, psychology, and neuroscience. His blog, whywereason.com tries to figure out how humans understand the world. He spends his free time listening to Lady Gaga​, dreaming about writing bestsellers, and tweeting @whywereason. Follow on Twitter @whywereason.

5 nov 2011


La mia creatura nasce sana
L'igiene nei primi mesi: tante buone abitudini
Studiosi britannici hanno individuato un enzima che agisce come interruttore biologico che regola la fertilità nelle donne. Si chiama SGK1



Roma, 24 ottobre 2011 - Voglia di maternità, la ricerca segna un altro passo avanti. Studiosi britannici hanno individuato un enzima che agisce come interruttore biologico che regola la fertilità nelle donne. Si chiama SGK1. Un livello elevato di questa proteina viene considerato alla stregua di un segnale di infertilità. "L’enzima - afferma Jan Brosens dell’Università di Warwick in una ricerca condotta all’Imperial College di Londra pubblicata su Nature Medicine — è stato isolato nell’utero di donne che si erano rivolte ai medici per problemi legati ad aborti spontanei ricorrenti. La regolazione dei livelli enzimatici potrebbe quindi diventare una nuova terapia contro la sterilità, o viceversa dare il via a una linea anticoncezionale".



Il calo di fecondità è un segno del progresso. "Ogni giorno - afferma la dottoressa Donatella Caserta, Dipartimento Salute Donna dell’Ospedale S. Andrea di Roma - il corpo umano entra in contatto con sostanze tossiche che interferiscono sugli equilibri degli ormoni sessuali e che possono avere ripercussioni negative". Stiamo parlando degli interferenti endocrini, elementi presenti in alimenti, tessuti, oggetti, plastiche e detergenti di uso quotidiano. Aumenterebbero i deficit di fertilità e secondo alcuni autori sono in grado di attraversare la placenta passando dalla madre al figlio. Su questi temi una ricerca triennale sarà presentata domani all’Università di Roma La Sapienza, ha preso in esame un campione di 250 coppie affette da infertilità e 10 coppie madre-figlio. L’iniziativa è Ospedale S. Andrea di Roma, in collaborazione con ISS, Università di Siena, Wwf, finanziata dal Ministero dell’Ambiente.



Alcuni tra i più grandi esperti nel campo della procreazione assistita si riuniranno nel fine settimana al centro congressi Roma Eventi con Eshre, la Società europea di riproduzione umana. per l’assise presieduta dal professor Filippo Ubaldi, Centro Genera - Clinica Valle Giulia Roma, su sterilità ed endometriosi. Nel comitato scientifico, tra gli altri relatori, Paola Viganò del S. Raffaele di Milano. In concomitanza, al Museo dell’Ara Pacis, venerdì un dibattito a più voci per iniziativa del prof Mauro Schimberni di Bioroma, tra gli ospiti Renato Seracchioli (S. Orsola - Bologna) Felice Petragli (Le Scotte, Siena), Andrea Borini (Tecnobios Bologna) e Maria Elisabetta Coccia (Università di Firenze): "Il nostro slogan è condividere un sogno per assisterlo naturalmente - spiega Annalise Giallonardo, fondatrice di Bioroma con Schimberni - affrontando l’endometriosi e la sterilità di coppia nella sua globalità".



Una delle tecniche al centro dell’attenzione riguarda il ciclo spontaneo, la fecondazione in vitro di un ovocita prelevato dall’ovaio senza stimolare le gonadi con ormoni, come avviene con la Fivet-Icsi. Intanto il centro di medicina della riproduzione Procrea di Lugano annuncia di aver adottato le linee guida statunitensi in materia di analisi genetiche sulla fibrosi cistica: "Vogliamo diminuire l’incidenza di questa malattia — spiega Giuditta Filippini, genetista — per evitare che due portatori sani possano avere figli malati". Fa discutere infine la notizia della prima donna in Italia che ha concepito un figlio con ovuli congelati dopo chemioterapia. L’annuncio di Eleonora Porcu, dell’Università di Bologna, che ha presentato il caso alla Società italiana di ginecologia e ostetricia, ha messo in moto una corsa tra donne in carriera, che chiedono di mettere in banca gli ovuli per differire la gravidanza propria in età matura.

