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Sarà affrontato anche il campo delle medicine alternative e della psicoanalisi.
Pubblicheremo inoltre interessanti articoli di storia della medicina.
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Pubblicheremo inoltre interessanti articoli di storia della medicina.
27 gen 2013
15 nov 2012
20 ott 2012
Passione tra i fornelli
più passiomne tra i fornelli
Il feeling di coppia si ritrova
Il feeling di coppia si ritrova
con la Cooking Therapy
In cucina, e insieme, è possibile riaccendere la passione e l'intesa di coppia più che in camera da letto
Altro che viaggi e regali, per ristabilire l’intesa di coppia e riaccendere la passione arriva la cooking therapy: la gustosa terapia che si pratica, a due, tra i fornelli
La passione langue? L’intesa di coppia e il feeling hanno il sapore di una pasta scotta? Niente panico, a far riprendere il gusto dello stare insieme e riaccendere la passione ci pensa la Cooking Therapy, stuzzicante terapia che si pratica, in due, tra i fornelli.
Lasciamo quindi perdere filtri d’amore e altre amenità e dedichiamoci a pentole e fornelli se vogliamo ritrovare l’intesa di coppia. Non a caso, infatti, secondo 7 esperti su 10 è la cucina il vero nido d’amore della coppia, dove lasciare libero sfogo a creatività e complicità.
È dunque l’ora della Cooking Therapy, sempre più praticata e apprezzata dalle coppie e, in particolare, dai maschi i quali vedono ribaltarsi il ruolo in cucina che vedeva primeggiare la donna. Se un tempo infatti si usava dire che gli uomini andavano “presi per la gola”, oggi invece è il maschio a doversi cimentare tra i fornelli per riuscire a conquistare la propria partner – almeno secondo quanto sostiene il 52% dei sessuologi, psicologi e chef stellati interpellati per l’indagine del Polli Cooking Lab, l’osservatorio internazionale creato dall’omonima azienda italiana.
L’indagine, che è stata condotta intervistando oltre 90 esperti che hanno indagato in che modo il rapporto cibo/eros rivitalizza l’armonia di coppia, ha messo in evidenza come attraverso la cucina e la preparazione di piatti semplici, genuini e gustosi, l’uomo abbia la possibilità di stupire (58%) la propria lei; a coinvolgerla in un gioco di seduzione (45%), stimolando tutti i suoi sensi (37%).
Ecco come la casa diviene come luogo di conquista, battendo perfino le discoteche (37%) e località turistiche (34%), in quanto offre più intimità (65%), più tranquillità e dà più spazio al “gioco” (58%). Un trend, questo, confermato anche dai recenti dati Censis, secondo cui, complice anche la crisi, gli italiani riscoprono il piacere di restare in casa e di preparare gustosi menù per parenti e amici soprattutto nei giorni festivi, durante i quali si raggiunge il record di oltre un’ora davanti ai fornelli (69 minuti). In casa, per il 73% degli esperti, è la cucina il luogo più seduttivo – a condizione che a indossare il grembiule sia “lui”. E dagli esperti arriva il rituale della seduzione perfetta attraverso i fornelli e la preparazione di ricette semplici, ma gustose e capaci di far tornare il sereno nella coppia.
Ma ecco in dettaglio quanto è emerso dallo uno studio.
Quali sono gli ingredienti della seduzione? Secondo il 39% degli esperti, oggi come ieri alla base c’è l’inventiva e la novità, ma soprattutto la capacità di stupire (45%) e di coinvolgere il partner (36%), a cui si aggiungono elementi quali il romanticismo (25%).
Dai dati appare chiaro come sia tramontata l’era delle antiche strategie – dal mazzo di rose rosse alla serata in discoteca – che appaiono ormai “out”, banali, poco coinvolgenti e “personali”. Molto più efficace quindi un gesto semplice, come il cucinare per lei (messo in evidenza dal 52% degli intervistati). Il mettersi ai fornelli riesce infatti non solo a unire fattori come “l’elemento sorpresa” (58%), la voglia di “giocare” (45%), il “coinvolgimento dei sensi” (37%), ma consente anche di mettere in risalto la propria creatività (35%).
Una seduzione che inizia e trova il suo perché proprio intorno alla tavola – e prima ancora tra i fornelli – piuttosto che nel classico salotto o camera da letto.
Ma, attenzione, non si tratta semplicemente di organizzare una romantica cenetta a due: secondo gli esperti la seduzione parte proprio dalla preparazione, da tutti i gesti che ne fanno parte e dallo stesso “luogo” dove ciò avviene.
Se pertanto in passato i luoghi ideali per far sbocciare la passione di coppia erano le discoteche (37%), i bar (22%), i locali notturni (35%) o le località turistiche (34%), oggi si preferisce la casa, che torna a essere il centro di ogni gioco di seduzione – come evidenzia il 67% degli esperti.
Cosa garantiscono in più le quattro mura domestiche? Per sessuologi, psicologi e chef la casa offre soprattutto intimità (65%), possibilità di esprimere se stessi (68%) e libertà di fare ciò che si vuole (61%), caratteristiche difficilmente riscontrabili in luoghi più affollati come la discoteca o i lounge bar. Le mura domestiche assicurano anche maggiore tranquillità (64%) e armonia (45%) tra i due partner.
In cucina però non si risveglia soltanto la voglia d’intimità, ma anche la seduzione e la passione: basti infatti pensare che ben il 73% la individua come “luogo della seduzione” più della classica camera da letto (51%) e del soggiorno (42%). I motivi? E’ in cucina che si concentrano stimoli e sensazioni in grado di risvegliare tutti i sensi (61%). Secondo gli esperti, infatti, la cucina è un vero e proprio luogo di “complicità” (57%) dove aumenta la voglia di giocare (43%) e di creare un dialogo, conoscendosi a fondo e confrontandosi (36%). Il tutto, naturalmente, se a condurre il gioco e diventare protagonista è l’uomo, che può così sorprenderla e dare libero sfogo alla sua creatività attraverso la preparazione di ricette semplici (68%), ma gustose (63%) e leggere (74%), in modo da non appesantire e rendere piacevole anche il post cena. In questo gioco di seduzione gli alleati sono tutti quegli elementi che contribuiscono ad affascinare i sensi della “lei”: dai sapori dei cibi (78%), ai colori delle pietanze (65%) passando per i loro profumi (55%), tutti elementi che contribuiscono a creare un’esperienza multisensoriale che coinvolge i due partner e fa scoppiare la scintilla della passione.
Ma quali sono i consigli e le regole della Cooking Therapy per ritrovare il benessere ed il feeling di coppia? Per sedurre il proprio partner, riscoprendo la passione affievolita a causa dei ritmi di vita caotici e dei numerosi impegni lavorativi, basta seguire le 5 regole d’oro del Polli Cooking Lab e la sua Cooking Therapy che permetteranno di ritrovare la complicità, a tavola come a letto.
E ora le regole d’oro della Cooking Therapy- Acquistare insieme aiuta: la scelta del menù passa attraverso la spesa; se condivisa, crea affiatamento nella coppia. Basta scegliere prodotti genuini e leggeri che aiutano il metabolismo, facili sia da preparare che da consumare.
- Cucinare con semplicità è un’esperienza multisensoriale: la preparazione delle pietanze è una fase importante; toccando e manipolando gli alimenti si stimolano i sensi e si accende la passione. Gli esperti consigliano di scegliere cibi freschi, colorati, prediligendo frutta e verdura.
- Allestire la cucina e la tavola con gusto: occorrono pochi e semplici accorgimenti per rendere l’ambiente romantico e gradevole, attraverso tonalità calde sia nei colori sia nelle luci, e impreziosendo la tavola con piante e fiori aromatici, così da soddisfare vista e olfatto: due sensi fondamentali per trasmettere un senso di rilassatezza.
- Scegliere la giusta colonna sonora: occorre scegliere un sottofondo musicale apprezzato da entrambi, o che richiami magari un episodio particolare della propria vita di coppia, capace di ricaricare l’energia e di creare la giusta atmosfera. Anche l’udito contribuisce a trasformare positivamente ogni esperienza.
- Conquistarla, infine, a tavola: movenze e gestualità nella degustazione dei cibi, con semplicità e armonia, possono far scattare la scintilla tra i due partner, allo scopo di ritrovare il feeling e riaccendere la passione.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/.shock
Lasciamo quindi perdere filtri d’amore e altre amenità e dedichiamoci a pentole e fornelli se vogliamo ritrovare l’intesa di coppia. Non a caso, infatti, secondo 7 esperti su 10 è la cucina il vero nido d’amore della coppia, dove lasciare libero sfogo a creatività e complicità.
È dunque l’ora della Cooking Therapy, sempre più praticata e apprezzata dalle coppie e, in particolare, dai maschi i quali vedono ribaltarsi il ruolo in cucina che vedeva primeggiare la donna. Se un tempo infatti si usava dire che gli uomini andavano “presi per la gola”, oggi invece è il maschio a doversi cimentare tra i fornelli per riuscire a conquistare la propria partner – almeno secondo quanto sostiene il 52% dei sessuologi, psicologi e chef stellati interpellati per l’indagine del Polli Cooking Lab, l’osservatorio internazionale creato dall’omonima azienda italiana.
L’indagine, che è stata condotta intervistando oltre 90 esperti che hanno indagato in che modo il rapporto cibo/eros rivitalizza l’armonia di coppia, ha messo in evidenza come attraverso la cucina e la preparazione di piatti semplici, genuini e gustosi, l’uomo abbia la possibilità di stupire (58%) la propria lei; a coinvolgerla in un gioco di seduzione (45%), stimolando tutti i suoi sensi (37%).
Ecco come la casa diviene come luogo di conquista, battendo perfino le discoteche (37%) e località turistiche (34%), in quanto offre più intimità (65%), più tranquillità e dà più spazio al “gioco” (58%). Un trend, questo, confermato anche dai recenti dati Censis, secondo cui, complice anche la crisi, gli italiani riscoprono il piacere di restare in casa e di preparare gustosi menù per parenti e amici soprattutto nei giorni festivi, durante i quali si raggiunge il record di oltre un’ora davanti ai fornelli (69 minuti). In casa, per il 73% degli esperti, è la cucina il luogo più seduttivo – a condizione che a indossare il grembiule sia “lui”. E dagli esperti arriva il rituale della seduzione perfetta attraverso i fornelli e la preparazione di ricette semplici, ma gustose e capaci di far tornare il sereno nella coppia.
Ma ecco in dettaglio quanto è emerso dallo uno studio.
Quali sono gli ingredienti della seduzione? Secondo il 39% degli esperti, oggi come ieri alla base c’è l’inventiva e la novità, ma soprattutto la capacità di stupire (45%) e di coinvolgere il partner (36%), a cui si aggiungono elementi quali il romanticismo (25%).
