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Leggete i nostri articoli per entrare e conoscere le ultime novità internazionali che riguardano i progressi della medicina.
Sarà affrontato anche il campo delle medicine alternative e della psicoanalisi.
Pubblicheremo inoltre interessanti articoli di storia della medicina.
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30 mag 2011
Medicina, Donna
30/05/2011 - uno studio collega contraccettivi e ipertensione
I contraccettivi orali possono far alzare la pressione sanguigna
Uno studio collega l'assunzione prolungata di estrogeni e il rischio di ipertensione -
L’esposizione prolungata agli estrogeni contenuti nei contraccettivi orali può essere causa di ipertensione
I ricercatori della Michigan State University (Usa) ritengono che l’esposizione per lungo tempo agli estrogeni, gli ormoni femminili contenuti nei contraccettivi orali e nei farmaci per la terapia sostitutiva, possa provocare l’ipertensione.
Anche se al momento il legame tra pressione sanguigna alta ed estrogeni non è del tutto chiaro, diversi recenti studi hanno suggerito che questa esposizione nel lungo termine può essere causa di ipertensione. Questa condizione, si sa, può determinare problemi cardiaci, infarti e attacchi al cervello come l’ictus.
Per questo motivo, i ricercatori Usa hanno condotto uno studio in cui si è evidenziato come l’uso di estrogeni per molto tempo possa generare livelli eccessivi di un composto chimico che porta a stress.
I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Physiology e mostrano che la possibilità di assumere degli antiossidanti come il resveratrolo può invertire questo processo inibendo i livelli di un radicale libero quale il superossido e abbassando la pressione.
«Questo è un importante studio su almeno due livelli. Primo, continua a confermare gli effetti negativi che l’esposizione agli estrogeni a lungo termine ha per le donne. Secondo, fornisce una nuova ratio sul come e perché questo rapporto si verifica», ha dichiarato il dottor PS Mohan Kumar, coautore dello studio.
Il dibattito sull’uso dei contraccettivi orali continua, quindi. Come spesso accade, le campane suonano diverse. C’è quindi chi rassicura che questo genere di farmaci non è dannoso, anche a lungo andare; e c’è chi invece la pensa diversamente, come suggerito da questo nuovo studio. Quello che possiamo capire è che, in ogni cosa, ci sono i due lati della medaglia e che, per quanto possa essere sicuro, ogni rimedio ha i suoi pregi e difetti. L’importante è saperlo, e agire con cognizione di causa e informandosi presso il proprio ginecologo su quali possono essere i pro e contro. E poi decidere cosa è meglio per sé.
[lm&sdp]
27 mag 2011
Lavoro, figli, partner: donna tre volte più stressata dell'uomo
Sos per l'emisfero femminile più a rischio depressione e attacchi di panico. L'esperta: "E' necessario mettere in atto strategie di prevenzione, come stanno già facendo altri Paesi"
(Ansa)
Roma, 7 marzo 2011 - Lavoro, marito, figli e quotidianità da gestire, spesso senza aiuti esterni. E il risultato è che "la donna è tre volte più stressata dell’uomo e che per lei è maggiore il rischio di depressione e attacchi di panico". Lo sostiene Paola Vinciguerra, psicologa, psicoterapeuta, presidente dell’Eurodap, l’Associazione europea disturbi da attacchi di panico.
"Vivere di continuo una situazione emotivamente negativa - spiega l’esperta - può portare all’insorgere di una vera e propria malattia da stress e oggi due donne su tre che lavorano dicono di essere molto stressate perchè, oltre al lavoro, hanno sulle spalle la responsabilità dell’andamento della famiglia".
"L’inserimento della donna nel mondo del lavoro - prosegue - non è stato un processo indolore, perchè nella maggior parte dei casi la lavoratrice non ha poi grandi aiuti dall’esterno per la gestione della famiglia. Inoltre uno dei pesi maggiori è anche vedersela con i propri conflitti, rappresentati dalla spinta verso la realizzazione professionale e l’autonomia economica, ma anche verso la cura dei figli, verso il ruolo di madre che istituzionalmente le viene richiesto di rappresentare".
"Tutto questo ha un costo psicologico - continua Vinciguerra - che può essere molto alto. Vivere situazioni stressanti per lungo tempo è destabilizzante e la donna, insieme madre e lavoratrice, rischia alla lunga un crollo emotivo se non riesce a trovare il suo giusto equilibrio".
"Recenti ricerche - afferma la psicologa, che è anche responsabile dell’Uiap, Unità italiana attacchi di panico alla Clinica paideia di Roma - hanno dimostrato che le donne soffrono prevalentemente di sindromi ansiose (attacchi di panico, sindrome ansioso-depressiva, ansia generalizzata), di disturbi depressivi, di sindromi da disadattamento per una percentuale che si aggira intorno al 39,4%. Lo stress è pericoloso. Altera la produzione di sostanze chimiche come il cortisolo, la proteina c-reattiva, l’interleuchina 6: sostanze che, se non sono mantenute a livello giusto, producono effetti dannosi sulle difese immunitarie e creano la base per l’insorgere di varie malattie".
Per l’esperta, "è necessario mettere in atto strategie di prevenzione, come stanno già facendo altri Paesi come ad esempio la Gran Bretagna, per fare in modo che i costi personali e sociali delle patologie da stress possano essere evitati". L’Eurodap offre la possibilità di imparare a gestire l’ansia e lo stress in un corso gratuito che si terrà il 10 marzo 2011 a Roma.
Artrite reumatoide, le donne pagano un prezzo troppo alto
Entrano in gioco fattori ormonali e una componente genetica
20 maggio 2011 - L'artrite reumatoide colpisce di preferenza le donne, lavoratrici e casalinghe senza distinzione: "Alcuni fattori ormonali entrano in causa nell’artrite reumatoide — spiega Magda Scarpellini, direttore di Reumatologia all’Ospedale Fornaroli di Magenta. Poi è importante la componente genetica. Nei parenti di primo grado la prevalenza di malattia è del 2-3 per cento e nei gemelli arriva addirittura al 15-20 per cento quindi la storia familiare è un importante fattore di rischio per l’artrite reumatoide". Per fortuna, la malattia non incide sulla gravidanza. Anzi nella dolce attesa la futura mamma sta meglio.
Tuttavia, bisogna consultare il reumatologo per sospendere i farmaci potenzialmente lesivi per il bambino, con modi e tempi appropriati. E purtroppo, dopo
il parto, la patologia reumatica può anche ripartire. Venendo alla terapia oggi l’ingegneria biomolecolare offre nuove opportunità: "Si possono scegliere addirittura i farmaci biologici di prima linea, dopo eventuale fallimento o mancata risposta al metotrexate, che rimane un farmaco àncora indicato, come abatacept - precisa la Scarpellini -. I farmaci biologici hanno migliorato la qualità di vita dei pazienti in quanto, in seguito a una diagnosi precoce, si può oggi pensare di ottenere una remissione di malattia, intendendo con questo termine un’acquiescenza dell’attività patologica clinicamente simile a una guarigione, pur con la necessità di terapie di mantenimento e uno stretto monitoraggio clinico e di laboratorio".
26 mag 2011
Oral Cancer Day:
«Apri la bocca, apri gli occhi»
Visite gratis dal 16 al 31 maggio: basta seguire poche regole per non ammalarsi
Bastano poche regole per prevenire i tumori orali
MILANO –Stop al fumo e limiti al consumo di bevande alcoliche, ma via libera al caffè che sembra avere un ruolo protettivo contro i tumori della bocca. E’ questa la ricetta anticancro per la salute del cavo orale, con una fondamentale aggiunta: attenzione all’igiene e ai traumi cronici, dovuti anche a protesi dentarie mal realizzate. «Basta una visita mirata di pochi minuti dal dentista per individuare lesioni sospette e diagnosticare precocemente le neoplasie che più comunemente coinvolgono il tessuto delle labbra o della lingua, eppure in più della metà dei pazienti vengono scoperte quando la malattia è già avanzata e le possibilità di cura compromesse», spiega Giovanni Evangelista Mancini, consigliere della Fondazione Andi (Associazione nazionale dentisti italiani) che sabato 14 maggio porta nelle principali piazze d’Italia l’Oral Cancer Day, iniziativa nata per sensibilizzare la popolazione sulla prevenzione dei tumori della bocca.
PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE - Secondo i più recenti studi scientifici queste patologie sono provocate non solo dal fumo e dall’abuso di alcol (tanto che il rischio di carcinoma orale è fino a 28 volte superiore nei fumatori e aumenta ulteriormente se si associa al consumo di alcolici), ma anche dal papilloma virus umano (Hpv) che si trasmette per vie sessuali e che tra l’altro è la principale causa del carcinoma del collo dell’utero. Per questo gli specialisti richiamano l’attenzione, soprattutto dei ragazzi, sul sesso orale non protetto e con partners multipli. Fondamentale per la prevenzione, poi, è una corretta igiene orale (una scarsa pulizia e i microtraumi da carie o protesi dentarie favoriscono la formazione di lesioni precancerose o cancerose) e seguire una dieta sana, ricca di frutta e verdura. Nel caso di lesioni sospette della mucosa orale, che si possono individuare da soli allo specchio, bisogna subito rivolgersi al dentista o a uno specialista per indagini più approfondite (la diagnosi certa si ha solo con una biopsia).
DENTISTI IN PIAZZA E VISITE GRATIS - In Italia in media si registrano ogni anno circa 10 nuovi casi ogni 100mila abitanti (soprattutto fra i maschi), ma le diagnosi sono in aumento e la mortalità è ancora elevata. «A causa soprattutto del ritardo con cui generalmente viene scoperta la malattia – aggiunge Mancini – chi riesce a sopravvivere spesso deve sottoporsi a interventi estremamente invasivi. Ma se la neoplasia viene individuata nelle fasi iniziali la sopravvivenza è dell’80 per cento e si può intervenire chirurgicamente in modo più leggero, risparmiando estetica e funzionalità quanto più possibile». Proprio per favorire prevenzione e diagnosi precoce i dentisti Andi sabato 14 maggio sono disponibili in più di 80 piazze italiane per distribuire materiale informativo e consigli mirati per la salute di gengive, lingua e tessuti molli della bocca. In occasione dell’Oral cancer day sarà inoltre possibile sottoporsi a visite gratuite dal 16 al 31 maggio. Sul sito www.oralcancerday.it oppure al numero verde 800 911 202 è disponibile l’elenco dei dentisti presso cui prenotare le visite.