di Alessandro Malpelo



L'IGIENE NEI PRIMI MESI. TANTE BUONE ABITUDINI

TURGIDA E LISCIA, luminosa ed elastica, la pelle dei bambini è davvero bella, ma al tempo stesso delicata e sensibile. Sottile la metà di quella dell’adulto, necessita di cure particolari, soprattutto nei primi giorni di vita, quando si desquama ed è carente di difese protettive. Ed è proprio la fragilità che fa aumentare i rischi di macerazioni, infiammazioni e lesioni causate dal contatto prolungato con sostanze irritanti come urine, feci, pannolini, biancheria e prodotti da toeletta. L’igiene è perciò fondamentale: fin dai primi giorni di vita il bebè va lavato con acqua, ma solo nell’area del pannolino, per il resto 'a secco', con il latte detergente, in attesa del primo bagnetto, che avverrà solo dopo la caduta del cordone ombelicale.



Ma questa giovane epidermide non è in grado di garantire una protezione efficace ed è bene utilizzare cosmetici con formulazioni minimaliste, controllati e sperimentati clinicamente. Ad ogni cambio, per prevenire l’eritema da pannolino, la pelle va lavata con acqua tiepida, ricordando di eseguire la pulizia, nelle femmine, dall’avanti all’indietro, in modo da evitare contaminazioni batteriche fecali; tutto questo senza utilizzare antigieniche spugne (si impregnano e trattengono sporcizia!) ma batuffoli di ovatta, aprendo e pulendo con cura tutte le pieghe della pelle. Una valida alternativa, utile anche in assenza di acqua, è rappresentata dalle salviettine detergenti specifiche per neonati, delicate, emollienti, perché già impregnate di crema idratante o di olio detergente, e soprattutto prive di alcool. La cute del piccolo va sempre asciugata per contatto e successivamente va applicata una pasta protettiva, contenente ossido di zinco (meglio sceglierla facilmente spalmabile) per formare una barriera.



Il momento del bagnetto va preparato con cura, con la vaschetta posizionata in modo stabile, la temperatura dell’acqua controllata con un termometro a lettura istantanea, compresa tra i 32°C e i 35°C , e tutto quello che serve a portata di mano: il bebè non deve mai essere lasciato solo, neanche un attimo. Il rito del bagno è quotidiano, precede la poppata della sera, e, se è seguito da un leggero massaggio, rilassa e predispone al sonno. Per i bimbi fino a tre mesi, i prodotti da sciogliere nell’acqua della vasca sono specifici, contenenti proteine ad azione lenitiva, come l’amido di riso o le apposite polveri a base di avena colloidale. Per i mesi successivi, ci sono i bagni delicati anche in versione unica per corpo e capelli, quelli agli estratti di camomilla e gli oli detergenti contro la secchezza della pelle, tutti rigorosamente senza alcool e coloranti, con PH fisiologico, azione emolliente, ideali per le pelli sensibili.

(scheda di Mariasandra Aicardi, farmacista)

di Alessandro Malpelo

3 nov 2011


Calo di zuccheri: dolci sapori, piaceri e dolori

Gli zuccheri, da piccoli erano la nostra ricompensa per una buona azione, da adulti continuano a coprire un ruolo di gratificazione personale, per tirarsi un po’ su. Uno studio spiega i collegamenti tra l’insulina e precise reazione dei neuroni



Bologna, 1 novembre 2011 - Cioccolata, caramelle, chewing gum e liquerizie. Dolciumi spesso usati dagli adulti per gratificare il bambino quando lo merita. Una vecchia lettura psicologica sosteneva che questo premio, ripetuto nel tempo, instaurasse un vero riflesso condizionato che ha poi contributo a far esplodere il fenomeno del sovrappeso.



Come nel famoso esperimento di Pavlov il cane a forza di ascoltare il tintinnio della campanella che preannuncia il pasto si comporta come se la ciotola fosse piena quando sente il rumore della campanella, così il consumo di alimenti dolci rievoca quelle emozioni che abbiamo vissuto quando siamo stati particolarmente diligenti e per questo premiati. Sentimenti che in molti casi risultano un sostegno fondamentale in una società così avida di riconoscimenti positivi.