Dai dati appare chiaro come sia tramontata l’era delle antiche strategie – dal mazzo di rose rosse alla serata in discoteca – che appaiono ormai “out”, banali, poco coinvolgenti e “personali”. Molto più efficace quindi un gesto semplice, come il cucinare per lei (messo in evidenza dal 52% degli intervistati). Il mettersi ai fornelli riesce infatti non solo a unire fattori come “l’elemento sorpresa” (58%), la voglia di “giocare” (45%), il “coinvolgimento dei sensi” (37%), ma consente anche di mettere in risalto la propria creatività (35%).
Una seduzione che inizia e trova il suo perché proprio intorno alla tavola – e prima ancora tra i fornelli – piuttosto che nel classico salotto o camera da letto.
Ma, attenzione, non si tratta semplicemente di organizzare una romantica cenetta a due: secondo gli esperti la seduzione parte proprio dalla preparazione, da tutti i gesti che ne fanno parte e dallo stesso “luogo” dove ciò avviene.
Se pertanto in passato i luoghi ideali per far sbocciare la passione di coppia erano le discoteche (37%), i bar (22%), i locali notturni (35%) o le località turistiche (34%), oggi si preferisce la casa, che torna a essere il centro di ogni gioco di seduzione – come evidenzia il 67% degli esperti.
Cosa garantiscono in più le quattro mura domestiche? Per sessuologi, psicologi e chef la casa offre soprattutto intimità (65%), possibilità di esprimere se stessi (68%) e libertà di fare ciò che si vuole (61%), caratteristiche difficilmente riscontrabili in luoghi più affollati come la discoteca o i lounge bar. Le mura domestiche assicurano anche maggiore tranquillità (64%) e armonia (45%) tra i due partner.
In cucina però non si risveglia soltanto la voglia d’intimità, ma anche la seduzione e la passione: basti infatti pensare che ben il 73% la individua come “luogo della seduzione” più della classica camera da letto (51%) e del soggiorno (42%). I motivi? E’ in cucina che si concentrano stimoli e sensazioni in grado di risvegliare tutti i sensi (61%). Secondo gli esperti, infatti, la cucina è un vero e proprio luogo di “complicità” (57%) dove aumenta la voglia di giocare (43%) e di creare un dialogo, conoscendosi a fondo e confrontandosi (36%). Il tutto, naturalmente, se a condurre il gioco e diventare protagonista è l’uomo, che può così sorprenderla e dare libero sfogo alla sua creatività attraverso la preparazione di ricette semplici (68%), ma gustose (63%) e leggere (74%), in modo da non appesantire e rendere piacevole anche il post cena. In questo gioco di seduzione gli alleati sono tutti quegli elementi che contribuiscono ad affascinare i sensi della “lei”: dai sapori dei cibi (78%), ai colori delle pietanze (65%) passando per i loro profumi (55%), tutti elementi che contribuiscono a creare un’esperienza multisensoriale che coinvolge i due partner e fa scoppiare la scintilla della passione.
Ma quali sono i consigli e le regole della Cooking Therapy per ritrovare il benessere ed il feeling di coppia? Per sedurre il proprio partner, riscoprendo la passione affievolita a causa dei ritmi di vita caotici e dei numerosi impegni lavorativi, basta seguire le 5 regole d’oro del Polli Cooking Lab e la sua Cooking Therapy che permetteranno di ritrovare la complicità, a tavola come a letto.
E ora le regole d’oro della Cooking Therapy- Acquistare insieme aiuta: la scelta del menù passa attraverso la spesa; se condivisa, crea affiatamento nella coppia. Basta scegliere prodotti genuini e leggeri che aiutano il metabolismo, facili sia da preparare che da consumare.
- Cucinare con semplicità è un’esperienza multisensoriale: la preparazione delle pietanze è una fase importante; toccando e manipolando gli alimenti si stimolano i sensi e si accende la passione. Gli esperti consigliano di scegliere cibi freschi, colorati, prediligendo frutta e verdura.
- Allestire la cucina e la tavola con gusto: occorrono pochi e semplici accorgimenti per rendere l’ambiente romantico e gradevole, attraverso tonalità calde sia nei colori sia nelle luci, e impreziosendo la tavola con piante e fiori aromatici, così da soddisfare vista e olfatto: due sensi fondamentali per trasmettere un senso di rilassatezza.
- Scegliere la giusta colonna sonora: occorre scegliere un sottofondo musicale apprezzato da entrambi, o che richiami magari un episodio particolare della propria vita di coppia, capace di ricaricare l’energia e di creare la giusta atmosfera. Anche l’udito contribuisce a trasformare positivamente ogni esperienza.
- Conquistarla, infine, a tavola: movenze e gestualità nella degustazione dei cibi, con semplicità e armonia, possono far scattare la scintilla tra i due partner, allo scopo di ritrovare il feeling e riaccendere la passione.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/.shock
Perché la fibra alimentare è importante nella lotta contro il cancro
non scartare la fibra
Perché la fibra alimentare è importante nella lotta contro il cancro
Frutta e verdura sono un'importante fonte di fibra che è necessario mantenere affinché gli antiossidanti possano svolgere il loro ruolo anticancro
Scienziati scoprono il ruolo della fibra alimentare nel proteggere sia l’intestino che l’organismo dal pericolo di cancro, promuovendo l’azione degli antiossidanti
Gli antiossidanti sono fondamentali nella prevenzione delle malattie degenerative, l’invecchiamento, l’ossidazione del corpo. Ma lo sono forse ancora di più quando si tratta di prevenzione del cancro.
Queste sostanze benefiche si possono assumere per mezzo di una dieta corretta. Tuttavia, se il cibo che mangiamo è “raffinato” – che non è sinonimo di elegante o ricercato – questi preziosi elementi finiscono per essere distrutti durante il processo di digestione, annullandone dunque gli effetti benefici.
I cibi ricchi di fibra alimentare come frutta e verdura, per contro, sono in grado di legare fino all’80% dei polifenoli antiossidanti, proteggendoli dall’azione dello stomaco e l’intestino tenue e facendoli arrivare sani e salvi nell’intestino crasso – il quale può utilizzarli per l’azione protettiva dal cancro.
La dottoressa Anneline Padayachee dell’Università del Queensland e del Commonwealth Scientific e Industrial Research Organisation, ha dunque scoperto che il segreto per far arrivare le sostanze anticancro integre e attive nell’intestino crasso è proprio la fibra. Qui, gli antiossidanti possono lavorare per proteggere il colon dai tumori. Ma non solo: gli antiossidanti, se attivi, possono contrastare egregiamente l’azione distruttiva dei radicali liberi nei confronti delle cellule e prevenire, come noto, anche le malattie cardiache.
«Le cellule di frutta e verdura sono “aperte”, il che permette ai nutrienti di essere rilasciati quando [questi alimenti] si mangiano o si assumono come succhi o frullati – spiega la dottoressa Padayachee nella nota Queensland – In un inaspettato risvolto, ho scoperto che dopo essere stati rilasciati dalle cellule l’80% dei polifenoli antiossidanti disponibili si legano con la fibra dei vegetali con il minimo rilascio durante le fasi di digestione dello stomaco e le piccole fasi intestinali».
«La fibra – prosegue Padayachee – è in grado di trasportare in modo sicuro ed efficace i polifenoli nel colon dove questi composti possono avere un effetto protettivo sulla salute del colon quando vengono rilasciati durante la fermentazione della fibra vegetale dovuta ai batteri intestinali».
Ecco quindi come sia importante non solo assumere molta frutta e verdura, ma come sia altrettanto importante non scartare la fibra come, per esempio, quando si estrare il succo per berlo.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/Piotr Przeszlo
Perché la fibra alimentare è importante nella lotta contro il cancro
Frutta e verdura sono un'importante fonte di fibra che è necessario mantenere affinché gli antiossidanti possano svolgere il loro ruolo anticancro
Scienziati scoprono il ruolo della fibra alimentare nel proteggere sia l’intestino che l’organismo dal pericolo di cancro, promuovendo l’azione degli antiossidanti
Gli antiossidanti sono fondamentali nella prevenzione delle malattie degenerative, l’invecchiamento, l’ossidazione del corpo. Ma lo sono forse ancora di più quando si tratta di prevenzione del cancro.
Queste sostanze benefiche si possono assumere per mezzo di una dieta corretta. Tuttavia, se il cibo che mangiamo è “raffinato” – che non è sinonimo di elegante o ricercato – questi preziosi elementi finiscono per essere distrutti durante il processo di digestione, annullandone dunque gli effetti benefici.
I cibi ricchi di fibra alimentare come frutta e verdura, per contro, sono in grado di legare fino all’80% dei polifenoli antiossidanti, proteggendoli dall’azione dello stomaco e l’intestino tenue e facendoli arrivare sani e salvi nell’intestino crasso – il quale può utilizzarli per l’azione protettiva dal cancro.
La dottoressa Anneline Padayachee dell’Università del Queensland e del Commonwealth Scientific e Industrial Research Organisation, ha dunque scoperto che il segreto per far arrivare le sostanze anticancro integre e attive nell’intestino crasso è proprio la fibra. Qui, gli antiossidanti possono lavorare per proteggere il colon dai tumori. Ma non solo: gli antiossidanti, se attivi, possono contrastare egregiamente l’azione distruttiva dei radicali liberi nei confronti delle cellule e prevenire, come noto, anche le malattie cardiache.
«Le cellule di frutta e verdura sono “aperte”, il che permette ai nutrienti di essere rilasciati quando [questi alimenti] si mangiano o si assumono come succhi o frullati – spiega la dottoressa Padayachee nella nota Queensland – In un inaspettato risvolto, ho scoperto che dopo essere stati rilasciati dalle cellule l’80% dei polifenoli antiossidanti disponibili si legano con la fibra dei vegetali con il minimo rilascio durante le fasi di digestione dello stomaco e le piccole fasi intestinali».
«La fibra – prosegue Padayachee – è in grado di trasportare in modo sicuro ed efficace i polifenoli nel colon dove questi composti possono avere un effetto protettivo sulla salute del colon quando vengono rilasciati durante la fermentazione della fibra vegetale dovuta ai batteri intestinali».
Ecco quindi come sia importante non solo assumere molta frutta e verdura, ma come sia altrettanto importante non scartare la fibra come, per esempio, quando si estrare il succo per berlo.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/Piotr Przeszlo
9 ott 2012
7 ott 2012
30 set 2012
Altruista o egoista: è solo questione di materia grigia
/2012
- dilemmi filosofici spiegati dalla fisiologia
Altruista o egoista: è solo questione di materia grigia
Gli altruisti sarebbero così grazie al volume di materia grigia nel proprio cervello
Non è la cultura, l’educazione o lo status sociale a fare l’altruista
ma il volume di materia grigia del cervello suggerisce uno nuovo studio.