Vera Martinella
23 mag 2011
Arrivano i Pomodori, arriva il benessere del cuore
Promodori, i succosi amici della tavola e della salute
Tra poco inizierà la stagione dei pomodori e, secondo un nuovo studio, non c’è niente di meglio per fare un pieno di antiossidanti utili per ridurre il colesterolo e la pressione sanguigna
Rosso, che ricorda il calore, che ricorda l’estate. È il pomodoro, il principe delle tavole nella bella stagione. E ora, grazie a un nuovo studio, diviene anche il principe alleato della salute.
Un team internazionale di ricercatori coordinati dall’Università di Adelaide in Australia hanno pubblicato i risultati di un nuovo studio sul pomodoro e i suoi effetti sulla rivista Maturitas. Qui, si afferma che mangiare ogni giorno un succoso, fresco, pomodoro può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo cattivo (LDL) e anche la pressione arteriosa, proteggendo quindi il cuore e l’apparato cardiovascolare.
Tutto merito dei componenti salutari che il pomodoro contiene e, in pole position, il famoso licopene. Questo antiossidante è già stato oggetto di numerosi studi che ne attestano le proprietà benefiche in molti modi.
Lo studio revisionale ha preso in considerazione 14 studi condotti negli ultimi 55 anni, analizzando i risultati collettivi. «Il nostro studio suggerisce che, se si assumono 25 mg o più di licopene al giorno, questo può ridurre il colesterolo LDL fino al 10 per cento», spiega la dottoressa Karin Ried, che ha guidato la squadra di scienziati.
Il pomodoro non solo può essere consumato tal quale, ma anche sotto forma di succo o concentrato che, pare contengano maggiori quantità di licopene che viene anche assorbito meglio dall’organismo. Per esempio, 50 grammi di pomodoro concentrato o mezzo litro di succo possono fornire una buona protezione dalle malattie cardiache, sottolineano i ricercatori.
«Questo è paragonabile agli effetti offerti da basse dosi di farmaci comunemente prescritti per le persone con colesterolo elevato, ma senza gli effetti collaterali di questi farmaci, che possono includere dolore muscolare e debolezza e danni al sistema nervoso», ha sottolineato Ried.
«La ricerca dimostra che un alto consumo di licopene è stato associato a un ridotto rischio di malattie cardiovascolari, comprese le arterie indurite, infarti e ictus», conclude Ried.
Tuttavia, i ricercatori intendono condurre altri studi per valutare se dosaggi superiori a 25-44 milligrammi di licopene al giorno possano offrire ulteriori benefici.
In attesa dei risultati possiamo tranquillamente goderci un gustoso e salutare piatto a base di pomodori.
[lm&sdp]
20/05/2011 - la ricerca della felicità può essere una trappola
Il lato oscuro della felicità
Né denaro, né beni materiali. Ma neanche riconoscimento sociale, la felicità si trova altrove
La ricerca della felicità può avere dei risvolti non sempre piacevoli e, alla fine, far sentire peggio di prima
La felicità può avere un lato oscuro? Di per sé, in apparenza no. Ma, secondo uno studio pubblicato su Psychological Science Perspectives, la felicità non è uguale a tutti i livelli e per tutti i tipi. E, la tanto agognata ricerca della felicità può trasformarsi un un’arma a doppio taglio, tanto da far sentire peggio, alla fine.
La prospettiva della dottoressa June Gruber della Yale University, così come riportata nell’articolo che ha scritto le colleghe Iris Mauss dell’Università di Denver e Maya Tamir della Hebrew University di Gerusalemme, è che la fissazione dell’obiettivo di trovare la felicità può ritorcersi contro la persona. E, in questa lotta, si può uscirne sconfitti e peggio di quando si era iniziata la ricerca.
Certo, gli strumenti offerti dal mercato non mancano. Dai sedicenti guru della motivazione, ai corsi lampo full-immersion per ritrovare la felicità come in un fast-food ai libri miracolosi, tutto pare possa schiudere il segreto della felicità. La ricerca in sé non ha nulla di male, precisa la dottoressa Gruber, e gli strumenti spesso consigliati non sono necessariamente sbagliati. Per esempio, prendersi del tempo per pensare positivo o l’essere grati; visualizzare o creare situazioni che possono renderci felici, sono tutti mezzi per cercare di ottenere quanto desiderato. Tuttavia, quello che frega sono le aspettative. «Quando lo fai con la motivazione o l’aspettativa che queste cose dovrebbero farti felice, questo può portare a delusioni che diminuiscono la felicità», spiega Gruber.
Lo studio ha mostrato come le persone che avevano letto un articolo di giornale che esaltava il valore della felicità si sono sentite peggio dopo aver visto un film sulla felicità che non le persone che hanno letto un articolo di giornale che non ha menzionato la felicità. L’idea è che costoro fossero rimasti delusi perché, alla fine, non si sentivano più felici. Le aspettative erano state disattese e la sensazione di fallimento può averli fatti sentire ancora peggio.
Un altro lato oscuro della felicità è che le persone che si ritengono tali tendono a sottovalutare i rischi. Chi ha una stima troppo ottimistica della vita e di se stesso o, per così dire, un eccesso di emozioni positive, tende ad abusare di sostanze varie, a eccedere nella velocità quando guida, o spendere più di quello che guadagna e altri comportamenti che fanno pensare che un «un grado troppo alto di felicità può essere cattivo», dichiara Gruber.
Ma allora qual è il segreto della felicità? A questa domanda cercano di rispondere i ricercatori che scrivono: «Il più forte predittore della felicità non è il denaro, o il riconoscimento esterno attraverso il successo o la fama. E’ avere significative relazioni sociali», afferma Gruber. Il segreto, quindi, è smettere di preoccuparsi di trovare a tutti i costi la felicità e, magari, concentrarsi e trarre il meglio dalle relazioni interpersonali.
Come disse qualcuno: la felicità non è il traguardo, ma il percorso.
[lm&sdp]
Il latte più simile a quello umano: il latte di capra
Il latte di capra pare sia un alimento salutare e tollerato anche da chi è allergico alla caseina e intollerante al lattosio - Foto: ©photoxpress.com/aidasonne
Uno studio spagnolo afferma che il latte di capra contiene molte sostanze nutritive che lo rendono simile al latte umano
Dagli scienziati dell’Università di Granada, in Spagna, arriva la notizia che il latte di capra è un alimento funzionale con caratteristiche nutrizionali benefiche per la salute. In più, è quello più simile al latte umano.
Il latte prediletto dal Mahatma Gandhi, pare essere uno dei latti migliori se, per esempio, si vuole optare per un’alternativa al latte in polvere nell’allattamento dei neonati. Ma non solo, il latte di capra favorisce il miglioramento della salute e il recupero nelle persone colpite da anemia a causa della carenza di ferro. Ne favorisce l’assorbimento e aumenta la rigenerazione dell’emoglobina.
I ricercatori dell'Università di Granada, Dipartimento di Fisiologia e Nutrizione e dell'Istituto di Tecnologia Alimentare, coordinati dalla professoressa Margarita Sánchez Campos, hanno condotto uno studio in cui si evidenziano le caratteristiche nutrizionali benefiche del latte di capra.
Tra le varie componenti, il latte di capra, contiene la caseina – una sostanza che lo rende simile al latte umano. Al contrario contiene poca caseina alfa-1, nota per essere responsabile della maggioranza delle allergie al latte vaccino. Allo stesso modo, il latte di capra contiene circa l’1% in meno di lattosio, rispetto al latte di mucca. Diviene quindi più facile da digerire. Non a caso, chi soffre di intolleranza a questo zucchero del latte è invece in grado di tollerare il latte di capra.
Oltre a ciò, spiegano i ricercatori, contiene una notevole quantità di oligosaccaridi; anche questi con una composizione simile a quella del latte umano. Questi utili composti raggiungono l'intestino crasso e agiscono come dei prebiotici. In questo modo favoriscono lo sviluppo della flora batterica probiotica che rivaleggia con la flora batterica patogena, facendola sparire.
Il latte di capra è utile anche per chi soffre di problemi alle ossa, fa notare Sánchez Campos, in quanto è ricco di calcio e fosforo, è altamente biodisponibile e favorisce la loro deposizione nella matrice organica dell'osso; questo porta a un miglioramento nella formazione dell'osso. Altri elementi utili per la salute, contenuti nel latte di capra, sono lo zinco e il selenio. Due sostanze che contribuiscono a prevenire le malattie neurodegenerative e agiscono come antiossidanti.
Secondo i ricercatori, il latte di capra dovrebbe essere considerato un alimento funzionale il cui consumo dovrebbe essere promosso.
[lm&sdp]
19 mag 2011
BAMBINI
Leggere (o sentir leggere)
fa benissimo ai bambini
Nei piccoli, ascoltare libri letti a voce alta, stimola i neuroni e aiuta a moderare comportamenti anti-sociali
Nei piccoli, ascoltare libri letti a voce alta, stimola i neuroni e aiuta a moderare comportamenti anti-sociali
Leggere le fiabe fa bene
MILANO - Leggere fiabe e filastrocche a un bambino, meglio se è ancora molto piccolo, fa bene a lui e ai genitori. Lo dimostrano studi scientifici e numerose esperienze in Italia e all’estero. Come «Nati per leggere», il progetto nazionale senza fini di lucro con il quale, da più di dodici anni, pediatri e bibliotecari lavorano insieme per promuovere nei genitori la buona abitudine di leggere ai propri figli di età compresa tra i 6 mesi e i 6 anni. Non per farli addormentare, ma per svegliarne la mente. «Una lettura ad alta voce, - afferma il dottor Michele Gangemi, past president dell’Associazione Culturale Pediatri e pediatra di libera scelta in Verona, - è in grado di “rapire” un bambino almeno quanto un videogame».
