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30 set 2012

Altruista o egoista: è solo questione di materia grigia


   /2012 - dilemmi filosofici spiegati dalla fisiologia

Altruista o egoista: è solo questione di materia grigia


Gli altruisti sarebbero così grazie al volume di materia grigia nel proprio cervello

Non è la cultura, l’educazione o lo status sociale a fare l’altruista ma il volume di materia grigia del cervello suggerisce uno nuovo studio. Ma non è detto che sia tutto lì



L’altruismo o l’egoismo sono soltanto questioni caratteriali, o influenzate dall’ambiente in cui si cresce o vive? Sembrerebbe di no. A influenzare il comportamento altruistico sarebbe il volume di materia grigia nel cervello, o anche viceversa.

Quando si tratta di comportamento umano, o carattere, spesso si fa riferimento all’ambiente in cui una persona è cresciuta, al genere di appartenenza, così come l’educazione, l’istruzione o lo status sociale. Tuttavia, da sempre, nessuna di queste spiegazioni ha risposto in modo definitivo alla domanda, per cui il concetto di altruismo è rimasto nel limbo dell’accettato ma sconosciuto.

Oggi, una ricerca svizzera pare aver trovato una risposta meno filosofica e più fisiologica: il volume della materia grigia può essere indicatore di quanto siamo altruisti o quanto non lo siamo.
Lo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Neuron, e suggerisce che chi ha maggiore materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale è più altruista di chi ne ha poca.
In quest’ottica vi sarebbe quindi una connessione tra l’anatomia del cervello, l’attività di questo e il comportamento altruistico: come detto, dunque, una risposta fisiologica a un quesito filosofico.

Il team di ricercatori coordinati dal professor Ernst Fehr, direttore del Dipartimento di Economia della UZ, ha coinvolto un gruppo di volontari a cui è stato chiesto di dividere dei soldi con una persona sconosciuta.
Ai partecipanti era chiaro che avrebbero potuto sacrificare una parte dei loro soldi per il bene dell’altra persona. Il parametro per valutare l’altruismo era quindi basato sul sacrificio, a proprie spese, che la persona faceva in favore dell’altra.

Come previsto le differenze di comportamento tra i partecipanti erano molte: c’era chi era del tutto maldisposto a sacrificare una parte del proprio denaro in favore di un’altra persona; poi c’era chi lo faceva volentieri.
Le analisi del cervello e le risposte di questo agli stimoli hanno permesso di individuare non solo che le persone altruiste avevano un maggiore volume di materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale, ma che in fase di decisione nel dividere i soldi con altri vi era una differente e marcata attività cerebrale.
Altra evidenza riscontrata era che nelle persone egoiste la piccola regione del cervello dietro l’orecchio era già attiva quando si trattava di un sacrificio in denaro di poca entità, e restava tale. Nelle persone altruiste, invece, questa regione diveniva più attiva quando il livello di sacrificio aumentava. E più era alto il costo, più aumentava l’attività.
I ricercatori ipotizzano che questo fenomeno si verifichi quando vi è la necessità di superare la naturale predisposizione all’egocentrismo degli esseri umani.

«Si tratta di risultati interessanti per noi – spiega il professor Fehr – Tuttavia, non si deve saltare alla conclusione che il comportamento altruistico sia determinato soltanto da fattori biologici». Ma quali siano gli altri fattori in verità ancora nessuno lo sa spiegare per davvero.
[lm&sdp]

22 set 2012

La proteina che «attiva» gli spermatozoi

studio dell'Università di Cardiff


La proteina che «attiva» gli spermatozoi


Si chiama PLCz e avvia un processo chiamato "attivazione dell'ovulo". Una speranza per gli uomini sterili