Ma non è detto che sia tutto lì
L’altruismo o l’egoismo sono soltanto questioni caratteriali, o
influenzate dall’ambiente in cui si cresce o vive? Sembrerebbe di no. A
influenzare il comportamento altruistico sarebbe il volume di materia
grigia nel cervello, o anche viceversa.
Quando si tratta di comportamento umano, o carattere, spesso si fa riferimento all’ambiente in cui una persona è cresciuta, al genere di appartenenza, così come l’educazione, l’istruzione o lo status sociale. Tuttavia, da sempre, nessuna di queste spiegazioni ha risposto in modo definitivo alla domanda, per cui il concetto di altruismo è rimasto nel limbo dell’accettato ma sconosciuto.
Oggi, una ricerca svizzera pare aver trovato una risposta meno filosofica e più fisiologica: il volume della materia grigia può essere indicatore di quanto siamo altruisti o quanto non lo siamo.
Lo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Neuron, e suggerisce che chi ha maggiore materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale è più altruista di chi ne ha poca.
In quest’ottica vi sarebbe quindi una connessione tra l’anatomia del cervello, l’attività di questo e il comportamento altruistico: come detto, dunque, una risposta fisiologica a un quesito filosofico.
Il team di ricercatori coordinati dal professor Ernst Fehr, direttore del Dipartimento di Economia della UZ, ha coinvolto un gruppo di volontari a cui è stato chiesto di dividere dei soldi con una persona sconosciuta.
Ai partecipanti era chiaro che avrebbero potuto sacrificare una parte dei loro soldi per il bene dell’altra persona. Il parametro per valutare l’altruismo era quindi basato sul sacrificio, a proprie spese, che la persona faceva in favore dell’altra.
Come previsto le differenze di comportamento tra i partecipanti erano molte: c’era chi era del tutto maldisposto a sacrificare una parte del proprio denaro in favore di un’altra persona; poi c’era chi lo faceva volentieri.
Le analisi del cervello e le risposte di questo agli stimoli hanno permesso di individuare non solo che le persone altruiste avevano un maggiore volume di materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale, ma che in fase di decisione nel dividere i soldi con altri vi era una differente e marcata attività cerebrale.
Altra evidenza riscontrata era che nelle persone egoiste la piccola regione del cervello dietro l’orecchio era già attiva quando si trattava di un sacrificio in denaro di poca entità, e restava tale. Nelle persone altruiste, invece, questa regione diveniva più attiva quando il livello di sacrificio aumentava. E più era alto il costo, più aumentava l’attività.
I ricercatori ipotizzano che questo fenomeno si verifichi quando vi è la necessità di superare la naturale predisposizione all’egocentrismo degli esseri umani.
«Si tratta di risultati interessanti per noi – spiega il professor Fehr – Tuttavia, non si deve saltare alla conclusione che il comportamento altruistico sia determinato soltanto da fattori biologici». Ma quali siano gli altri fattori in verità ancora nessuno lo sa spiegare per davvero.
[lm&sdp]
Quando si tratta di comportamento umano, o carattere, spesso si fa riferimento all’ambiente in cui una persona è cresciuta, al genere di appartenenza, così come l’educazione, l’istruzione o lo status sociale. Tuttavia, da sempre, nessuna di queste spiegazioni ha risposto in modo definitivo alla domanda, per cui il concetto di altruismo è rimasto nel limbo dell’accettato ma sconosciuto.
Oggi, una ricerca svizzera pare aver trovato una risposta meno filosofica e più fisiologica: il volume della materia grigia può essere indicatore di quanto siamo altruisti o quanto non lo siamo.
Lo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Neuron, e suggerisce che chi ha maggiore materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale è più altruista di chi ne ha poca.
In quest’ottica vi sarebbe quindi una connessione tra l’anatomia del cervello, l’attività di questo e il comportamento altruistico: come detto, dunque, una risposta fisiologica a un quesito filosofico.
Il team di ricercatori coordinati dal professor Ernst Fehr, direttore del Dipartimento di Economia della UZ, ha coinvolto un gruppo di volontari a cui è stato chiesto di dividere dei soldi con una persona sconosciuta.
Ai partecipanti era chiaro che avrebbero potuto sacrificare una parte dei loro soldi per il bene dell’altra persona. Il parametro per valutare l’altruismo era quindi basato sul sacrificio, a proprie spese, che la persona faceva in favore dell’altra.
Come previsto le differenze di comportamento tra i partecipanti erano molte: c’era chi era del tutto maldisposto a sacrificare una parte del proprio denaro in favore di un’altra persona; poi c’era chi lo faceva volentieri.
Le analisi del cervello e le risposte di questo agli stimoli hanno permesso di individuare non solo che le persone altruiste avevano un maggiore volume di materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale, ma che in fase di decisione nel dividere i soldi con altri vi era una differente e marcata attività cerebrale.
Altra evidenza riscontrata era che nelle persone egoiste la piccola regione del cervello dietro l’orecchio era già attiva quando si trattava di un sacrificio in denaro di poca entità, e restava tale. Nelle persone altruiste, invece, questa regione diveniva più attiva quando il livello di sacrificio aumentava. E più era alto il costo, più aumentava l’attività.
I ricercatori ipotizzano che questo fenomeno si verifichi quando vi è la necessità di superare la naturale predisposizione all’egocentrismo degli esseri umani.
«Si tratta di risultati interessanti per noi – spiega il professor Fehr – Tuttavia, non si deve saltare alla conclusione che il comportamento altruistico sia determinato soltanto da fattori biologici». Ma quali siano gli altri fattori in verità ancora nessuno lo sa spiegare per davvero.
[lm&sdp]
22 set 2012
La proteina che «attiva» gli spermatozoi
studio dell'Università di Cardiff
La proteina che «attiva» gli spermatozoi
Si chiama PLCz e avvia un processo chiamato "attivazione dell'ovulo". Una speranza per gli uomini sterili
UOMINI STERILI - «Sappiamo che alcuni uomini sono sterili perché il loro sperma non riesce ad attivare gli ovuli - spiega Lai -. Anche se i loro spermatozoi si uniscono all'ovulo, non accade nulla». Tra le cause, l'eventualità che esso non disponga del corretto funzionamento della PLCz, essenziale per innescare la fase successiva della gravidanza. «Quello che è importante della nostra ricerca è che abbiamo usato una proteina umana, per ottenere dei risultati positivi che avevamo già osservato, ma solo negli esperimenti con i topi». Inoltre i ricercatori hanno scoperto che anche gli ovuli che non si fecondano a causa di un'imperfezione della PLCz, come per alcune forme dell'infertilità maschile, possono essere trattati con la proteina per produrne l'attivazione. «Anche se questo è stato un esperimento di laboratorio e il nostro metodo non poteva essere utilizzato in clinica - conclude Lay -, in futuro si potrebbe produrre la proteina PLCz e utilizzarla per stimolare l'attivazione dell'ovulo in modo del tutto naturale». Secondo i ricercatori, per le coppie che devono utilizzare la fecondazione in vitro, questa tecnica potrebbe aumentare le possibilità di avere un bambino, oltre a contrastare in generale l'infertilità maschile.
(Fonte: Ansa)
12 set 2012
Bere molto può portare all’ictus
12/09/2012 - alto rischio per chi beve alcol
Bere molto può portare all’ictus
Bere molto o in modo compulsivo può essere causa di ictus emorragico prematuro, anche dieci anni prima della media
Bere molto, anche in modo compulsivo – un’usanza
nota anche con il nome di “binge drinking” – aumenta di molto il rischio
di essere vittime di un ictus emorragico, piuttosto che a causa di un
grumo di sangue, avvertono i ricercatori francesi dell’Università Lille
Nord de France. E questo accade anche se non si ha una storia di
problemi simili alle spalle.
«Il bere pesante è stato costantemente identificato come un fattore di rischio per questo tipo di ictus – spiega nel comunicato LNFU la principale autrice dello studio, dottoressa Charlotte Cordonnier – che è causato da sanguinamento nel cervello, piuttosto che un grumo di sangue».
L’indulgere nel binge drinking è tipico delle persone che partecipano a feste, incontri, party o manifestazioni a tema. Si caratterizza da grandi bevute fatte in un periodi di tempo breve, come può essere una giornata o un weekend. Il bere pesante, invece, si caratterizza per un’abitudine all’assumere alcol in discrete quantità tutti i giorni o regolarmente.
Il problema del bere in sé non sarebbe così grande se non fosse che le bevande sono alcoliche – ed è proprio l’alcol a essere messo sotto accusa da questo nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Neurology.
Sono state in totale 540 le persone coinvolte. Tutte erano state vittime di un ictus emorragico e avevano un’età media di 71 anni. I partecipanti sono stati intervistati circa il proprio stile di vita e le abitudini riguardo il consumo di alcol.
Per ottenere maggiori informazioni riguardo al consumo di alcol e lo stile di vita, i ricercatori hanno intervistato anche i partenti o chi era vicino in qualche modo ai pazienti.
I dati raccolti hanno permesso di stabilire che di questi 540, i forti bevitori erano 137 (il 25%). Questi bevevano in media tre o più bicchieri al giorno, corrispondenti a circa 1,6 grammi di alcol.
Le scansioni cerebrali e l’analisi delle cartelle cliniche dei pazienti ha consentito agli scienziati di rilevare che chi beveva in modo pesante era stato vittima dell’ictus emorragico in media 14 anni prima di chi non era dedito al gran consumo di alcol. L’età media delle persone colpite, in questo caso, era di 60 anni. Chi era di età inferiore, e aveva subìto un ictus, aveva anche maggiori probabilità di morire entro due anni dall’evento, rispetto a coloro che bevevano moderatamente.
«E’ importante tenere a mente che bere grandi quantità di alcol contribuisce a una forma più grave di ictus in età più giovane in persone che non avevano una significativa storia medica», conclude Cordonnier. In altre parole, bere molto alcol aumenta di molto le probabilità di essere vittima di un ictus e anche morire prematuramente, anche se non lo riteniamo possibile.
[lm&sdp]
«Il bere pesante è stato costantemente identificato come un fattore di rischio per questo tipo di ictus – spiega nel comunicato LNFU la principale autrice dello studio, dottoressa Charlotte Cordonnier – che è causato da sanguinamento nel cervello, piuttosto che un grumo di sangue».
L’indulgere nel binge drinking è tipico delle persone che partecipano a feste, incontri, party o manifestazioni a tema. Si caratterizza da grandi bevute fatte in un periodi di tempo breve, come può essere una giornata o un weekend. Il bere pesante, invece, si caratterizza per un’abitudine all’assumere alcol in discrete quantità tutti i giorni o regolarmente.