A VOCE ALTA Ma che cosa spinge i pediatri di libera scelta a mobilitarsi in forze, per un obiettivo che sembra più nelle corde di un educatore o di uno psicologo?«Perché leggere a un bambino ha effetti molto positivi sulla sua salute, sul suo sviluppo cognitivo ed emotivo. E quello di vegliare su tale sviluppo è precisamente uno dei compiti dei pediatri». In due parole, secondo studiosi di tutto il mondo, la lettura ad alta voce è una delle strategie di dimostrata efficacia per prevenire i problemi dello sviluppo e dell’apprendimento nel bambino. Non importa se il bambino abbia appena iniziato a stare seduto senza sostegno, se non abbia ancora detto “mamma”. Anzi, prima si comincia, meglio è. «L’efficacia della lettura ad alta voce in epoca neonatale, - spiega Michele Gangemi, - si fonda sulla teoria dello sviluppo precoce (Early Child Development). Nel bambino molto piccolo, lo stimolo a svolgere un nuovo compito (come quello di ascoltare, appunto) aumenta la sopravvivenza dei nuovi neuroni che si stanno formando: senza compiti, i nuovi neuroni svaniscono. E più il compito è difficile e ripetuto, più aumenta il numero dei neuroni "risparmiati". In pratica, sembra che esista una finestra temporale entro cui l’apprendimento di nuovi compiti può risparmiare i neuroni. È compresa fra prima e seconda settimana dalla nascita della cellula: più precisamente fra il 7° e il 14° giorno e corrisponde al periodo in cui la cellula neonata e non specializzata si differenzia in neurone, emette i filamenti (dendriti) che le permettono di "collegarsi". È così che il neonato diventa sensibile all’apprendimento». Una volta avvenuto il cablaggio, agire sulla plasticità dello sviluppo è ancora possibile, naturalmente, ma è molto più difficile. Ecco perché l’”evangelizzazione” delle mamme comincia dai reparti di maternità degli ospedali e viene proseguita dal pediatra di libera scelta.
IL RUOLO DELLE BIBLIOTECHE -Con la collaborazione delle biblioteche cittadine, che si attrezzano per rendere possibile l’accesso di mamme e bambini. «A Verona, per esempio, presso il mio studio, è attivo un vero e proprio punto prestito, con la restituzione dei libri presso uno dei 12 punti specializzati delle biblioteche cittadine». Una volta cominciato, è importante continuare, perché un intervento sul piacere della lettura può avere un effetto positivo anche più tardi, fino ai sei anni di età. «È proprio questo il periodo in cui si forma la capacità del bambino di "immaginare", di costruire le immagini sotto lo stimolo della lettura, - dice Gangemi. - E in cui si struttura e si conferma il piacere della lettura. Aumentare lo spazio di ascolto, la capacità di costruirsi delle immagini, lo sviluppo della creatività e dell’immaginazione, I bambini, esposti più che in passato a stimolazioni tele-visive, tendono a elaborare meno immagini». Inoltre, la voce della mamma o del papà, e il tempo passato con il bambino (invece di parcheggiarlo davanti alla TV) creano un momento privilegiato e non sostituibile di relazione che fa bene al piccolo, ma anche alla famiglia.
LITERACY Ma c’è di più. «La capacità di leggere, scrivere e comprendere un testo (la “literacy”) fa bene alla salute ed è un indicatore di benessere riconosciuto, - conclude Gangemi. - Buoni livelli di literacy sono legati a un migliore utilizzo dei servizi sanitari e quindi a migliori condizioni di salute. Adolescenti con bassi livelli di literacy sono a rischio almeno doppio di andare incontro a comportamenti aggressivi e antisociali. E il numero di adolescenti in queste condizioni è, purtroppo, in continuo aumento”» È il circolo vizioso, che parte dall’incapacità di leggere e capire e, passando attraverso disagio, frustrazione e riduzione dell’autostima, giunge infine all’aumento del tasso di abbandono scolastico e del rischio di disturbi del comportamento. Un circolo vizioso che colpisce soprattutto i figli di famiglie in condizioni socio-economiche svantaggiate alle quali, prima di tutto, si rivolge «Nati per leggere».
Luciano Benedetti
REGNO UNITO
Donna allergica alla tecnologia:
vive a lume di candela
Ha sconfitto il cancro, ma non può guardare la tv, accendere la radio, usare cellulari e internet
Janice Tunnicliffe (fonte www.dailymail.co.uk)
MILANO- Non può guardare la tv, ascoltare la radio, metter su il bollitore per farsi una tazza di the. Luci rigorosamente spente, pc e cellulari banditi da casa, passa le serate a lume di candela a giocare a scarabeo o a scacchi. Non è facile la vita di Janice Tunnicliffe, britannica, 55 anni: è così allergica a elettricità e campi elettromagnetici che il suo vicino di casa ha dovuto smettere di navigare in internet con la connessione wireless. La donna, madre di due figli e sopravvissuta a un cancro, sta male in presenza della tecnologia, che le provoca mal di testa, dolori al petto, nausea, formicolii a gambe e braccia.
MALATA DI CANCRO - Il malessere - si legge su diversi quotidiani online britannici - è cominciato dopo un ciclo di chemioterapia a cui Mrs Tunnicliffe si è dovuta sottoporre circa tre anni fa. Il trattamento le ha lasciato un'eredità poco piacevole, questa rara condizione chiamata elettrosensibilità. I campi elettromagnetici innescati da apparecchi in funzione possono provocare reazioni anche gravi. Le finestre del cottage in cui la donna vive a Wellow, vicino a Nottingham, sono schermate per respingere le onde elettromagnetiche. E durante i week end Mrs Tunnicliffe scappa in campagna con il marito, per un «break» totale dai segnali elettrici. In mezzo alla natura sta meglio, come quando un black out, spegnendo la sua città, le ha regalato qualche ora di sollievo.
ELETTROSENSIBILITA' - Dell'elettrosensibilità la donna è venuta a conoscenza su internet e con gli anni ha imparato da sola a gestire la sua condizione: lamenta, infatti, di non aver mai trovato ascolto nei medici. Il servizio sanitario britannico si è rifiutato di pagarle il trattamento in un ospedale privato specializzato. L'orientamento della maggior parte dei camici bianchi in Gran Bretagna è che l'elettrosensibilità sia un disturbo psicosomatico. Secondo Powerwatch, un'organizzazione di ricerca sugli effetti dei campi elettromagnetici, il 3-4% della popolazione può avere una qualche reazione allergica alla tecnologia, ma pochi al livello di Mrs Tunnicliffe. (Fonte: Adnkronos)
15 mag 2011
DOSSIER MALATTIE RARE
La bambola di cristallo ora è mamma
La vittoria di una donna grazie ai progressi della ricerca
La "bambola di cristallo" si è trasformata in una donna, moglie e mamma, che vive i suoi 37 anni senza più l'incubo dei lividi su tutto il corpo. Ecco la sua storia. «Il periodo peggiore è stata l'adolescenza — ricorda la protagonista, che si chiama Concita e il nome è vero —. Allora ho cominciato a sentirmi una "bambola di cristallo": mi guardavo allo specchio e vedevo ematomi ovunque. Senza sapere il perché. Mi chiedevo "ma dove ho picchiato?" E mi arrabbiavo, perché non ricordavo alcun trauma. Passavo, spesso, dal pianto alla vergogna».
I problemi per Concita erano cominciati a sei anni: fino ad allora la sua vita era stata del tutto normale. Sì, qualche volta cadeva, giocando, e qualche livido qua e là compariva, ma nulla di particolare. Poi una mattina si sveglia e non riesce più a parlare: le gengive sono gonfie e la bocca è piena di sangue. Primo ricovero in ospedale a Rovigo, prima diagnosi: leucemia. Altri esami, altri ricoveri (a Ferrara e a Verona) e nuova diagnosi: piastrinopenia (carenza, cioè, di piastrine, gli elementi del sangue, prodotti dal midollo, che servono per la coagulazione). O meglio: porpora trombocitopenica idiopatica, di origine sconosciuta.
«Una malattia rara — commenta Fabrizio Pane, ematologo all'Università Federico II di Napoli —. La sua incidenza varia da uno a 12 casi ogni 100 mila persone all'anno. Può manifestarsi a tutte le età e spesso è cronica». Unici sintomi, lividi e sanguinamenti (non solo delle gengive, ma anche del sistema digestivo), a volte gravi, e, comunque, una compromissione della qualità della vita. «Avere un figlio è sempre stato il mio sogno — dice Concita —. Quando mi sono sposata ne ho parlato con l'ematologo per sapere se un giorno avrei potuto portare avanti una gravidanza normale». La risposta è stata sì, a patto di seguire una terapia.«I farmaci di prima linea, secondo gli schemi tradizionali — precisa Enrica Morra, ematologa all'Ospedale Niguarda di Milano — sono il cortisone e le immunoglobuline ad alte dosi, per chi non risponde al cortisone. Il trattamento di seconda linea prevede, invece, immunosoppressori (che riducono l'attività del sistema immunitario: le piastrine sono, infatti, distrutte da anticorpi prodotti dall'organismo stesso) e l'asportazione della milza».