Una recente ricerca condotta da un gruppo di ricercatori coordinati dalla dottoressa Jens Bruning del Max Plank Institut in parte smentisce questa teoria e giustifica questo sentimento di appagamento attribuendo all’insulina una precisa azione sui neuroni del nostro cervello. Quando nel nostro corpo introduciamo il glucosio, o un suo derivato come lo zucchero da cucina, il comune saccarosio, le isole del Langerhans che sono situate nel pancreas ricevono il segnale di liberare in circolo l’insulina, un ormone che facilita l’entrata del glucosio all’interno delle cellule, in particolare quelle che compongono il fegato.



Nel cervello l’insulina ha l’effetto di liberare la dopamina, un neurotrasmettitore direttamente coinvolto nei meccanismi della ricompensa positiva. In altre parole ci si sente “bravi e diligenti” come il bambino premiato, quando si consumano dolci o il semplice caffè eccessivamente zuccherato. Le ricerche della dottoressa Bruning aiutano a spiegare diversi fenomeni della vita quotidiana, ad esempio, come mai si consumi un dolce alla fine di un pasto sebbene ci senta già sazi.



Che il glucosio abbia una stretta attinenza anche con la salute del cervello e della mente è dimostrato anche da altre ricerche. Il neurobiologo Aurelio Galli, della Vanderbilt University Medical Centre ha condotto uno studio che lega strettamente la carenza di insulina con l’insorgenza di comportamenti simili a quello della schizofrenia nelle cavie. La carenza di insulina viene indotta facendo consumare al roditore una dieta ricca di saccarosio, fino a quando il suo pancreas non iniziava ad essere stanco ed usurato e a produrre una quantità inferiore dell’ormone. Gli epidemiologi da tempo hanno registrato come la sostituzione del miele con il saccarosio come dolcificante, avvenuto all’incirca alla fine del 17simo secolo, sia coinciso con un incremento dei disturbi dell’umore e di malattie psichiatriche ben più gravi.



Gli studi della dottoressa Jens Bruning o del dottor Aurelio Galli non bastano a spiegare questo fenomeno. Infatti, anche il miele contiene saccarosio, che altro non è che se non la fusione del glucosio con il fruttosio. La differenza tra i due dolcificanti probabilmente risiede nelle vitamine (complesso B, C, E e K) che sono contenute nella sostanza prodotta dalle api. I biologi del Walter and Eliza Hall Medical Research Istitute Melbourne hanno constatato in più studi che le vitamine B3 (niacina), C ed E consentono alle nostre cellule di captare glucosio presente nel sangue utilizzando vie alternative rispetto a quelle attivate dall’insulina. In questo modo si abbassano i livelli dell’ormone in circolo e questo, oltre a prevenire l’insorgenza del diabete, garantirebbe una migliore attività psichica del cervello.

di Massimo Selleri

1 nov 2011


Salute, Donna
31/10/2011 - le donne vivono peggio gli eventi cardiovascolari e si curano menoUn attacco di cuore è peggio per le donne

donne che subiscono un attacco di cuore, dopo se la vedono peggio che non gli uomini, suggerisce un nuovo studio
La donna sotto i 55 anni di età che cada vittima di un infarto – o attacco di cuore – paga uno scotto maggiore che non un coetaneo maschio, sostiene un nuovo studio della Heart and Stroke Foundation (Usa). Allo stesso modo, un mese dopo l’evento, la salute della donna pare sia peggiore, sempre rispetto alla controparte maschile.

Le pazienti che risentono di più dei danni causati da un attacco di cuore sono quelle tra i 20 e i 55 anni di età, si scopre dallo studio AMI55 condotto dai ricercatori della University of British Columbia (Canada), coordinati dalla dottoressa Karin Humphries. Le donne che rientravano in questa fascia di età mostravano di avere peggiori limitazioni rispetto ai colleghi maschi. Nello specifico, maggiore ricorrenza di dolore al petto, maggiori limitazioni fisiche e peggiore qualità della vita in generale.
«Mentre vi è un contributo dall’alta prevalenza di fattori di rischio cardiaci tradizionali come il diabete, il fumo e l’ipertensione, essi non spiegano perché la salute nelle donne sia peggiore – commenta Humphries – Per questo motivo il nostro studio si è concentrato sull’esplorazione di fattori non tradizionali di rischio come la depressione, l’ansia e il sostegno sociale».