Il problema del bere in sé non sarebbe così grande se non fosse che le bevande sono alcoliche – ed è proprio l’alcol a essere messo sotto accusa da questo nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Neurology.
Sono state in totale 540 le persone coinvolte. Tutte erano state vittime di un ictus emorragico e avevano un’età media di 71 anni. I partecipanti sono stati intervistati circa il proprio stile di vita e le abitudini riguardo il consumo di alcol.
Per ottenere maggiori informazioni riguardo al consumo di alcol e lo stile di vita, i ricercatori hanno intervistato anche i partenti o chi era vicino in qualche modo ai pazienti.
I dati raccolti hanno permesso di stabilire che di questi 540, i forti bevitori erano 137 (il 25%). Questi bevevano in media tre o più bicchieri al giorno, corrispondenti a circa 1,6 grammi di alcol.
Le scansioni cerebrali e l’analisi delle cartelle cliniche dei pazienti ha consentito agli scienziati di rilevare che chi beveva in modo pesante era stato vittima dell’ictus emorragico in media 14 anni prima di chi non era dedito al gran consumo di alcol. L’età media delle persone colpite, in questo caso, era di 60 anni. Chi era di età inferiore, e aveva subìto un ictus, aveva anche maggiori probabilità di morire entro due anni dall’evento, rispetto a coloro che bevevano moderatamente.
«E’ importante tenere a mente che bere grandi quantità di alcol contribuisce a una forma più grave di ictus in età più giovane in persone che non avevano una significativa storia medica», conclude Cordonnier. In altre parole, bere molto alcol aumenta di molto le probabilità di essere vittima di un ictus e anche morire prematuramente, anche se non lo riteniamo possibile.
[lm&sdp]
8 ago 2012
Mode folli per giovani dementi:la vodka negli occhi
mode smodate
Vodka negli occhi: la nuova, pericolosa, moda alcolica
Ubriacarsi con l’alcol negli occhi. Una moda diffusa tra i giovanissimi che potrebbe causare danni irrimediabili alla vista e non solo
“Beata gioventù” direbbero i nostri nonni. Sì, i
giovani sono davvero fortunati. Spesso non si rendono tuttavia davvero
conto di esserlo. E sarà un po’ per questo, un po’ perché hanno poca
esperienza ma tanta voglia di provare, che sono sempre alla ricerca di
qualcosa di più, di qualcosa di strano, insolito, magari che li mandi
temporaneamente fuori dagli obblighi quotidiani.
Ed ecco che l’ultima risposta giovanile, volta allo sballo, si chiama “eyeballing”. Eh sì, e finita l’era del binge/drinking, ora per farsi del male l’alcol non si manda nello stomaco ma negli occhi. Certo, raccontata cosi può far sorridere ma e una triste realtà giovanile che e nata alcuni anni fa nei campus inglesi, per poi approdare in quelli americani e quelli francesi.
L’eyeballing consiste nel mettere ben a contatto il collo della bottiglia, o del bicchiere, con l’occhio. Questo gesto si compie perché si ritiene che in tale modo si sballerebbe di più e più velocemente che nel tradizionale scolarsi la bottiglia. Per questo genere di giochetti, normalmente, si usa la vodka e si versa direttamente nel bulbo oculare dopo aver posizionato correttamente la bottiglia.
Secondo la psichiatra infantile Patrice Huerre, «Questa è una tendenza marginale in Francia, fa parte del desiderio dei giovani di testare i loro limiti».
«L’alcolizzazione degli adolescenti ha assunto importanza negli ultimi anni, la ricerca di fonti di emozioni e anche l’assunzione di rischi», aggiunge Huerre, autrice tra gli altri del libro Alcol e adolescenza, giovani in cerca di ebbrezza.
Ma come si fa ad ubriacarsi attraverso l’assunzione di alcol da un occhio¬?
Secondo il direttore scientifico di SFO (società francese di oftalmologia), Jean-Antoine, l’assorbimento è talmente minimo che e impossibile ubriacarsi. Addirittura il tasso alcolico nel sangue non aumenta per niente. Di conseguenza, se un giovane da segni di ubriachezza i casi sono due: o finge, o era già ubriaco prima.
Secondo Patrice Huerre, il problema e che questa moda si sta diffondendo anche tra i giovanissimi. Se prima si usava farlo nei college, ora lo fanno anche i bambini alle scuole medie; bambini che, tuttavia, non hanno il senso reale del pericolo. I danni che ne potrebbero derivare, secondo Huerre, sarebbero irreparabili. La superficie dell’occhio, infatti si danneggerebbe causando gravi problemi alla vista.
«I genitori dovrebbero far arrivare messaggi di prevenzione ai loro figli, anche se ovviamente non si può impedire tutto. In caso di passaggio all’atto come rivalsa, tuttavia, dovrebbero considerarlo come un segnale d’allarme e vedere se il giovane non ha bisogno di essere aiutato», conclude Huerre.
Come sempre, quindi, ai genitori tocca avere mille occhi. E, in questo caso, ai propri figli conviene tenerseli, i propri occhi.
[lm&sdp]
Ed ecco che l’ultima risposta giovanile, volta allo sballo, si chiama “eyeballing”. Eh sì, e finita l’era del binge/drinking, ora per farsi del male l’alcol non si manda nello stomaco ma negli occhi. Certo, raccontata cosi può far sorridere ma e una triste realtà giovanile che e nata alcuni anni fa nei campus inglesi, per poi approdare in quelli americani e quelli francesi.
L’eyeballing consiste nel mettere ben a contatto il collo della bottiglia, o del bicchiere, con l’occhio. Questo gesto si compie perché si ritiene che in tale modo si sballerebbe di più e più velocemente che nel tradizionale scolarsi la bottiglia. Per questo genere di giochetti, normalmente, si usa la vodka e si versa direttamente nel bulbo oculare dopo aver posizionato correttamente la bottiglia.
Secondo la psichiatra infantile Patrice Huerre, «Questa è una tendenza marginale in Francia, fa parte del desiderio dei giovani di testare i loro limiti».
«L’alcolizzazione degli adolescenti ha assunto importanza negli ultimi anni, la ricerca di fonti di emozioni e anche l’assunzione di rischi», aggiunge Huerre, autrice tra gli altri del libro Alcol e adolescenza, giovani in cerca di ebbrezza.
Ma come si fa ad ubriacarsi attraverso l’assunzione di alcol da un occhio¬?
Secondo il direttore scientifico di SFO (società francese di oftalmologia), Jean-Antoine, l’assorbimento è talmente minimo che e impossibile ubriacarsi. Addirittura il tasso alcolico nel sangue non aumenta per niente. Di conseguenza, se un giovane da segni di ubriachezza i casi sono due: o finge, o era già ubriaco prima.
Secondo Patrice Huerre, il problema e che questa moda si sta diffondendo anche tra i giovanissimi. Se prima si usava farlo nei college, ora lo fanno anche i bambini alle scuole medie; bambini che, tuttavia, non hanno il senso reale del pericolo. I danni che ne potrebbero derivare, secondo Huerre, sarebbero irreparabili. La superficie dell’occhio, infatti si danneggerebbe causando gravi problemi alla vista.
«I genitori dovrebbero far arrivare messaggi di prevenzione ai loro figli, anche se ovviamente non si può impedire tutto. In caso di passaggio all’atto come rivalsa, tuttavia, dovrebbero considerarlo come un segnale d’allarme e vedere se il giovane non ha bisogno di essere aiutato», conclude Huerre.
Come sempre, quindi, ai genitori tocca avere mille occhi. E, in questo caso, ai propri figli conviene tenerseli, i propri occhi.
[lm&sdp]
L'orientamento sessuale si legge nello sguardo
la dilatazione della pupilla rivela da chi siamo attratti sessualmente
L’orientamento sessuale lo si legge negli occhi
La credenza popolare che dilatazione della pupilla riveli l’attrazione sessuale ora mostra un risvolto inaspettato e trova un fondamento scientifico a seguito di uno studio statunitense
Da sempre, nei manuali di seduzione, sulle riviste
femminili o a opera di un qualche esperto in relazioni si legge o si
sente dire che una prova che la persona che si ha di fronte ha un
qualche interesse nei nostri confronti la si può vedere da quanto è
dilatata la pupilla dell’occhio.
“Dicerie”, qualcuno si affrettava a liquidare. Miti popolari senza alcun fondamento scientifico.
E, invece, a quanto sembra non solo potrebbe essere proprio così, ma la pupilla rivelerebbe senza mezzi termini l’orientamento sessuale. In questo modo, anche se una persona dice di essere attratta soltanto da uno dei due generi (maschio o femmina) il suo corpo potrebbe invece rivelare che così non è.
A rendere “scientifica” questa supposizione sono stati i ricercatori statunitensi della Cornell University che, per rilevare la prova che la pupilla si dilata quando abbiamo di fronte una persona che c’interessa o ne siamo sessualmente attratti, hanno utilizzato una speciale lente a raggi infrarossi capace di captare anche le più piccole modifiche alla pupilla.
Dopo aver predisposto la “macchina della verità sessuale” i ricercatori hanno sottoposto un gruppo di volontari ambosessi alla visione di una serie di video erotici sia di rapporti eterosessuali che omosessuali.
Fino a oggi, per valutare l’orientamento sessuale ci si avvaleva di misure fisiologiche quali, per esempio, le reazioni corporali come l’eccitazione a livello genitale che, oltre a comportare dei limiti spesso si potevano rivelare invasive per chi ne era oggetto. La misurazione della dilatazione della pupilla per contro si mostra più discreta a affidabile.
I risultati dei test sono stati pubblicati su PLoS ONE e riportano come con questo metodo sia stato possibile rilevare l’orientamento sessuale anche in persone che, per cultura, credo religioso o altri motivi personali, non si sarebbero mai sottoposti ai test fisiologici utilizzati di routine.
«Abbiamo voluto trovare una misura alternativa che indicasse in maniera automatica l’orientamento sessuale, ma senza essere invasiva come le misure precedenti. Le risposte pupillari fanno esattamente questo – spiega nel comunicato CU il dottor Gerulf Rieger – Con questa nuova tecnologia siamo in grado di esplorare l’orientamento sessuale delle persone che non avrebbero mai partecipato a uno studio sull’eccitazione genitale, come le persone provenienti da culture tradizionali. Questo ci permetterà di capire molto meglio come la sessualità si esprime in tutto il pianeta».