Concita, per la gravidanza e dopo il parto cesareo, ha seguito una cura a base di cortisone, ma nonostante le terapie il suo corpo rimaneva fragile. E gli effetti del cortisone si facevano sentire. Non rimaneva che l'asportazione della milza. «Siamo nel 2007 — prosegue Concita — ed ero in attesa dell'intervento. Finalmente mi arriva la chiamata dall'Ospedale di Padova, dove sono in cura, ma non è per l'operazione: mi propongono di entrare in una ricerca che vuole valutare l'effetto di un nuovo farmaco, l’eltrombopag, capace di stimolare la produzione di piastrine da parte del midollo». Una settimana di terapia e i primi controlli. «Già quando mi fanno i prelievi —- ricorda la donna — non credo ai miei occhi: il buchino dell'ago si chiude quasi immediatamente… Non era mai successo. Quando mi portano i risultati degli esami, vado a cercare l'asterisco che indica i valori delle piastrine fuori dalla norma. Non c'è, l'asterisco non c'è e io mi metto a piangere. Al controllo della seconda settimana le piastrine sono 250 mila: un record».
Adriana Bazzi
abazzi@corriere.it
14 maggio 2011
DOSSIER MALATTIE RARE
Laura, dieci anni per capire
di che cosa era ammalata
La difficoltà e i ritardi nelle diagnosi negano
a chi ne soffre la speranza di un'esistenza migliore
In Italia, uno ogni 2000 soffre di malattie rare
MILANO-Tutte la strade portano qui, al primo piano di un edificio grigio fuori e pieno di colore dentro. L’Unità di genetica medica dell’ospedale San Gerardo di Monza è uno dei tanti crocevia d’Italia dove le vite dei bambini «speciali» si incontrano. Sulle strade delle malattie rare, mamme e papà condividono l’attesa. Delle diagnosi. E dei controlli. Quando sono tanti, se la cavano in una mattinata solo grazie all’organizzazione delle visite coordinate dal reparto. È un mondo di disegni nell’angolo dei volontari dell’Abio, questo. Di braccine tese contro gli aghi per i prelievi del sangue. Di papà che giocano a biliardino con figli instancabili.
Il tour del giorno: un giro al primo piano, per la risonanza magnetica. Uno al secondo, per l’ortopedico. «Poi tornate e ci vediamo in stanza». Pianti, sorrisi, urla di spavento e gridolini di gioia. E poi via a casa. A scuola. Alla vita di tutti i giorni. Restano scie di dolore sul volto delle mamme, smorfie di rassegnazione agli angoli delle bocche dei papà, occhi di bambini che trasmettono maturità e consapevolezza estranei alla loro età. Sulle strade delle malattie rare tempi e distanze diventano concetti sfuocati come miraggi nel deserto. Prendi Laura (il nome è di fantasia), ad esempio. Abita non molto lontano dall’ospedale eppure ci è arrivata dopo 30 anni. Nel 1980, quando nasce, la diagnosi di una malattia rara è l’approdo assolutamente aleatorio di un percorso di guerra. Figurarsi poi se la sindrome è rarissima. La sua ha il nome esotico di Kabuki, perché il volto di chi ce l’ha ricorda le maschere del teatro tradizionale giapponese: il Kabuki appunto. Due ricercatori, Niikawa e Kiroki, la descrivono nell’81, ma le traiettorie di Laura e della sua malattia impiegano altri nove anni prima di incrociarsi.
La madre e il padre, entrambi sessantenni ed ex operai, raccontano volentieri le vicende della figlia, venuta al mondo nove anni dopo il fratello che invece è perfettamente sano. Hanno un pudore antico, però, e chiedono di restare anonimi. Raccontano la nascita prematura di Laura e il distacco immediato dalla mamma, la storia infinita di visite e interventi chirurgici, i busti di gesso tre volte per quattro mesi, la riabilitazione, gli apparecchi acustici, le mappature cromosomiche «che a quei tempi non si facevano sotto casa». Soltanto alla fine del ’90, su consiglio del pediatra, la famiglia si rivolge alla clinica De Marchi di Milano per cercare un nome ai tanti guai di Laura. Da una prima indagine non salta fuori nessun collegamento a sindromi allora conosciute. Poi, un medico della De Marchi sente parlare della Kabuki a un congresso di Marsiglia. «Laura aveva tutti questi sintomi: — rammenta la madre — problemi all’orecchio, occhi così, mani in un certo modo, scoliosi; tutte cose che ormai si erano manifestate in lei. Mi sembra che come lei ci fosse solo un altro caso a Torino». Laura viene seguita alla De Marchi fino all’anno scorso, quando il medico di riferimento si trasferisce a Monza.
Ad un altra latitudine, anche il cammino di Fabio Terzaroli, che di anni ne ha 42 e abita a Roma, è lungo e accidentato. A lui e a sua sorella la mucopolisaccaridosi di tipo IV (malattia che deforma lo scheletro) è diagnosticata dopo ben otto anni. E questo li costringe a una vita di sacrifici, compreso il busto portato per 15 anni. Di quel calvario, Fabio non riesce a dimenticare soprattutto l’infanzia: «Un trauma — ricorda —. Siccome ero malato, a scuola dovevo stare sotto la finestra, lontano dagli altri bambini altrimenti c’era chissà quale pericolo. Anche da adulto comunque trovo queste differenze: veniamo sempre guardati e squadrati».
Oggi, oltre al problema fisico, è la burocrazia l’ostacolo più difficile da affrontare: «Dai certificati di invalidità che scadono a tutto il resto, i farmaci che paghiamo nella maggior parte. Ci sentiamo abbandonati alla burocrazia». Sonia Pizzato, mamma di Loris, combatte contro l’ottusità della burocrazia fin da quando il figlio frequentava l’asilo, in provincia di Varese. Loris ha 12 anni e soffre di Rubinstein-Taybi, sindrome diagnosticata a 8 mesi, che provoca scarsa crescita e ritardo psicomotorio. «È bruttissimo dirlo, ma bisogna alzare la voce per ottenere il giusto — si rammarica —. Loris non veniva preso all’asilo, perché secondo loro non c’era una classe adatta. Ho scritto ai giornali. Alla fine, la classe è saltata fuori. Per tenerlo a scuola, dove lo hanno escluso dopo una settimana perché si faceva la pipì addosso e anche lì non c’era il bagno per i disabili, ho dovuto raccogliere le firme in paese». Deve battere i pugni sui tavoli anche per ottenere la maestra di sostegno e un’operatrice del comune.
Sulle strade delle malattie rare, ma a Vicenza, ancora la burocrazia nega a Cristina Gasparet, madre di Diego, e presidente dell’associazione dei genitori , il permesso di parcheggio per gli invalidi. Lo decide un medico del distretto sanitario, basandosi su una precedente visita dalla quale non risulta che il bambino abbia problemi di deambulazione. «Per forza, — ride Cristina — aveva otto mesi!». La mamma riesce però a sapere che basta rivolgersi al comando della polizia locale. Così aggira l’ostacolo. Non tutte le famiglie sono combattive o si informano, nonostante Internet e i social network come Facebook facilitino i contatti con le associazioni o comunque tra persone con le stesse vicissitudini. «Ma i siti Internet usano anche un linguaggio angosciante — sottolinea Cristina —. Il modo di comunicare è fondamentale. Per la nostra sindrome parlano subito di ritardo mentale. Quando lo hanno detto a me, una dottoressa mi ha spiegato: Diego sarà piccolo, ma simpatico. E in effetti i nostri bambini sono così: piccoli e simpatici, sempre sorridenti».
Annalisa Sergio approva. Da nove anni, l’età di sua figlia Denise, lascia Lizzanello in provincia di Lecce e assieme a lei e al marito raggiunge Monza per i controlli semestrali. «Andiamo in ospedale a Gallipoli — spiega questa mamma, che è anche referente regionale dell’Associazione dei malati — solo per sottoporre Denise alla terapia enzimatica contro la Mucopolisaccaridosi di tipo VI che le hanno diagnosticato a sette mesi. Al Sud purtroppo mancano le strutture e i medici non vogliono aggiornarsi». Sulle strade delle malattie rare, il papà di Denise ha perso il lavoro e ogni volta la trasferta al San Gerardo si fa grazie a una colletta della parrocchia, dei parenti e degli amici. «Le nostre famiglie vengono distrutte, — sussurra Annalisa — ma io amo la vita e Denise la prende abbastanza bene». Anche Ruben Sanvito ama la vita, il judo e la batteria. Ha 15 anni ed è un ragazzo «con le stelle negli occhi», uno dei segni distintivi della sindrome di Williams. Con i genitori e il fratello ha creato un sito, quando ancora sul web in Italia non c’era nulla. Sulle strade delle malattie rare c’è anche il loro coraggio.
Ruggiero Corcella
14 maggio 2011
11 mag 2011
Lifestyle
10/05/2011 - intolleranze "mentali"
Intolleranza al lattosio? È una questione mentale
Una tazza di cioccolata. Per qualcuno è causa di sintomi da intolleranza al lattosio, ma in certi casi è tutta questione di testa -
Tutta colpa di stress, ansia, depressione. Le intolleranze alimentari come quella al lattosio potrebbero avere un’origine psicologica anzichenò
Riteniamo di essere intolleranti al lattosio? Attenzione, perché potrebbe essere una questione di testa, anziché di intestino. Questo quanto suggerito da un nuovo studio italiano presentato l’8 maggio alla conferenza Digestive Disease Week di Chicago (Usa). Qui, dottor Guido Basilisco dell'unità di gastroenterologia dell'Irccs Cà Granda di Milano, che ha condotto lo studio, ha spiegato come una presunta intolleranza al lattosio possa essere dovuta allo stress.
I dati sono stati acquisiti a seguito di analisi eseguite su oltre 100 pazienti che lamentavano sintomi che potevano far supporre proprio un’intolleranza al lattosio; tra questi, mal di stomaco, gonfiore e diarrea. Agli stessi partecipanti, i ricercatori hanno anche raccolto informazioni circa la loro salute mentale e fisica, in particolare se ne erano depressi o ansiosi o soffrivano di dolori e sofferenze generali.
Dalle informazioni raccolte, gli scienziati, hanno concluso che sintomi tipici di questa intolleranza, come gonfiore o difficoltà di digestione, possono essere la somatizzazione di un disagio psicologico.