MILANO - Scoperta la proteina che «prende a calci» gli spermatozoi sterili e risveglia in essi la capacità di fertilizzare un ovulo. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Fertiliy and Sterility, è stata condotta da un gruppo di scienziati coordinato da Tony Lai e Karl Swann della Scuola di medicina dell'Università di Cardiff, nel Regno Unito. Gli scienziati hanno rilevato che lo sperma trasferisce in fase di fecondazione una proteina vitale per l'ovulo, conosciuta come PLC-zeta (PLCz). Questa è la chiave che avvia un processo chiamato "attivazione dell'ovulo", che mette in moto tutti i processi biologici necessari per lo sviluppo di un embrione.
UOMINI STERILI - «Sappiamo che alcuni uomini sono sterili perché il loro sperma non riesce ad attivare gli ovuli - spiega Lai -. Anche se i loro spermatozoi si uniscono all'ovulo, non accade nulla». Tra le cause, l'eventualità che esso non disponga del corretto funzionamento della PLCz, essenziale per innescare la fase successiva della gravidanza. «Quello che è importante della nostra ricerca è che abbiamo usato una proteina umana, per ottenere dei risultati positivi che avevamo già osservato, ma solo negli esperimenti con i topi». Inoltre i ricercatori hanno scoperto che anche gli ovuli che non si fecondano a causa di un'imperfezione della PLCz, come per alcune forme dell'infertilità maschile, possono essere trattati con la proteina per produrne l'attivazione. «Anche se questo è stato un esperimento di laboratorio e il nostro metodo non poteva essere utilizzato in clinica - conclude Lay -, in futuro si potrebbe produrre la proteina PLCz e utilizzarla per stimolare l'attivazione dell'ovulo in modo del tutto naturale». Secondo i ricercatori, per le coppie che devono utilizzare la fecondazione in vitro, questa tecnica potrebbe aumentare le possibilità di avere un bambino, oltre a contrastare in generale l'infertilità maschile.

12 set 2012

Bere molto può portare all’ictus

12/09/2012 - alto rischio per chi beve alcol

Bere molto può portare all’ictus



Assumere grandi quantità di alcol espone al rischio di ictus già molti anni prima della media
 

Bere molto o in modo compulsivo può essere causa di ictus emorragico prematuro, anche dieci anni prima della media




Bere molto, anche in modo compulsivo – un’usanza nota anche con il nome di “binge drinking” – aumenta di molto il rischio di essere vittime di un ictus emorragico, piuttosto che a causa di un grumo di sangue, avvertono i ricercatori francesi dell’Università Lille Nord de France. E questo accade anche se non si ha una storia di problemi simili alle spalle.
«Il bere pesante è stato costantemente identificato come un fattore di rischio per questo tipo di ictus – spiega nel comunicato LNFU la principale autrice dello studio, dottoressa Charlotte Cordonnier – che è causato da sanguinamento nel cervello, piuttosto che un grumo di sangue».

L’indulgere nel binge drinking è tipico delle persone che partecipano a feste, incontri, party o manifestazioni a tema. Si caratterizza da grandi bevute fatte in un periodi di tempo breve, come può essere una giornata o un weekend. Il bere pesante, invece, si caratterizza per un’abitudine all’assumere alcol in discrete quantità tutti i giorni o regolarmente.
Il problema del bere in sé non sarebbe così grande se non fosse che le bevande sono alcoliche – ed è proprio l’alcol a essere messo sotto accusa da questo nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Neurology.

Sono state in totale 540 le persone coinvolte. Tutte erano state vittime di un ictus emorragico e avevano un’età media di 71 anni. I partecipanti sono stati intervistati circa il proprio stile di vita e le abitudini riguardo il consumo di alcol.
Per ottenere maggiori informazioni riguardo al consumo di alcol e lo stile di vita, i ricercatori hanno intervistato anche i partenti o chi era vicino in qualche modo ai pazienti.
I dati raccolti hanno permesso di stabilire che di questi 540, i forti bevitori erano 137 (il 25%). Questi bevevano in media tre o più bicchieri al giorno, corrispondenti a circa 1,6 grammi di alcol.

Le scansioni cerebrali e l’analisi delle cartelle cliniche dei pazienti ha consentito agli scienziati di rilevare che chi beveva in modo pesante era stato vittima dell’ictus emorragico in media 14 anni prima di chi non era dedito al gran consumo di alcol. L’età media delle persone colpite, in questo caso, era di 60 anni. Chi era di età inferiore, e aveva subìto un ictus, aveva anche maggiori probabilità di morire entro due anni dall’evento, rispetto a coloro che bevevano moderatamente.
«E’ importante tenere a mente che bere grandi quantità di alcol contribuisce a una forma più grave di ictus in età più giovane in persone che non avevano una significativa storia medica», conclude Cordonnier. In altre parole, bere molto alcol aumenta di molto le probabilità di essere vittima di un ictus e anche morire prematuramente, anche se non lo riteniamo possibile.
[lm&sdp]