I risultati hanno confermato le aspettative. Per esempio, gli uomini eterosessuali hanno mostrato forti reazioni pupillari ai video erotici con donne, e poca reazione per quelli con uomini. A differenza, invece, le donne eterosessuali hanno mostrato reazioni pupillari a entrambi i sessi, anche se in misura diversa. Secondo gli scienziati questo non vuole dire che le donne hanno necessariamente tendenze omosessuali, ma è semplicemente una conferma di precedenti ricerche che suggeriscono come le donne abbiano un tipo molto diverso di sessualità rispetto agli uomini.
Allo stesso modo, alcuni uomini hanno mostrato reazioni significative sia ai video con femmine che con maschi a riprova, dicono gli autori, che anche nei maschi vi sono soggetti che hanno una sessualità più flessibile.
Lo studio, ribadiscono i ricercatori, può aprire nuove vie di dibattito sulla sessualità e le mille sfaccettature che questa può assumere nelle persone, in particolare in quelle appartenenti a gruppi diversi con diverse identità sessuali.
Insomma, se l’occhio è lo specchio dell’anima, in questo caso lo è anche dell’orientamento sessuale.
[lm&sdp]
“Dicerie”, qualcuno si affrettava a liquidare. Miti popolari senza alcun fondamento scientifico.
E, invece, a quanto sembra non solo potrebbe essere proprio così, ma la pupilla rivelerebbe senza mezzi termini l’orientamento sessuale. In questo modo, anche se una persona dice di essere attratta soltanto da uno dei due generi (maschio o femmina) il suo corpo potrebbe invece rivelare che così non è.
A rendere “scientifica” questa supposizione sono stati i ricercatori statunitensi della Cornell University che, per rilevare la prova che la pupilla si dilata quando abbiamo di fronte una persona che c’interessa o ne siamo sessualmente attratti, hanno utilizzato una speciale lente a raggi infrarossi capace di captare anche le più piccole modifiche alla pupilla.
Dopo aver predisposto la “macchina della verità sessuale” i ricercatori hanno sottoposto un gruppo di volontari ambosessi alla visione di una serie di video erotici sia di rapporti eterosessuali che omosessuali.
Fino a oggi, per valutare l’orientamento sessuale ci si avvaleva di misure fisiologiche quali, per esempio, le reazioni corporali come l’eccitazione a livello genitale che, oltre a comportare dei limiti spesso si potevano rivelare invasive per chi ne era oggetto. La misurazione della dilatazione della pupilla per contro si mostra più discreta a affidabile.
I risultati dei test sono stati pubblicati su PLoS ONE e riportano come con questo metodo sia stato possibile rilevare l’orientamento sessuale anche in persone che, per cultura, credo religioso o altri motivi personali, non si sarebbero mai sottoposti ai test fisiologici utilizzati di routine.
«Abbiamo voluto trovare una misura alternativa che indicasse in maniera automatica l’orientamento sessuale, ma senza essere invasiva come le misure precedenti. Le risposte pupillari fanno esattamente questo – spiega nel comunicato CU il dottor Gerulf Rieger – Con questa nuova tecnologia siamo in grado di esplorare l’orientamento sessuale delle persone che non avrebbero mai partecipato a uno studio sull’eccitazione genitale, come le persone provenienti da culture tradizionali. Questo ci permetterà di capire molto meglio come la sessualità si esprime in tutto il pianeta».
I risultati hanno confermato le aspettative. Per esempio, gli uomini eterosessuali hanno mostrato forti reazioni pupillari ai video erotici con donne, e poca reazione per quelli con uomini. A differenza, invece, le donne eterosessuali hanno mostrato reazioni pupillari a entrambi i sessi, anche se in misura diversa. Secondo gli scienziati questo non vuole dire che le donne hanno necessariamente tendenze omosessuali, ma è semplicemente una conferma di precedenti ricerche che suggeriscono come le donne abbiano un tipo molto diverso di sessualità rispetto agli uomini.
Allo stesso modo, alcuni uomini hanno mostrato reazioni significative sia ai video con femmine che con maschi a riprova, dicono gli autori, che anche nei maschi vi sono soggetti che hanno una sessualità più flessibile.
Lo studio, ribadiscono i ricercatori, può aprire nuove vie di dibattito sulla sessualità e le mille sfaccettature che questa può assumere nelle persone, in particolare in quelle appartenenti a gruppi diversi con diverse identità sessuali.
Insomma, se l’occhio è lo specchio dell’anima, in questo caso lo è anche dell’orientamento sessuale.
[lm&sdp]
23 lug 2012
22 lug 2012
18 lug 2012
Olio di Krill come l’olio di pesce per ridurre il colesterolo
prevenzione
Olio di Krill come l’olio di pesce per ridurre il colesterolo
Buone potenzialità nel ridurre lo stress ossidativo e i rischi alla salute da parte dell’olio di krill che può essere assunto in alternativa al più noto olio di pesce
L’olio di pesce è divenuto famoso da quando è stato lanciato l’allarme colesterolo e la necessità di prevenire le malattie cardiovascolari, l’infiammazione generalizzata e lo stress ossidativo: tutti fattori che possono incidere di molto sulla salute, la longevità e la qualità della vita.
Un’alternativa all’olio di pesce pare si possa trovare nell’olio di krill, estratto da un piccolo crostaceo che vive nelle acque dell’Antartico, e che può fornire una buona dose di acidi grassi omega-3 in forma di fosfolipidi, al contrario dell’olio di pesce che li fornisce in forma di trigliceridi.
In questo studio condotto dai ricercatori dell’Akershus University College, Università di Oslo (Norvegia) in collaborazione con la Aker BioMarine – un’azienda che produce l’olio di krill – si è voluto studiare gli effetti dell’olio di krill e quelli dell’olio di pesce sui lipidi del siero, nei marcatori dello stress ossidativo e dell’infiammazione. Lo scopo era quello di valutare se le diverse forme molecolari degli acidi grassi - trigliceridi e fosfolipidi – causavano una differenza nei livelli plasmatici di EPA e DHA (acido eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico derivati metabolici degli acidi grassi essenziali).
Per questo sono stati reclutati 113 volontari che presentavano livelli di colesterolo normali o di poco alterati. I partecipanti sono poi stati suddivisi a caso in tre gruppi.
A quelli del primo gruppo sono stati dati da assumere ogni giorno per sette settimane sei capsule di olio di krill per un totale di 3 g di EPA e 543 mg di EHA. A quelli del secondo gruppo sono state date tre capsule di olio di pesce per un totale di 1,8 g di EPA e 846 mg di DHA. Il terzo gruppo non ha ricevuto nulla poiché era il cosiddetto gruppo di controllo.
I risultati delle analisi, così come riportato sulla rivista Lipids, mostrano che vi è stato un aumento significativo nel plasma di EPA, DHA e DPA nei soggetti appartenenti a due gruppi a cui era stato dato l’olio di krill e l’olio di pesce. Ovviamente, non si sono avuti incrementi nel gruppo di controllo.
«Questo studio conferma che una dose inferiore di EPA e DHA è necessaria quando si prendono omega-3 sottoforma di fosfolipidi dell’olio di krill, rispetto alla forma trigliceridi», scrive il dottor Hogne Vik, uno degli autori dello studio.
In conclusione, si è potuto constatare un netto miglioramento dei livelli ematici di acidi grassi essenziali omega-3 e un miglioramento del rapporto tra i due tipi di colesterolo. Un vantaggio per la salute generale, suggeriscono i ricercatori.
(lm&sdp)
Un’alternativa all’olio di pesce pare si possa trovare nell’olio di krill, estratto da un piccolo crostaceo che vive nelle acque dell’Antartico, e che può fornire una buona dose di acidi grassi omega-3 in forma di fosfolipidi, al contrario dell’olio di pesce che li fornisce in forma di trigliceridi.
In questo studio condotto dai ricercatori dell’Akershus University College, Università di Oslo (Norvegia) in collaborazione con la Aker BioMarine – un’azienda che produce l’olio di krill – si è voluto studiare gli effetti dell’olio di krill e quelli dell’olio di pesce sui lipidi del siero, nei marcatori dello stress ossidativo e dell’infiammazione. Lo scopo era quello di valutare se le diverse forme molecolari degli acidi grassi - trigliceridi e fosfolipidi – causavano una differenza nei livelli plasmatici di EPA e DHA (acido eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico derivati metabolici degli acidi grassi essenziali).
Per questo sono stati reclutati 113 volontari che presentavano livelli di colesterolo normali o di poco alterati. I partecipanti sono poi stati suddivisi a caso in tre gruppi.
A quelli del primo gruppo sono stati dati da assumere ogni giorno per sette settimane sei capsule di olio di krill per un totale di 3 g di EPA e 543 mg di EHA. A quelli del secondo gruppo sono state date tre capsule di olio di pesce per un totale di 1,8 g di EPA e 846 mg di DHA. Il terzo gruppo non ha ricevuto nulla poiché era il cosiddetto gruppo di controllo.
I risultati delle analisi, così come riportato sulla rivista Lipids, mostrano che vi è stato un aumento significativo nel plasma di EPA, DHA e DPA nei soggetti appartenenti a due gruppi a cui era stato dato l’olio di krill e l’olio di pesce. Ovviamente, non si sono avuti incrementi nel gruppo di controllo.
«Questo studio conferma che una dose inferiore di EPA e DHA è necessaria quando si prendono omega-3 sottoforma di fosfolipidi dell’olio di krill, rispetto alla forma trigliceridi», scrive il dottor Hogne Vik, uno degli autori dello studio.
In conclusione, si è potuto constatare un netto miglioramento dei livelli ematici di acidi grassi essenziali omega-3 e un miglioramento del rapporto tra i due tipi di colesterolo. Un vantaggio per la salute generale, suggeriscono i ricercatori.
(lm&sdp)
- maggiore benessere per chi vive lungo la costa marina
Chi vive al mare è… sano come un pesce
Vivere vicino alla spiaggia o la costa può migliorare o mantenere la salute delle persone più che in altri luoghi, anche se vicino ad aree verdi. Lo studio
Potendo scegliere il posto dove vivere, l’opzione migliore pare possa essere quella del mare. Secondo un nuovo studio infatti vivere nei pressi di una spiaggia, o sulla costa, migliorerebbe lo stato di salute delle persone.
A decretare che vivere al mare rende sani come un pesce sono stati i ricercatori del Peninsula College of Medicine and Dentistry di Exeter, in Inghilterra, che hanno pubblicato i risultati di questo largo studio sulla rivista Health & Place. Gli scienziati hanno analizzato i dati provenienti da oltre 48 milioni di persone, scoprendo che chi aveva la fortuna – è proprio il caso di dirlo – di vivere sulla costa aveva maggiori probabilità di riportare un buono stato di salute. E questa condizione ottimale perdurava anche dopo aver considerato possibili fattori confondenti o condizionanti come l’età, lo stato di salute precedente, il sesso di appartenenza, lo status socio-economico e via dicendo. È stato altresì considerato se la persona viveva in città, nella natura o vicino a parchi o altri spazi verdi.