L’azione più scontata, in genere è l’eliminazione dalla propria dieta di latte e latticini senza tuttavia sottoporsi a seri e affidabili test per valutare se si è davvero intolleranti. Una scelta che può essere infelice, sottolineano i ricercatori, in quanto può rivelarsi pericolosa per la salute, in particolare quella delle ossa a causa della carenza di calcio.
Se non vi è alcun dubbio che i geni di alcune persone rendono loro difficile digerire il lattosio e che questo provoca problemi di stomaco quando bevono grandi quantità di latte, spiega Basilisco, è altresì vero che molte delle persone che affermavano di soffrire di problemi a seguito dell’assunzione di una tazza di caffè o una cioccolata calda, sono stati perfettamente in grado di digerire il lattosio.
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La meditazione può aumentare il successo dei trattamenti per l’infertilità
Pratiche mente/corpo, come la meditazione, possono aumentare il successo dei trattameni per l'infertilità
Le pratiche che coinvolgono mente e corpo ed eliminano lo stress possono aumentare il successo dei trattamenti per l’infertilità come la fecondazione in vitro o FIVET
Meditare non solo per migliorare le facoltà mentali o per ridurre la percezione del dolore, come suggerito da diverse ricerche, ma anche per avere più successo con i trattamenti per l’infertilità, suggerisce un nuovo studio statunitense.
Anche se l’idea che vi sia un collegamento tra stress e fertilità è ancora controversa, «sappiamo che lo stress può ridurre la probabilità di concepimento», spiega la dottoressa Alice Domar, primario di Ostetricia e Ginecologia, presso il Beth Israel Deaconess Medical Center e direttore esecutivo del Domar Center for Mind/Body Health di Boston.
Così, al fine di determinare se il controllo dello stress potesse influire sulle possibilità di successo della fecondazione in vitro, i ricercatori hanno condotto un test su un gruppo di donne con normali livelli di ormoni, in età fertile, e fino ai 40 anni d'età. Nessuna delle partecipanti aveva in precedenza fatto parte di un gruppo che utilizzava terapie mente/corpo.
Le volontarie sono poi state suddivise a caso in due gruppi. Le appartenenti al primo gruppo sono state avviate a un training di terapia mente/corpo. Le appartenenti al secondo gruppo hanno fatto da gruppo di controllo e non hanno partecipato a nessun programma terapeutico.
La ricercatrice ha poi monitorato i due gruppi attraverso due cicli di fecondazione in vitro. Dai dati acquisiti si è rilevato che dopo il primo ciclo non vi era alcuna differenza nei tassi di concepimento tra il gruppo di studio e il gruppo di controllo.
Le differenze si sono invece mostrate nel secondo ciclo. Qui, difatti, la maggioranza delle pazienti appartenenti al gruppo di studio mente/corpo aveva già partecipato ad almeno cinque incontri. Arrivate «a quel punto, avevano acquisito alcune competenze di vita reale per affrontare lo stress – ha spiegato Domar – E questo è successo quando abbiamo rilevato un notevole aumento dei tassi di gravidanza».
In numeri, i ricercatori hanno rivelato che ben il 52% delle donne che avevano partecipato al programma mente/corpo erano rimaste incinta; per difetto soltanto il 20% delle donne appartenenti al gruppo di controllo era rimasta incinta. Una differenza significativa, sottolinea Domar.
Lo studio, pubblicato su Fertility and Sterility, una rivista dell’American Society of Reproductive Medicine, mostra quindi vi possa essere una correlazione tra controllo dello stress e il successo nei trattamenti per l’infertilità. «Lo studio supporta la teoria che lo stress psicologico può essere un danno importante ai risultati della FIVET», concludo difatti gli autori dello studio.
[lm&sdp]
9 mag 2011
La tremenda cefalea a grappolo:
si può combattere con l'ossigeno
Sperimentata in Pennsylvania, una nuova terapia
per affrontare una delle forme più terribili di emicrania
Cefalea a grappolo:
MILANO- La prima terapia efficace per la terribile cefalea a grappolo (tristemente nota come «cefalea da suicidio») caratterizzata da attacchi che si raggruppano in «grappoli» concentrati in un determinato periodo alternandosi a fasi di remissione, talora lunghe anche anni, è arrivata all’inizio degli anni ’90 con i triptani, farmaci oggi di riferimento anche nell’emicrania. Se in quest’ultima, nella maggior parte dei casi, basta assumerli per via orale, nella cefalea a grappolo viene quasi sempre usata la via sottocutanea a testimonianza dell’urgenza con cui occorre intervenire sul fortissimo dolore di questa cefalea che può facilmente portare il paziente addirittura al Pronto Soccorso.
ALTRI FARMACI - Prima dei triptani, per la cefalea a grappolo c’erano comunque anche altri farmaci dotati di alterna efficacia come ad esempio l’ergotamina e comunque nemmeno i triptani funzionano in tutti i pazienti. C’è sempre stata una sostanza capace di stroncare, almeno per un po’ di tempo, gli attacchi: l’ossigeno che, secondo una prassi ormai consolidata, viene inalato alla concentrazione del 100% a un flusso a pressione costante di 7-10 litri al minuto per un quarto d’ora stroncando il 50% delle crisi in 7 minuti e il 93% in 10. È un trattamento da attuare in ambiente ospedaliero quando le altre chances terapeutiche sono esaurite o non funzionano: associare ad esempio l’ossigeno ai triptani li rafforza quando sono poco efficaci. L’ossigeno ha peraltro il vantaggio di non avere controindicazioni nè effetti collaterali e la sua somministrazione è ripetibile senza mai aver evidenziato limitazioni.
LO STUDIO - Per questo motivo i ricercatori americani della Pennsylvania Geisinger Clinic non hanno esitato ad affidare allo stesso paziente la gestione degli attacchi fornendogli un nuovo speciale dispositivo che si indossa come la maschera dei saldatori e che è un inalatore d’ossigeno puro domiciliare che ha il vantaggio di far aspirare al paziente quanto ossigeno vuole da una bombola simile a quella dei subacquei secondo un flusso a pressione variabile che può arrivare a 160 litri al minuto. La decisione di creare questo dispositivo è partita da un recente studio su oltre mille pazienti che ha evidenziato come spesso il trattamento con ossigeno non raggiunga la giusta efficacia a causa del flusso di erogazione troppo basso: adesso i pazienti potranno trattare subito gli attacchi con l’ossigeno a casa senza aspettare di arrivare in ospedale e secondo il flusso che riterranno più efficace per loro.
Cesare Peccarisi
La nascita? Ancora un lusso per pochi Cinquanta milioni di mamme a rischio
Save the Children pubblica la graduatoria del benessere di madri e figli in 164 Paesi In testa la Norvegia, ultimo l’Afghanistan. L’Italia scivola al 21esimo posto
MILANO - La nascita è ancora un «lusso» nella stragrande maggioranza dei Paesi in via di sviluppo: mille donne e duemila bambini continuano a morire ogni giorno per complicazioni al momento del parto, facilmente evitabili e risolvibili se ad assistere alla nascita ci fosse anche una sola ostetrica. Ma così non è ancora per 48 milioni di donne nel mondo, di cui 2 milioni partoriscono in totale solitudine, senza neanche un familiare. Sono questi alcuni dei dati che danno la misura delle abissali distanze che ancora separano i Paesi industrializzati da quelli del Terzo e Quarto mondo, con la Norvegia in cima alla classifica delle nazioni dove mamme e bambini stanno meglio e l’Afghanistan all’ultimo posto nel mondo per benessere materno-infantile, secondo l’Indice delle madri diffuso dall’associazione Save the Children all’interno del 12esimo «Rapporto sullo stato delle madri nel mondo», una graduatoria del benessere materno-infantile in 164 Paesi stilata sulla base di vari parametri: dagli indici di mortalità infantile e materna, all'accesso delle donne alla contraccezione, dal livello di istruzione femminile e di partecipazione delle donne alla vita politica, ai tassi di iscrizione dei bambini a scuola.
«PICCOLE MAMME»- Alla pubblicazione, che tradizionalmente viene diffusa alla vigilia della festa della mamma per fare il punto sulla condizione delle madri e dei bambini nel mondo, quest’anno Save the Children affianca anche la ricerca «Piccole mamme», un’analisi sulle madri teen ager in Italia. «A guardare i dati e le classifiche si rischia di farsi prendere dallo sconforto perché da un anno all'altro — spiega Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia —. La scala di alcuni problemi rimane grande soprattutto in molti paesi subsahariani e asiatici, per esempio Niger, Ciad, Eritrea, Sudan, Afghanistan, Yemen, dove l'esperienza della maternità e della nascita restano una sfida, a volte mortale, per madre e bambino. E anche guardando a casa nostra non si può nascondere una certa preoccupazione nel vederci scivolare nell’Indice delle madri dal 17esimo al 21esimo posto fra i Paesi industrializzati per benessere materno-infantile, con alcuni indicatori - come la presenza delle donne in parlamento o il ricorso alla contraccezione - che ci vedono al di sotto di alcune nazioni in via di sviluppo».