La ricercatrice ritiene che dietro al peggiore stato di salute e recupero da parte delle donne vittime di attacchi cardiaci vi sia una componente sociale. La ripresa più lenta, dunque, sarebbe causata dal tributo che la donna deve pagare perché è da lei che ci si aspetta il ruolo di colei che si prende cura degli altri.
«Queste donne probabilmente non ricevono il sostegno di cui hanno bisogno per recuperare da un attacco di cuore – spiega la dottoressa Humphries – Le donne hanno meno probabilità di frequentare la riabilitazione cardiaca rispetto ai loro colleghi maschi anche quando ne hanno bisogno. Dobbiamo aiutare le donne a superare queste barriere in questa parte essenziale del loro recupero».
Altre spiegazioni per la differenza dei risultati accertati dallo studio, riguardo l’incidenza sulla vita delle donne rispetto agli uomini, potrebbero ritrovarsi nella propensione minore al presentarsi in ospedale quando vi siano dei sintomi che possano far presagire un attacco di cuore, suggerisce l’autrice dello studio. Altresì, le donne non solo sottostimano i propri sintomi ma tendono a rimandare le cure. In più, sono meno studiate riguardo proprio le malattie cardiache che, ancora oggi, si ritiene siano più sviluppabili dagli uomini.

I ricercatori, per arrivare a queste conclusioni, hanno esaminato 286 pazienti. Di questi, 75 erano donne di età inferiore ai 55 anni e più giovani.
Ciò che hanno anche scoperto gli scienziati è che, nello stesso gruppo di pazienti, mentre il dolore toracico è stato il più comune sintomo dell’attacco di cuore negli uomini e nelle donne, le donne ha subìto una maggiore gravità del dolore toracico. Avevano anche una più ampia gamma di sintomi di altro dolore rispetto agli uomini, compreso male al collo e alla gola, al braccio sinistro e dolore alla spalla.
«Questa ricerca è coerente con altri studi che suggeriscono che le donne soffrono di una peggiore qualità della vita con una diagnosi di malattia di cuore», conclude la dottoressa Beth Abramson, portavoce della Heart and Stroke Foundation.
[lm&sdp]


RICERCA

La proteina che blocca il cancro

Scoperto il meccanismo di conversione da cellule normali a cellule tumorali: potrebbe esserne inibita la diffusione


I macrofagi
MILANO- La chiave per bloccare la crescita di un tumore nell'organismo, interrompendo il processo di conversione delle cellule normali in cellule neoplastiche, potrebbe essere nei macrofagi, cellule della linea di difesa primaria dell'organismo. I macrofagi che fanno parte del meccanismo di immunità innata, vengono attirati nel tessuto tumorale e riprogrammati, con il risultato di venire disarmati delle loro funzioni antitumorali e dirottati a contribuire alla crescita e diffusione delle cellule malate.

LO STUDIO - Un gruppo di ricerca canadese ha descritto, in uno studio pubblicato su Cancer Research, l'azione di una proteina posta sulla superficie dei macrofagi (S100A10) che, se bloccata, interrompe il sostegno di queste cellule a quelle tumorali. «Questa proteina agisce come un paio di forbici - afferma David Waisman, del Dipartimento di biochimica e biologia molecolare e patologia del centro ricerche sul cancro della Dalhousie University, ad Halifax, in Canada - che tagliano il tessuto-barriera che si crea attorno al tumore, consentendo ai macrofagi di entrare nel sito della neoplasia e combinarsi con le cellule malate». Inoltre, gli studiosi hanno osservato che senza l'aiuto dei macrofagi, il tumore non cresce. Il prossimo passo sarà quello di capire esattamente come funziona la proteina S100A10, per individuare agenti farmaceutici in grado di bloccarne l'azione, impedendo così il movimento dei macrofagi verso il sito del tumore. (Fonte: ANSA)