In punti percentuale, fanno notare i ricercatori, la differenza sulla migliore salute non era così evidente: si trattava di un 1%. Tuttavia, spiega il principale autore dello studio dottor Ben Wheeler, questo apparente modesto effetto se applicato a un’intera popolazione può avere un impatto rilevante sulla salute pubblica.
Dai dati raccolti si è scoperto che più si vive vicino alla costa, più si riportavano segni di un maggiore benessere. Secondo gli autori, questo fenomeno può essere associato alla qualità dell’ambiente marino di ridurre lo stress.
Ora, si affrettano a chiarire i ricercatori, non è che tutti debbano correre a comprare casa al mare, poiché lo studio ha trovato soltanto un’associazione tra un maggiore benessere e il vivere vicino alla costa, e non un reale rapporto di causa/effetto. Altri fattori infatti potrebbero spiegare il fenomeno.
Se poi a qualcuno è venuto in mente che i ricchi possessori di ville o yacht siano più avvantaggiati perché possono permettersi di vivere al mare come e quando vogliono – e di conseguenza godere di una maggiore salute – potrebbe sbagliarsi perché, si scopre dallo studio, una maggiore influenza sulla salute si è notata proprio nelle persone che vivevano nelle aree meno agiate o svantaggiate.
Sebbene dunque non sia chiaro perché chi vive al mare è più sano, è comunque un dato di fatto che potrebbe essere sfruttato per creare ambienti che favoriscano il ripristino della salute per le persone che hanno problemi di salute. O, nel caso di prevenzione, creare degli ambienti virtuali che possano essere sfruttati da chi vive in zone dove il mare non c’è, suggeriscono gli autori.
Il dubbio in questo caso tuttavia è: funzionerà allo stesso modo?
[lm&sdp]
A decretare che vivere al mare rende sani come un pesce sono stati i ricercatori del Peninsula College of Medicine and Dentistry di Exeter, in Inghilterra, che hanno pubblicato i risultati di questo largo studio sulla rivista Health & Place. Gli scienziati hanno analizzato i dati provenienti da oltre 48 milioni di persone, scoprendo che chi aveva la fortuna – è proprio il caso di dirlo – di vivere sulla costa aveva maggiori probabilità di riportare un buono stato di salute. E questa condizione ottimale perdurava anche dopo aver considerato possibili fattori confondenti o condizionanti come l’età, lo stato di salute precedente, il sesso di appartenenza, lo status socio-economico e via dicendo. È stato altresì considerato se la persona viveva in città, nella natura o vicino a parchi o altri spazi verdi.
In punti percentuale, fanno notare i ricercatori, la differenza sulla migliore salute non era così evidente: si trattava di un 1%. Tuttavia, spiega il principale autore dello studio dottor Ben Wheeler, questo apparente modesto effetto se applicato a un’intera popolazione può avere un impatto rilevante sulla salute pubblica.
Dai dati raccolti si è scoperto che più si vive vicino alla costa, più si riportavano segni di un maggiore benessere. Secondo gli autori, questo fenomeno può essere associato alla qualità dell’ambiente marino di ridurre lo stress.
Ora, si affrettano a chiarire i ricercatori, non è che tutti debbano correre a comprare casa al mare, poiché lo studio ha trovato soltanto un’associazione tra un maggiore benessere e il vivere vicino alla costa, e non un reale rapporto di causa/effetto. Altri fattori infatti potrebbero spiegare il fenomeno.
Se poi a qualcuno è venuto in mente che i ricchi possessori di ville o yacht siano più avvantaggiati perché possono permettersi di vivere al mare come e quando vogliono – e di conseguenza godere di una maggiore salute – potrebbe sbagliarsi perché, si scopre dallo studio, una maggiore influenza sulla salute si è notata proprio nelle persone che vivevano nelle aree meno agiate o svantaggiate.
Sebbene dunque non sia chiaro perché chi vive al mare è più sano, è comunque un dato di fatto che potrebbe essere sfruttato per creare ambienti che favoriscano il ripristino della salute per le persone che hanno problemi di salute. O, nel caso di prevenzione, creare degli ambienti virtuali che possano essere sfruttati da chi vive in zone dove il mare non c’è, suggeriscono gli autori.
Il dubbio in questo caso tuttavia è: funzionerà allo stesso modo?
[lm&sdp]
16 lug 2012
13 lug 2012
Maria,una candela nel vento
Quando l'Alzheimer trasorma in bambini
MARIA, UNA CANDELA NEL VENTO
Dramma e realtà, magìa e speranze d'una malattia che colpisce mezzo milione di italiani
LIVORNO - Maria è nel suo letto, ben rincalzata nelle coperte puilte, come una bambina. E, come unabambina, guarda le bambole, messe vicino al cuscino, in modo che riesca a vederle bene. Ha 90 anni, un corpo ormai consunto, un passerotto su cui sono aperte piaghe che mostrano le ossa.
Una carezza ai capelli della bambola bionda: da molti anni Maria è affetta dalla malattia di Alzheimer, la sua mente vaga nell'assenza del tempo, i ricordi sono visioni rapide e scollegate. Ulisse, il fidato amico, il grosso meticci bianco, la veglia, immobile: in attesa.
Ma non è sempre stato così. C'è stato un tempo in cui una bella ragazza dai capelli mori ed ondulati si guardava di nascosto allo specchio e si pizzicava le guance per darsi colore. Sì, c'è stato un tempo. Molto prima, in cui quella ragazza, con caparbietà, ha voluto raggiungere il primo traguardo, quello della laurewa in medicina e la specializzazione in pediatria, poi quello dell'incontro con Angiolo, il grande amore della vita, quellodei figli, della professione, della famiglia. Lei, sorridente e mite, silenziosa protagonista del proprio mondo.
Oggi, è un altro tempo, ma è sempre lei, anche nel dramma di quel grande buio. Tutti coloro che vivono intorno sono increduli, perplessi, spaventati. Colei che reggeva con redini salde la vita d'ognuno, si sta trasformando lentamente in una bambina bisognosa di tutto.
Eppure è nella malattia e nel martirio del corpo e della mente destinati a deteriorarsi, che la grandezza di questa piccola donna assume il valore d'insegnamento e monito.
Ricorderò per tutta la vita, il sorriso dolce, quasi a scusarsi, durante le dolorose medicazioni quotidiane su quella carne scoperta, la gioia tenera davanti ad un cibo che le piaceva, le carezze antiche alla bambola di pezza, sue ultime compagne di giochi, da tempo dimenticate.
Maria, dopo una lunga, straziante agonia, muore dolcemente, com'era vissuta, in una notte di fine primavera. Inutili furono i ventilatori portatidall'impresa funebre per ovviare al forte odore di morte: da subito, la stanza fu invasa dal profumo dolce di rosa e gelsomino. E le finestre aperte, con la leggera brezza primaverile che muoveva le tende, non lo dispersero.
Una, cento, mille Marie, l'Italia ed il mondo ne sono piene. Ad un secolo dalla prima diagnosi su Auguste, la paziente studiata in diverse fasi da Alzheimer e Perusini, si muore come allora. Una volta identificata la malattia, non si sa quando la morte porterà via la persona, ponnedo fine ad una tragedia individuale e familiare. Certo si sa come sarà il decorso clinico.
Guarire non è possibile, la scienza ha limiti e tempi; curare, in parte si può, ma non poco dipende dalla fortuna perchè ogni caso fa a sè; assistere, è un parametro ancor più legato al destino, un grande interrogativo dove le variabili sono la società in cui viviamo, la consistenza organizzativa del sistema sanitario, la disponibilità del nucleo familiare. Il percorso del malato si muove in questi binari. Lui o lei non possono decidere nulla.
Conosciamo i meccanismi capaci di provocare il danno nervoso, eppure non esistono i farmaci per eliminarli. Si parla ogni volta d'un imminente traguardo, ma i pur validi, piccoli passi non consentono la svolta. E si continua a soffriree morire.
Allora prende corpo la scelta assistenziale, in tanti modi, ufficiali ed ufficiosi, mentre fra alti e bassi lo sguardo di quelle persone si sperde sempre più nel vuoto e s'assottiglia il supporto di chi deve o vuole fare qualcosa.
Cos'è dunque cambiato? Poco o molto, il giudizio dipende dall'esperienza d'ognuno: il medico, il sistema, il familiare. Il primo si basa sulle novità della ricerca, il secondo sui supporti economici ed organizzativi condizionati da scelte sempre più restrittive, l'ultimo è un jolly, una carta importante, ma giocabile solo se presente. Eppure si continua a vivere, o meglio continua a farlo chi non sa d'essere malato, perchè il destino lo ha umiliato togliendogli persino la volontà di decidere. Ma lo fa capire con tutto quanto rimane in sè, che mollare non si può. Sta allora a chi gli vive intorno capire nel buio della mente questo messaggio ed i modi ci sono. Basta volerlo e pensare anche solo a cosa farebbe lui, a parti invertite. Non è male ricordarlo. Perchè, pur nella dolcezza di quello sguardo di bambino, si continua a soffrire. Candele nel vento, dove la fiamma si piega al destino. Sta a noi evitare che si spenga.
GIAN UGO BERTI
MARIA, UNA CANDELA NEL VENTO
Dramma e realtà, magìa e speranze d'una malattia che colpisce mezzo milione di italiani
LIVORNO - Maria è nel suo letto, ben rincalzata nelle coperte puilte, come una bambina. E, come unabambina, guarda le bambole, messe vicino al cuscino, in modo che riesca a vederle bene. Ha 90 anni, un corpo ormai consunto, un passerotto su cui sono aperte piaghe che mostrano le ossa.
Una carezza ai capelli della bambola bionda: da molti anni Maria è affetta dalla malattia di Alzheimer, la sua mente vaga nell'assenza del tempo, i ricordi sono visioni rapide e scollegate. Ulisse, il fidato amico, il grosso meticci bianco, la veglia, immobile: in attesa.
Ma non è sempre stato così. C'è stato un tempo in cui una bella ragazza dai capelli mori ed ondulati si guardava di nascosto allo specchio e si pizzicava le guance per darsi colore. Sì, c'è stato un tempo. Molto prima, in cui quella ragazza, con caparbietà, ha voluto raggiungere il primo traguardo, quello della laurewa in medicina e la specializzazione in pediatria, poi quello dell'incontro con Angiolo, il grande amore della vita, quellodei figli, della professione, della famiglia. Lei, sorridente e mite, silenziosa protagonista del proprio mondo.
Oggi, è un altro tempo, ma è sempre lei, anche nel dramma di quel grande buio. Tutti coloro che vivono intorno sono increduli, perplessi, spaventati. Colei che reggeva con redini salde la vita d'ognuno, si sta trasformando lentamente in una bambina bisognosa di tutto.