LA CLASSIFICA MONDIALE - Secondo l’indice della madri, Afghanistan, Niger, Guinea Bissau, Yemen, Chad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Mali, Sudan, Repubblica Centro Africana sono i 10 paesi dove i livelli di salute materno-infantile e le condizioni di madri e bambini sono i peggiori al mondo. All'estremo opposto della classifica, i 10 paesi dove il benessere di madri e bambini è massimo: Norvegia, Australia, Islanda, Svezia, Danimarca, Nuova Zelanda, Finlandia, Belgio, Paesi Bassi, Francia. La distanza fra la prima della lista, la Norvegia, e l’ultimo paese in graduatoria, l’Afghanistan, è abissale: in Norvegia ogni parto avviene in presenza di personale qualificato mentre in Afghanistan questo accade solo nel 16% dei parti. Una donna norvegese in media studia per 18 anni e vive fino a 83. L’83% delle donne norvegesi fa uso di contraccettivi e 1 su 175 perderà il proprio bambino prima che compia 5 anni. All’estremo opposto, una donna afghana studia per meno di 5 anni e vive mediamente fino a 45. Meno del 16% di donne ricorre alla contraccezione, 1 bambino ogni 5 muore prima di arrivare al quinto anno di età il che significa che ogni donna, in Afghanistan, va incontro alla perdita di un figlio nell’arco della sua vita. Prendendo in esame altri Paesi in fondo alla classifica, i confronti non sono meno drammatici: 1 donna ogni 14 in Ciad e Somalia rischia di morire durante la gravidanza o il parto. In Italia il rischio di mortalità materna è inferiore a 1 donna ogni 15.000.
LA SITUAZIONE IN ITALIA- Nel confronto fra zona alta e la zona bassa dell’Indice, quest’anno il nostro Paese non è nel gruppo di testa e neanche più nella seconda fila, perché dal 17esimo posto è scesa al 21esimo. «La discesa di qualche posizione non è confortante perché riguarda soprattutto i parametri relativi alla condizione della donna e al suo ruolo e riconoscimento sociale — dice Raffaela Milano, responsabile dei programmi Italia-Europa di Save the Children— . Risulta per esempio in flessione la percentuale delle donne sedute in parlamento (20%) a fronte di percentuali più alte in paesi come lo stesso Afghanistan (28%), Burundi (36%), Mozambico (39%). Stabili appaiono altri indicatori, come quello sull’utilizzo della contraccezione che coinvolge il 41% delle donne italiane. Una percentuale inferiore a quella di paesi come Botswana (42%) Zimbabwe (58%), o ancora Egitto (58%) e Tunisia (52%), e molto distante dall’82% della Norvegia». Save the Children ha voluto puntare i riflettori, in particolare, sulle mamme adolescenti italiane, realizzando la ricerca «Piccole mamme» in collaborazione con le associazioni CAF Onlus di Milano, Il Melograno di Roma e L’Orsa Maggiore di Napoli. Le mamme teen sono quelle di età compresa fra i 14 e i 19 anni. Sono oltre 10.000 in Italia, di cui circa 2.500 minorenni: fra queste ultime il l’82% è costituito da mamme italiane, il restante 18% da mamme straniere. Il 71% delle mamme teen risiede nel Mezzogiorno e nelle isole, in particolare in Sicilia, Puglia, Campania, Sardegna e Calabria. Nell’Italia meridionale e nelle isole i nati da madri minori di 20 anni rappresentano il 3% del totale delle nascite nell’area a fronte dell1,3% nell’Italia nord orientale e nord occidentale, dell’1,1% dell’Italia centrale. Guardando al rapporto fra mamme teen straniere e italiane in 3 città campione (Milano, Roma e Napoli), a Milano si rileva una percentuale più consistente delle prime (pari al 2,62% sul totale delle mamme straniere) rispetto alle seconde (lo 0,97% sul totale delle madri italiane). Anche a Roma il rapporto è più sbilanciato a favore delle mamme straniere (1,82 a fronte dello 0,74 delle madri italiane). A Napoli invece la situazione si ribalta: la percentuale di madri italiane è più alta (3,46%) in confronto a quella delle mamme teen non italiane (1,41%). L'età media in cui le giovani mamme hanno un bambino è di 16-17 anni. Circa il 60% delle mamme adolescenti ha un marito o un compagno, mediamente giovane (fra i 18 e i 21 anni). Solo una piccola parte (il 19%) delle giovani madri ha un lavoro; per quanto riguarda il titolo scolastico, molte si sono fermate alla scuola dell’obbligo o hanno successivamente interrotto gli studi. «Il numero delle mamme adolescenti è rimasto più o meno costante e contenuto negli anni ma non per questo il fenomeno può essere ignorato — spiega Raffaela Milano —. Le mamme adolescenti sono ragazze doppiamente vulnerabili, poiché al delicato momento rappresentato dall’adolescenza si aggiunge l’esperienza della maternità. Il risultato è spesso un sentirsi impreparate e inadeguate sia a livello emotivo, sia sociale ed economico. Talvolta poi la gravidanza precoce si inserisce in un quadro già multiproblematico sia della ragazza che della sua famiglia di origine. Ne consegue la necessità di costruire intorno alla giovane mamma e al suo bambino una rete di supporto, da parte dei servizi sociali e sanitari, prevedendo anche una formazione ad hoc per gli operatori coinvolti, che tenga conto della provenienza non italiana di tante di queste mamme e delle particolari dinamiche culturali e familiari in cui esse vivono».
L’ANALISI DI THE LANCET E IL RAPPORTO AMREF - A corroborare i dati di Save the Children, uno studio sulla mortalità neonatale appena pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet che mette in rilievo il preoccupante dato sul lento calo dei decessi. Ogni giorno 7.200 bambini, nel mondo, muoiono poco dopo aver visto la luce. Nel 2009 sono morti 2,6 milioni di bimbi entro il primo anno di vita, soprattutto nei Paesi a basso reddito. Nel 1995 si erano registrati 3 milioni di casi, nel 2009 si è arrivati a 2,6 milioni. Una sottile percentuale al ribasso, solo l'1,1% all'anno. Il 98% delle morti si verifica nei Paesi a basso e medio reddito ma anche quelli sviluppati non sono immuni dal fenomeno. Nelle zone ricche del pianeta, il rapporto con quelle povere è di 1 caso a 320. Cinque, le principali ragioni di mortalità: complicazioni del parto, infezioni materne in gravidanza, disturbi della madre (soprattutto ipertensione e diabete), restrizione della crescita fetale e anomalie congenite. Secondo un'analisi dell'Oms, adottando alcune misure di prevenzione sulle madri e sui bambini si potrebbe salvare oltre un milione di neonati all'anno. Quasi la metà delle morti neonatali, 1,2 milioni, avviene quando la donna è in travaglio. Si tratta di episodi direttamente connessi con la mancanza di assistenza qualificata in un momento critico per madri e bambini. Due terzi dei casi avviene nelle zone rurali, dove il personale ostetrico e i medici non sono sempre disponibili per le cure essenziali durante il parto e per le emergenze, come la necessità di effettuare un parto cesareo. Il 66% dei decessi, in base all'analisi di Lancet, riguarda soli 10 Paesi: Afghanistan, Bangladesh, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, India, Indonesia, Nigeria, Pakistan e Repubblica Unita della Tanzania. Secondo Amref (African Medical and Research Foundation), ogni giorno muoiono mille donne per complicanze legate al parto, il 99% nei paesi poveri e la metà concentrate nell'Africa Sub-sahariana, dove è a rischio una futura mamma ogni 31. «Donne e neonati poveri — sottolinea Amref — muoiono molto più degli altri perchè non hanno accesso all'assistenza sanitaria di base che in altre parti del mondo è scontata, gratuita e accessibile a tutti e passa in primis per la disponibilità di ostetriche per l'assistenza al parto. Peraltro, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che sono necessarie 334 mila ostetriche per assicurare l'accesso universale a personale ostetrico qualificato entro il 2015 e si calcola che almeno il doppio siano quelle necessarie per assicurare l'accesso a un pacchetto completo di servizi di salute sessuale e riproduttiva».
LE CAMPAGNE DI SOSTEGNO - Save the Children rilancia la campagna Every One con lo slogan «Siamo tutti mamme» (www.savethechildren.it) per finanziare soluzioni a basso costo, semplici e sperimentate che garantiscano la salute delle madri prima, durante e dopo il parto e abbattano così la mortalità materna e infantile sia al momento della nascita che nei primi mesi e anni di vita del bambino. Fino al 25 maggio è di nuovo possibile contribuire alla campagna Every One, donando 1 euro con un sms al 45599 da cellulare personale TIM, Vodafone, Wind, 3, Coopvoce e Tiscali; 2 o 5 euro chiamando lo stesso numero da rete fissa Telecom Italia, Infostrada, Fastweb, Teletu e Tiscali. Sarà possibile sostenere Every One in anche in tutti i negozi OVS d’Italia, acquistando una shopper direttamente alle casse e fino al 28 maggio si potrà effettuare con facilità una donazione per la campagna di Save the Children in tutte e 45 mila le ricevitorie SISAL sul territorio nazionale. Con i fondi raccolti Save the Children continuerà a sostenere programmi di salute e nutrizione nei 36 paesi in cui si sta dispiegando la campagna, in 6 dei quali – Egitto, Etiopia, Mozambico, Malawi, Nepal, India – i programmi sono direttamente sostenuti da Save the Children Italia. Con Every One, Save the Children si sta impegnando concretamente a salvare 2 milioni e 500.000 bambini entro il 2015, a raggiungere con programmi di salute e nutrizione circa 50 milioni di donne in età fertile e bambini, e a mobilitare 60 milioni di sostenitori in tutto il mondo. Amref lancia invece una raccolta di fondi legata alla Festa della mamma. Con lo slogan «Nessuna donna dovrebbe rischiare la vita per dare la vita», l’organizzazione no profit propone di festeggiare la propria madre donando una visita ginecologica, un corso premaman o un vaccino a una mamma africana (www.occasionidelcuore.it).
Ruggiero Corcella
8 mag 2011
7 mila pazienti in Italia
TALASSEMIA: PIU’ SANI,PIU’ LONGEVI
Malattia genetica ed ereditaria del sangue. In aumento i casi d’importazione dai Paesi extra-comunitari
ROMA - Sta cambiando l’identikit delle persone affette da talassemia ( settemila casi in Italia). Nell’ultimo decennio l’età media di sopravvivenza è cresciuta di dieci anni. E’ migliorata,inoltre, la qualità di vita. Merito va alle trasfusioni più sicure, alle nuove terapie chelanti, all’applicazione diagnostica sempre più diffusa della risonanza nucleare magnetica che svela i pericolosi accumuli di ferro nell’organismo. In una visione generazionale, cominciano a vedersi i primi nonni di bambini talassemici.