Eppure è nella malattia e nel martirio del corpo e della mente destinati a deteriorarsi, che la grandezza di questa piccola donna assume il valore d'insegnamento e monito.
Ricorderò per tutta la vita, il sorriso dolce, quasi a scusarsi, durante le dolorose medicazioni quotidiane su quella carne scoperta, la gioia tenera davanti ad un cibo che le piaceva, le carezze antiche alla bambola di pezza, sue ultime compagne di giochi, da tempo dimenticate.
Maria, dopo una lunga, straziante agonia, muore dolcemente, com'era vissuta, in una notte di fine primavera. Inutili furono i ventilatori portatidall'impresa funebre per ovviare al forte odore di morte: da subito, la stanza fu invasa dal profumo dolce di rosa e gelsomino. E le finestre aperte, con la leggera brezza primaverile che muoveva le tende, non lo dispersero.
Una, cento, mille Marie, l'Italia ed il mondo ne sono piene. Ad un secolo dalla prima diagnosi su Auguste, la paziente studiata in diverse fasi da Alzheimer e Perusini, si muore come allora. Una volta identificata la malattia, non si sa quando la morte porterà via la persona, ponnedo fine ad una tragedia individuale e familiare. Certo si sa come sarà il decorso clinico.
Guarire non è possibile, la scienza ha limiti e tempi; curare, in parte si può, ma non poco dipende dalla fortuna perchè ogni caso fa a sè; assistere, è un parametro ancor più legato al destino, un grande interrogativo dove le variabili sono la società in cui viviamo, la consistenza organizzativa del sistema sanitario, la disponibilità del nucleo familiare. Il percorso del malato si muove in questi binari. Lui o lei non possono decidere nulla.
Conosciamo i meccanismi capaci di provocare il danno nervoso, eppure non esistono i farmaci per eliminarli. Si parla ogni volta d'un imminente traguardo, ma i pur validi, piccoli passi non consentono la svolta. E si continua a soffriree morire.
Allora prende corpo la scelta assistenziale, in tanti modi, ufficiali ed ufficiosi, mentre fra alti e bassi lo sguardo di quelle persone si sperde sempre più nel vuoto e s'assottiglia il supporto di chi deve o vuole fare qualcosa.
Cos'è dunque cambiato? Poco o molto, il giudizio dipende dall'esperienza d'ognuno: il medico, il sistema, il familiare. Il primo si basa sulle novità della ricerca, il secondo sui supporti economici ed organizzativi condizionati da scelte sempre più restrittive, l'ultimo è un jolly, una carta importante, ma giocabile solo se presente. Eppure si continua a vivere, o meglio continua a farlo chi non sa d'essere malato, perchè il destino lo ha umiliato togliendogli persino la volontà di decidere. Ma lo fa capire con tutto quanto rimane in sè, che mollare non si può. Sta allora a chi gli vive intorno capire nel buio della mente questo messaggio ed i modi ci sono. Basta volerlo e pensare anche solo a cosa farebbe lui, a parti invertite. Non è male ricordarlo. Perchè, pur nella dolcezza di quello sguardo di bambino, si continua a soffrire. Candele nel vento, dove la fiamma si piega al destino. Sta a noi evitare che si spenga.
GIAN UGO BERTI
10 lug 2012
fare due passi allunga la vita
fare due passi allunga la vita
187 morti in meno all’anno usando i piedi anziché l’auto
Lasciare l’auto a casa e fare qualche passo in più a piedi risparmierebbe la vita a 108 uomini e 79 donne ogni anno, con un risparmio anche in denaro per la sanità di oltre 200 milioni di euro
Altro che tagli alla sanità per via dei costi o nuove campagne per la prevenzione, per risparmiare 200 milioni di euro all’anno, ma soprattutto 187 vite, basterebbe fare qualche passo in più a piedi e lasciare l’auto a casa.
Pensate, se tutti quelli che possono lasciassero l’auto a casa sai quanto inquinamento, stress da traffico, spese in carburante e così via ci sarebbero in meno? Ma non solo. A fronte di un risparmio in spesa personale ci sarebbe un guadagno in salute e in longevità. Questo l’appello o, se preferite, il suggerimento che arriva da uno studio dell’OMS che ha stimato i benefici economici e sanitari annuali conseguenti a una riduzione della mortalità derivanti dall’utilizzo dei piedi al posto dell’auto anche solo per brevi tragitti.
Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme ai membri della Agenzia di Sanità Pubblica di Barcellona (ASPB), hanno condotto uno studio cross-sezionale – un tipo di studio che indaga su una porzione di diverse popolazioni per un certo periodo di tempo per identificare possibili fattori di rischio – basato sui dati della Agenzia di Trasporti Metropolitana che conteneva la documentazione relativa ai viaggi di oltre 100mila persone.
Di queste, sono stati selezionati 80.552 persone di età superiore ai 17 anni che avessero utilizzato il mezzo pubblico per almeno un viaggio.
Altro dato ricavato dai ricercatori era il calcolo del numero di uomini e donne che non facevano del moto tutti i giorni, ma che avevano utilizzato l’auto o la moto per viaggi di durata superiore a 5 minuti.
Quale parametro di comparazione, i ricercatori Marta Olabarria, Katherine Pérez, Elena Santamariña-Rubio, Ana M Novoa e Francesca Racioppi hanno utilizzato una linea progettata dall’OMS che prende il nome di Health Economic Evaluation Tool (HEAT) e che stima i benefici di un aumento dell’attività fisica sulla riduzione della mortalità.
I risultati finali dell’indagine sono poi stati pubblicati sull’European Journal of Public Health e mostrano che la popolazione presa a campione non raggiungeva i valori (o linee guida) giornalieri raccomandati per l’attività fisica. In particolare, a non fare abbastanza movimento era il 77,2% degli uomini e il 67,7% delle donne.
Tenuto conto che l’OMS suggerisce di eseguire un’attività fisica moderata e aerobica – come una passeggiata a passo spedito – per almeno 150 minuti a settimana (circa mezz’ora al giorno) sono ancora molte le persone che si sottraggono a questo “dovere” che potrebbe portare davvero numerosi benefici sia alla salute che, come detto, alle casse della sanità.
Niente di chissà che, dunque, ma anche una semplice passeggiata di mezz’ora al giorno potrebbe rimediare a molti malanni e allungare la vita delle persone.
Pensiamoci quando ci viene voglia di prendere l’auto anche solo per fare un breve tragitto.
[lm&sdp]
Pensate, se tutti quelli che possono lasciassero l’auto a casa sai quanto inquinamento, stress da traffico, spese in carburante e così via ci sarebbero in meno? Ma non solo. A fronte di un risparmio in spesa personale ci sarebbe un guadagno in salute e in longevità. Questo l’appello o, se preferite, il suggerimento che arriva da uno studio dell’OMS che ha stimato i benefici economici e sanitari annuali conseguenti a una riduzione della mortalità derivanti dall’utilizzo dei piedi al posto dell’auto anche solo per brevi tragitti.
Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme ai membri della Agenzia di Sanità Pubblica di Barcellona (ASPB), hanno condotto uno studio cross-sezionale – un tipo di studio che indaga su una porzione di diverse popolazioni per un certo periodo di tempo per identificare possibili fattori di rischio – basato sui dati della Agenzia di Trasporti Metropolitana che conteneva la documentazione relativa ai viaggi di oltre 100mila persone.
Di queste, sono stati selezionati 80.552 persone di età superiore ai 17 anni che avessero utilizzato il mezzo pubblico per almeno un viaggio.
Altro dato ricavato dai ricercatori era il calcolo del numero di uomini e donne che non facevano del moto tutti i giorni, ma che avevano utilizzato l’auto o la moto per viaggi di durata superiore a 5 minuti.
Quale parametro di comparazione, i ricercatori Marta Olabarria, Katherine Pérez, Elena Santamariña-Rubio, Ana M Novoa e Francesca Racioppi hanno utilizzato una linea progettata dall’OMS che prende il nome di Health Economic Evaluation Tool (HEAT) e che stima i benefici di un aumento dell’attività fisica sulla riduzione della mortalità.
I risultati finali dell’indagine sono poi stati pubblicati sull’European Journal of Public Health e mostrano che la popolazione presa a campione non raggiungeva i valori (o linee guida) giornalieri raccomandati per l’attività fisica. In particolare, a non fare abbastanza movimento era il 77,2% degli uomini e il 67,7% delle donne.
Tenuto conto che l’OMS suggerisce di eseguire un’attività fisica moderata e aerobica – come una passeggiata a passo spedito – per almeno 150 minuti a settimana (circa mezz’ora al giorno) sono ancora molte le persone che si sottraggono a questo “dovere” che potrebbe portare davvero numerosi benefici sia alla salute che, come detto, alle casse della sanità.
Niente di chissà che, dunque, ma anche una semplice passeggiata di mezz’ora al giorno potrebbe rimediare a molti malanni e allungare la vita delle persone.
Pensiamoci quando ci viene voglia di prendere l’auto anche solo per fare un breve tragitto.
[lm&sdp]
Caldo e nervosismo
sistema nervoso messo a dura prova dalle ondate di calore
Gli effetti del caldo sui nervi
Durante le ondate di calore in molti si sentono più irritabili, frustrati, nervosi e anche confusi senza apparente motivo
Troppo caldo pare abbia il potere di mandarci per così dire in tilt. Molti di noi infatti in questi periodi si sentono più in confusione del solito, faticano a ragionare e provano un senso di frustrazione. Oltre a ciò, per molte persone vi è anche un senso di fastidio, irritazione, nervosismo.
Sono gli effetti del tempo che, secondo la dottoressa Nancy Molitor, hanno un impatto sia fisico che psicologico su di noi.
La professoressa di psichiatria presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, ritiene che le ondate di calore non abbiano dunque soltanto effetti sull’organismo – e che bisogna combattere o tenere sotto controllo con adeguati accorgimenti – ma anche a livello mentale. L’esperta considera tra gli altri che quando la colonnina di mercurio sale molte persone si sentono più agitate o nervose senza apparente motivo. Alcuni di loro diventano anche ostili, aggressivi e, in alcuni casi, violenti.
Per questo e altri motivi, Molitor suggerisce di evitare di esporsi troppo al calore e combatterne gli effetti seguendo i consigli degli esperti. Altro consiglio è quello di evitare in questi periodi di prendere decisioni, soprattutto importanti, che riguardano gli aspetti sociali, sentimentali o finanziari perché si potrebbe non disporre della lucidità necessaria – e si corre il rischio di pentirsene in seguito. In queste situazioni meteo infatti, il “punto di fusione” è molto più labile, ha commentato Molitor nel comunicato MU.