I casi comunque aumentano nel nostro Paese, perché prende corpo la “talassemia di ritorno”. Un aumento di questa condizione genetica ed ereditaria del sangue è infatti previsto in seguito al massiccio flusso immigratorio. Medio Oriente, Sud-Est Asiatico,India e bacino del Mediterraneo sono infatti zone dove i pazienti si contano molto numerosi. L’impatto di questi flussi è concentrato soprattutto nelle regioni del nord - Italia, dove l’incremento dei malati è di circa il 40%.
A causa di un difetto genetico del sangue, cala il livello dell’emoglobina con difficoltà nel trasporto dell’ossigeno ai tessuti e riduzione del volume dei globuli rossi. Nel corso della “Giornata Mondiale”, come si è detto a Roma nell’incontro promosso dalla Fondazione “Giambrone” e da Novartis, passi avanti emergono con i nuovi farmaci per bocca come il deferasirox, che sostituisce la terapia sottocutanea con il problema dell’accumulo di ferro negli organi e nelle articolazioni. Anche la risonanza magnetica è di aiuto nel controllo per immagini del decorso clinico.
Non è ancora una malattia superata, come vogliono invece far credere i media che spesso la considerano normale – ha detto Franco Mansi, vice – presidente della Fondazione – perché non è così. Tanti giovani sono infatti costretti a sottoporsi a continue trasfusioni, controlli e ad assumere farmaci chelanti del ferro.
E’ importante dunque potenziare la rete assistenziale e mantenere sotto stretto controllo le complicazioni della malattia legate soprattutto alle continue trasfusioni causa di danni a cuore,fegato e ghiandole endocrine. Oggi, tutti i casi italiani sono inseriti in forma anonima e criptata all’interno del Web Thal, un programma computerizzato sviluppato 13 anni fa dai Centri di Torino,Genova, Milano,Cagliari e Brindisi
GIAN UGO BERTI
(riproduzione vietata)
6 mag 2011
Ictus
Quei segnali del corpo
che possono salvare la vita
In gran parte dei casi sfuggono i campanelli
d'allarme. Tre studi ora rilanciano l’importanza
della tempestività dell’intervento
MILANO -Se chiedi a qualcuno di sorridere e all’improvviso non riesce a farlo, chiama subito il 118. Potresti salvargli la vita e il futuro, perché permetteresti ai medici di somministrargli in tempo utile, cioè entro tre ore, la cura che può cambiare il suo destino, sciogliendo il trombo che impedisce al sangue di irrorare una parte del cervello, prima che il danno sia irreversibile. Pochi purtroppo riconoscono i campanelli d'allarme dell’ictus quando non si manifesta in maniera eclatante e meno ancora sono quelli che in questi casi sanno esattamente che cosa fare: chiamare l'ambulanza. Lo hanno verificato due studi delle Università di Oxford e del Michigan appena pubblicati su Stroke. Un terzo studio, concluso nelle province di Lecco, Como, Sondrio e Varese, prova che un intervento mirato può migliorare in breve le cose. «È facile sottovalutare i sintomi di quelli che vengono chiamati mini ictus o TIA, attacchi ischemici transitori» spiega Peter Rothwell, dell'Università di Oxford. «Su mille pazienti registrati nell'Oxford Vascular Study per questi disturbi — aggiunge —, sette su dieci non si erano resi conto di quel che stava capitando loro; meno della metà ha cercato aiuto entro le prime tre ore dall'insorgenza dei sintomi e il 30% ha addirittura aspettato più di 24 ore. La maggior parte dei pazienti, poi, si è rivolta in prima battuta al proprio medico di famiglia, invece di chiamare un’ambulanza». Più spesso è chi sta vicino al malato a prendere sotto gamba l'episodio, o a fare la scelta sbagliata.
NIENTE AUTO:SUBITO L'AMBULANZA - «La più comune è quella di caricare in macchina la persona e portarla in pronto soccorso, — dice Elio Agostoni, responsabile della Stroke unit all'Ospedale di Lecco — invece di chiamare il 118. Ma l'ambulanza impiega meno tempo per arrivare in ospedale, sa qual è il centro più vicino e attrezzato e può metterlo in allerta». Eppure la gente non lo sa.
I SEGNI - Un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan ha chiesto in un’intervista telefonica come si sarebbero comportati gli interlocutori davanti ad alcuni ipotetici scenari: un amico o un familiare che abbia uno i più di questi segni:
1) improvvisamente fa fatica a parlare;
2) ha la vista annebbiata;
3) perde la sensibilità o sente intorpidita una parte del corpo;
4) ha la febbre alta;
5) si fa male a una gamba.
COME SI REAGISCE - Degli oltre 4.800 cittadini che hanno risposto, poco più di uno su quattro (il 27,6%) ha riconosciuto tutti e tre i casi riconducibili a un possibile ictus (disturbi della parola, difficoltà motorie e visive) e solo il 17,6% di chi ha riconosciuto i sintomi avrebbe reagito nella maniera giusta, cioè chiamando subito l'ambulanza. «Un gravissimo errore non farlo, comune anche in Italia — commenta Agostoni —. Nelle province settentrionali della Lombardia, con oltre 2 milioni di abitanti e 22 strutture di pronto soccorso, un anno fa solo il 43% delle persone colpite da ictus arrivava con le ambulanze del 118». Grazie a un’intensa campagna di informazione e a una nuova organizzazione del servizio, con un percorso più rapido di assistenza, definito da uno specifico «codice ictus», la situazione è stata invertita. «Nei 1.500 casi successivi — prosegue il neurologo —, il 67% dei ricoveri è avvenuto tramite il 118». Ciò ha permesso a un maggior numero di persone di essere trattate con la cura adatta, la trombolisi. «L'obiettivo europeo è che la riceva almeno il 5% dei pazienti —, conclude Agostoni —. In Italia la media è di 1,2, ma col nostro intervento siamo arrivati a 5,6%».
Roberta Villa
studio svedese
Pesce ogni due giorni contro l'ictus
Ancora una conferma che una dieta ricca di pesce fa bene. Ma soprattutto, ancora una raccomandazione a seguire uno stile di vita complessivamente sano
MILANO - La raccomandazione a portare in tavola il pesce almeno tre volte la settimana giunge direttamente dal prestigioso Karolinska Institutet di Stoccolma, passando per le pagine dell’American Journal of Clinical Nutrition. Un consiglio da prendere e portare a casa letteralmente (gli anglosassoni parlano di take home message), anche per chi vive sulle coste del Mediterraneo, meno freddo di quello svedese, ma altrettanto ricco di pesce.
LO STUDIO - I ricercatori svedesi hanno seguito per poco più di un decennio, a partire dalla fine degli anni Ottanta, un ampio gruppo di quasi 35mila donne nate tra il 1914 e il 1948. Alla fine del periodo di osservazione hanno chiesto loro di compilare un questionario molto ricco di informazioni: oltre 350 domande sullo stile di vita e sulla presenza di eventuali malattie croniche, un centinaio sulle abitudini alimentari. Ciò ha permesso di stimare con precisione il consumo settimanale di pesce e perfino di indagare la qualità dei prodotti ittici, in base al contenuto di grasso e di sale naturalmente presente o attribuibile alla conservazione e alla cottura. «Abbiamo così dimostrato chi mangiava pesce almeno 3 volte la settimana era protetta dall’ictus - spiegano i ricercatori -. Le loro probabilità di subire l’evento erano di oltre il 15% inferiore rispetto a quelle di chi lo consumava solo sporadicamente». Gli studiosi hanno poi effettuato analisi statistiche più dettagliate, considerando le diverse caratteristiche del prodotto ittico e giungendo a identificare come particolarmente benefico il pesce magro.
MESSAGGIO SEMPRE VALIDO - Andrea Ghiselli, ricercatore dell’INRAN (Istituto nazionale Ricerca Alimenti e Nutrizione) di Roma commenta: «Andrei cauto nel prendere per buoni tutti i distinguo proposti dallo studio sulle qualità di pesce più o meno raccomandabili per la salute. Anche perché con eccessivi frazionamenti del campione studiato, i numeri si fanno troppo piccoli e la forza della statistica si perde. Quello che resta valido è il messaggio di mangiare pesce per proteggersi dalla malattie circolatorie del cuore e del cervello. Non è una novità, ma un’indicazione che va sempre ribadita.» Un messaggio che è già da anni presente nelle "Linee guida per una sana alimentazione italiana" dell’INRAN e non è difficile da applicare se si segue la dieta mediterranea. «I risultati dello studio dicono anche di più - prosegue Ghiselli -. A un lettore attento non può sfuggire che le donne con salute migliore associavano a un elevato consumo di pesce, una dieta abbondante in frutta e verdura e un introito moderato di alcol; inoltre fumavano meno. Qui emerge l’importanza di uno stile di vita complessivamente sano, più che quella di affidarsi a un solo alimento toccasana».
VINCONO I PRO - L’abbondanza di acidi grassi polinsaturi (PUFA) anche noti come omega-3, fa quindi del pesce uno degli alimenti più preziosi per la salute dell’uomo. «E almeno per ora questo vantaggio non è sopravanzato dai potenziali pericoli, prima fra tutti il timore di introdurre, mangiando pesce, dosi tossiche di mercurio, il temuto inquinante ambientale presente nelle acque. Inoltre lo studio svedese, smentisce il sospetto che troppo pesce faciliti le emorragie cerebrali: i risultati mostrano infatti una riduzione complessiva dei casi di ictus, più marcata però proprio per le forme emorragiche» spiega Ghiselli. Confermata la piena fiducia del consumatore a questo cibo, bisogna però ricordargli che alcune modalità di cottura come le succulente fritture o l’eccessiva salatura a scopo conservativo sono controproducenti nella somma algebrica tra svantaggi e vantaggi.
Maria Rosa Valetto
4 mag 2011
Pratolina è la tipica margheritina dei prati, con i petali bianchi soffusi di rosa. Il suo nome è Bellis
perennis dal latino bellus che significa grazioso. In Inghilterra si chiama Daisy che deriva da
Day's eye, occhio del giorno, in quanto al tramonto si chiude, per riaprirsi all'alba.
In Scozia si chiama Bairwort, erbe dei bimbi, che in quel paese usano fare ghirlande.
In Germania è detta Marienblumchen, fiorellino di Maria, che secondo una leggenda, si punse
un dito mentre cuciva e il sangue diede colore alle pratoline.
Nella mitologia nordica il fiore è sacro a Ostara, dea della primavera.
Il re di Francia S. Luigi, portava un anello con i tre simboli che più amava: Il crocifisso per la
religione, il giglio per la Francia, la margherita per la moglie, Margherita d'Anjou.
Il suo secreto la rende inappetibile agli animali e facendola macerare in acqua se ne ricava un
liquido che agisce come antiparassitario.
Parietaria (Fam. Mirtaceae) così chiamata perché nasce sui muri e sulle pareti esterne delle vecchie
case. Fra le piante medicinali, è già elencata da Dioscoride Pedanio, il famoso medico
naturalista di Anazarba, vicino a Tarso in Cilicia, vissuto nel I secolo d.C., la cui opera in
cinque volumi ci è giunta fino a noi. In essa sono raccolte tutte le nozioni farmacologiche del
tempo, fra cui 600 piante. Da Dioscoride è indicata contro le erisipole, le infiammazioni,
l'amigdalite (infiammazione delle tonsille), contro la tosse. Plinio il Vecchio, il grande
naturalista romano, racconta che uno schiavo di Pericle, caduto dall'alto di un tempio, fu
guarito da questa pianta che Minerva gli aveva mostrato in sogno.
3 mag 2011
Non solo anziani: aumenta fra i giovani il pericolo disidratazione
Quei due milioni di italiani
che non hanno sete (d'acqua)
Dal collasso all'obesità: cosa si rischia. I nuovi studi
Salute Non solo anziani: aumenta fra i giovani il pericolo disidratazione
(Ansa)
MILANO - Il 5% degli italiani, circa 2 milioni di persone di età compresa tra i 18 ed i 64 anni, non beve acqua. Né di rubinetto né minerale. Lo afferma una ricerca GfK Eurisko. Un dato di per sé molto preoccupante, se si considera il ruolo vitale dell'acqua. Il corpo umano, infatti, ne è composto in media per il 60%. In media, perché il quantitativo di acqua nelle cellule, e tra una cellula e l'altra, varia a seconda dell'età: 75-80% nel neonato, 40-50 nell'anziano. E varia da organo a organo, di più laddove è alta l'attività metabolica: cervello (85%), sangue (80), muscoli (75), pelle (70), tessuto connettivo (60) e ossa (30). Il tessuto con il minor quantitativo di acqua è quello adiposo, il grasso, con il 20%. I soggetti obesi hanno una percentuale di acqua inferiore a quella delle persone con un peso normale. E bere acqua contrasta cellulite e accumuli anti-estetici. Lo stesso pianeta Terra, considerate le percentuali del prezioso liquido che lo ricopre e lo perfonde, dovrebbe chiamarsi Acqua. Salata per lo più, ma pur sempre acqua.
Elemento prezioso, chiave di prevenzione, di benessere, di lunga vita. È quanto rammenta, e ribadisce, il Consensus Paper scientifico «Idratazione per il benessere dell'organismo» firmato da Umberto Solimene, idrologo medico dell'università di Milano, e da Alessandro Zanasi, idrologo e docente in malattie dell'apparato respiratorio dell'università di Bologna. Insieme hanno tirato la somma di recenti studi nazionali e internazionali sulle proprietà salutari del cosiddetto oro blu. Da cui un dogma: una corretta idratazione è fondamentale per il naturale svolgimento delle reazioni biochimiche e dei processi che assicurano la vita. Dal trasporto dei nutrienti alla regolazione del bilancio energetico, dalla funzione detossicante alla regolazione della temperatura corporea, all'equilibrio idrico. E aggiunge Solimene: «Favorisce i processi digestivi, è fonte di sali minerali e svolge un ruolo importante come diluente delle sostanze ingerite, inclusi i medicinali».
In generale è importante mantenere un buon bilancio idrico, che significa compensare adeguatamente la perdita di acqua, tenendo conto che la quantità introdotta con gli alimenti non è sufficiente e che quindi è fondamentale berla. Quando il bilancio idrico si fa negativo si parla di disidratazione, letteralmente cattiva idratazione. E si rischia. Una diminuzione dell'acqua corporea del 2% rispetto al totale, per esempio, è già in grado di alterare la termoregolazione e di influire negativamente sul sangue, rendendolo più viscoso: il cuore si affatica e si può arrivare, in casi estremi, al collasso. Con una diminuzione del 5% si hanno crampi muscolari, con una del 7 si possono avere allucinazioni e perdita di coscienza. Una disidratazione vicina al 20% del peso corporeo risulta addirittura incompatibile con la vita.
Ma che cosa fa «perdere» acqua al nostro corpo? L'assunzione insufficiente di liquidi, l'esposizione ad un clima secco e ventilato, non necessariamente caldo, l'attività fisica intensa e prolungata, gli episodi ripetuti di vomito e diarrea, le ustioni.
E, allora, quanto bisogna bere al giorno per stare bene? Dice Zanasi: «Per gli sportivi, per esempio, la quantità di acqua necessaria va definita in base al tipo di attività svolta, alla durata e alle condizioni climatiche: si va da 1 litro e mezzo a 3 litri al giorno. Per un sedentario sono sufficienti 1,2-2,5 litri. Chi svolge attività fisica e vive in un ambiente caldo, invece, può aver bisogno di bere anche 6 litri di liquidi al giorno. E più intensa è l'attività, più cresce il bisogno». Per alcuni soggetti, come le donne in gravidanza, l'acqua è poi particolarmente importante: va assicurata l'omeostasi di due organismi. O come i bambini: il loro sviluppo dipende da quanto bevono ogni giorno.
Fondamentale, infine, sapere che cosa contiene l'acqua. Quali minerali e quali oligoelementi. Sarebbe importante avere un'etichetta con quantità e residui anche per quella del rubinetto. Non basta sapere che è potabile.
Mario Pappagallo
Se bebe' dorme di piu' cresce di statura
Studio ricercatrice Universita' Atlanta su rivista Sleep
ANSA) - ROMA, 1 MAG - Quando i bebe' fanno tanti riposini e dormono piu' ore del solito vuol dire che il loro corpo si sta allungando, cresce di statura. Lo dimostra uno studio condotto da Michelle Lampl, della Emory University di Atlanta. I risultati saranno pubblicati sulla rivista Sleep. Dallo studio emerge che un aumento complessivo medio giornaliero di 4-5 ore di sonno e anche un aumento del numero di dormitine e' legato a un aumento di statura entro le 48 ore in cui il sonno extra e' stato registrato.
Genetica: in dna è scritta quantità alcol che si consuma
ROMA - Non solo l'alcolismo ha a che fare con una serie di mutazioni del Dna, ma anche la quantita' di alcol che si consuma, pur senza diventare dipendenti, e' 'scritta' in parte nei geni. Lo ha scoperto uno studio internazionale, a cui ha partecipato anche l'Italia, pubblicato dalla rivista Pnas.
I ricercatori hanno studiato le abitudini nei confronti del bere e il Dna di piu' di 26mila persone provenienti da 12 popolazioni europee, indagando piu' di 2,5 milioni di polimorfismi a singolo nucleotide (Snp), cioe' variazioni nell'espressione di singoli geni, sospettate di avere un ruolo nel consumo di alcolici.
Tra queste una variazione in un gene chiamato Auts2 ha mostrato di avere un effetto sulla sensibilita' all'alcol: "Abbiamo trovato l'espressione di questa variazione in diverse aree del cervello implicate nei meccanismi di rinforzo positivo, che spingono cioe' a ripetere una azione sulla base di un evento piacevole - scrivono gli autori - i nostri risultati indicano che questa caratteristica del Dna influenza il consumo di alcol".
Il risultato e' stato confermato con un esperimento su moscerini della frutta e topi geneticamente modificati, in cui al variare del livello di espressione del gene aumentava o diminuiva la sensibilita' all'alcol.
2 mag 2011
La mezza eta' e' quella delle responsabilita'
ROMA- La mezza eta' e' quella delle responsabilita' e dei doveri, e non certo della felicita'. Lo conferma uno studio dell'universita' di Maastricht, secondo cui la curva che definisce lo stato d'animo e' fatta 'a U', con un declino che inizia verso la fine dei vent'anni.
L'analisi, che verra' presentata questa settimana alla Royal Economic Society annual conference di Londra ha registrato che non si ricomincia a essere felici prima di aver superato abbondantemente i 50 anni, quando ormai iniziano a diminuire le aspettative sul futuro: "La diminuzione dopo i 20 anni e' cosi' profonda - spiega Bert van Landeghem, uno degli autori, al Daily Telegraph - che la sua entita' e' paragonabile a quella dopo aver perso il lavoro".
Il fatto che a 60 anni si sia felici quanto a 20 pero', avverte l'esperto, non implica che la vita sia migliore: "Un 25enne e un 65enne sono sicuramente d'accordo sul fatto che la vita migliore sia quella del primo - continua l'esperto, che ha 29 anni - ma il 65enne potrebbe comunque essere piu' felice, perche' ha imparato ad esserlo con quello che ha".
Questo studio conferma diverse altre ricerche in questo campo, che sono arrivate a piazzare addirittura dopo gli 80 anni il momento di 'picco' della felicita', come afferma ad esempio uno studio su oltre 370mila persone presentato recentemente dal'American National Academy of Sciences.
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