Con il gran caldo, poi, sono più a rischio anche le persone predisposte o che soffrono di depressione; per alcuni si possono verificare dei casi di SAD (il Disturbo Affettivo Stagionale) in versione estiva. Secondo Molitor, chi soffre di questo disturbo durante la stagione autunnale o invernale in certe situazioni gravi può trovare il gran caldo «quasi impossibile da sopportare». Tuttavia, per la maggioranza delle persone, seguire i consigli degli esperti per sopportare al meglio le alte temperature può essere la soluzione migliore: tra queste, per esempio, una è quella di prestare ascolto al proprio corpo e ai suoi segnali. «La persona media è in grado di sopportare questa [situazione], se ascolta il proprio corpo», conclude Molitor.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/Hunta
Sono gli effetti del tempo che, secondo la dottoressa Nancy Molitor, hanno un impatto sia fisico che psicologico su di noi.
La professoressa di psichiatria presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, ritiene che le ondate di calore non abbiano dunque soltanto effetti sull’organismo – e che bisogna combattere o tenere sotto controllo con adeguati accorgimenti – ma anche a livello mentale. L’esperta considera tra gli altri che quando la colonnina di mercurio sale molte persone si sentono più agitate o nervose senza apparente motivo. Alcuni di loro diventano anche ostili, aggressivi e, in alcuni casi, violenti.
Per questo e altri motivi, Molitor suggerisce di evitare di esporsi troppo al calore e combatterne gli effetti seguendo i consigli degli esperti. Altro consiglio è quello di evitare in questi periodi di prendere decisioni, soprattutto importanti, che riguardano gli aspetti sociali, sentimentali o finanziari perché si potrebbe non disporre della lucidità necessaria – e si corre il rischio di pentirsene in seguito. In queste situazioni meteo infatti, il “punto di fusione” è molto più labile, ha commentato Molitor nel comunicato MU.
Con il gran caldo, poi, sono più a rischio anche le persone predisposte o che soffrono di depressione; per alcuni si possono verificare dei casi di SAD (il Disturbo Affettivo Stagionale) in versione estiva. Secondo Molitor, chi soffre di questo disturbo durante la stagione autunnale o invernale in certe situazioni gravi può trovare il gran caldo «quasi impossibile da sopportare». Tuttavia, per la maggioranza delle persone, seguire i consigli degli esperti per sopportare al meglio le alte temperature può essere la soluzione migliore: tra queste, per esempio, una è quella di prestare ascolto al proprio corpo e ai suoi segnali. «La persona media è in grado di sopportare questa [situazione], se ascolta il proprio corpo», conclude Molitor.
[lm&sdp]
Foto: ©photoxpress.com/Hunta
2 lug 2012
Un rapporto sessuale al giorno toglie l’infertilità di torno
ridurre i danni al dna dello sperma
Un rapporto sessuale al giorno toglie l’infertilità di torno
Il sesso giornaliero aiuta a migliorare la qualità dello sperma negli uomini. Lo studio
La fertilità maschile e la qualità del liquido seminale è minacciata ogni giorno da scorretti stili di vita, fattori ambientali come inquinamento, dieta, sedentarietà, esposizione al calore e all’elettromagnetismo e via discorrendo… Ma, a quanto pare un’àncora di salvezza c’è ed è, guarda caso, proprio il sesso. Sì, perché, secondo uno studio avere rapporti sessuali giornalieri pare aiuti a migliorare la qualità dello sperma.
Presentato alla riunione annuale della Società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia di Amsterdam, lo studio australiano ha coinvolto 118 uomini con problemi di fertilità. I partecipanti presentavano tutti un danno al Dna dello sperma superiore al 15 percento, così come indicato da un indice di frammentazione del Dna detto DFI.
Nel laboratorio del dottor David Greening a Sydney i danni al Dna dello sperma sono valutati in base a diverse percentuali suggerite dal DFI, per cui un danno superiore al 15% è stato giudicato adatto allo studio.
Nella scala DFI utilizzata dai ricercatori uno sperma con danno al Dna inferiore al 15% è giudicato di qualità eccellente; con un danno compreso tra il 15 e il 24% è ritenuto un buono sperma; quello che ha un danno tra il 25 e il 29% è medio e, infine, lo sperma che presenta un danno superiore al 29% è di qualità scarsa.
«Tutto quello che sapevamo era che il rapporto sessuale il giorno dell’ovulazione offerto la più alta probabilità di gravidanza, ma non sapevamo quale fosse il miglior consiglio per il periodo che precede l’ovulazione o il recupero dell’uovo per la fecondazione in vitro – ha spiegato nel comunicato Sydney IVF Wollongong Clinic il dottor David Greening, ginecologo e specialista in endocrinologia riproduttiva e infertilità – Ho pensato che l’eiaculazione frequente potrebbe essere un meccanismo fisiologico per migliorare danni al Dna dello sperma, pur mantenendo i livelli di sperma all’interno del normale, fertile, limite».
Prima di iniziare gli esperimenti sono stati misurati i livelli di danno al Dna dello sperma dei partecipanti. I risultati delle analisi hanno mostrato danni compresi tra il 15% e il 98%, con una media DFI del 34%, se misurato dopo tre giorni di astinenza dal sesso.
Dopo aver analizzato e classificato lo sperma dei volontari, questi sono stati invitati a eiaculare ogni giorno per sette giorni di seguito. I partecipanti, durante il periodo di test non hanno apportato modifiche al loro stile di vita.
Quando, il settimo giorno, lo sperma degli uomini è stato rivalutato, Greening ha rilevato che l’81 percento dei volontari mostrava una riduzione del danno al Dna del 12% in media. Il restante 19% di volontari mostrava invece un aumento del danno in misura media del 10%. La media per l’intero gruppo è scesa al 26% DFI.
«Anche se la media è stata del 26 percento, che rientra nella gamma “equo per la qualità dello sperma – ” – commenta Greening – questo includeva il 18 percento degli uomini il cui danno al Dna dello sperma è aumentato, così come quelli in cui si è ridotto il danno».
A parte le percentuali di danno al Dna dello sperma, ciò che è apparso evidente ai ricercatori sono i cambiamenti significativi che si sono mostrati nel cambiare gamma di appartenenza: da scarsa qualità a media e buona. «Questi cambiamenti sono stati notevoli e statisticamente altamente significativi», ha sottolineato Greening.
«Inoltre, abbiamo scoperto che, sebbene l’eiaculazione frequente abbia diminuito il volume di sperma e le concentrazioni di spermatozoi, non ha compromesso la motilità degli spermatozoi e, di fatto, questa è aumentata leggermente ma significativamente».
Ricordando che saranno necessari ulteriori studi per vedere se questo miglioramento nella qualità dello sperma si traduce in migliori tassi di gravidanza, il ricercatore fa notare che precedenti ricerche hanno suggerito una tra un danno al Dna dello sperma e di tassi di gravidanza.
[lm&sdp]
Presentato alla riunione annuale della Società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia di Amsterdam, lo studio australiano ha coinvolto 118 uomini con problemi di fertilità. I partecipanti presentavano tutti un danno al Dna dello sperma superiore al 15 percento, così come indicato da un indice di frammentazione del Dna detto DFI.
Nel laboratorio del dottor David Greening a Sydney i danni al Dna dello sperma sono valutati in base a diverse percentuali suggerite dal DFI, per cui un danno superiore al 15% è stato giudicato adatto allo studio.
Nella scala DFI utilizzata dai ricercatori uno sperma con danno al Dna inferiore al 15% è giudicato di qualità eccellente; con un danno compreso tra il 15 e il 24% è ritenuto un buono sperma; quello che ha un danno tra il 25 e il 29% è medio e, infine, lo sperma che presenta un danno superiore al 29% è di qualità scarsa.
«Tutto quello che sapevamo era che il rapporto sessuale il giorno dell’ovulazione offerto la più alta probabilità di gravidanza, ma non sapevamo quale fosse il miglior consiglio per il periodo che precede l’ovulazione o il recupero dell’uovo per la fecondazione in vitro – ha spiegato nel comunicato Sydney IVF Wollongong Clinic il dottor David Greening, ginecologo e specialista in endocrinologia riproduttiva e infertilità – Ho pensato che l’eiaculazione frequente potrebbe essere un meccanismo fisiologico per migliorare danni al Dna dello sperma, pur mantenendo i livelli di sperma all’interno del normale, fertile, limite».
Prima di iniziare gli esperimenti sono stati misurati i livelli di danno al Dna dello sperma dei partecipanti. I risultati delle analisi hanno mostrato danni compresi tra il 15% e il 98%, con una media DFI del 34%, se misurato dopo tre giorni di astinenza dal sesso.
Dopo aver analizzato e classificato lo sperma dei volontari, questi sono stati invitati a eiaculare ogni giorno per sette giorni di seguito. I partecipanti, durante il periodo di test non hanno apportato modifiche al loro stile di vita.
Quando, il settimo giorno, lo sperma degli uomini è stato rivalutato, Greening ha rilevato che l’81 percento dei volontari mostrava una riduzione del danno al Dna del 12% in media. Il restante 19% di volontari mostrava invece un aumento del danno in misura media del 10%. La media per l’intero gruppo è scesa al 26% DFI.
«Anche se la media è stata del 26 percento, che rientra nella gamma “equo per la qualità dello sperma – ” – commenta Greening – questo includeva il 18 percento degli uomini il cui danno al Dna dello sperma è aumentato, così come quelli in cui si è ridotto il danno».
A parte le percentuali di danno al Dna dello sperma, ciò che è apparso evidente ai ricercatori sono i cambiamenti significativi che si sono mostrati nel cambiare gamma di appartenenza: da scarsa qualità a media e buona. «Questi cambiamenti sono stati notevoli e statisticamente altamente significativi», ha sottolineato Greening.
«Inoltre, abbiamo scoperto che, sebbene l’eiaculazione frequente abbia diminuito il volume di sperma e le concentrazioni di spermatozoi, non ha compromesso la motilità degli spermatozoi e, di fatto, questa è aumentata leggermente ma significativamente».
Ricordando che saranno necessari ulteriori studi per vedere se questo miglioramento nella qualità dello sperma si traduce in migliori tassi di gravidanza, il ricercatore fa notare che precedenti ricerche hanno suggerito una tra un danno al Dna dello sperma e di tassi di gravidanza.
[lm&sdp]
- Il meccanismo di difesa del cuore
La sindrome del cuore infranto fa bene… al cuore
A differenza di ciò che si potrebbe pensare, la condizione dovuta a un forte stress, chiamata “cuore spezzato”, è una forma di autoprotezione del cuore stesso dagli eccessivi scarichi di adrenalina che potrebbero danneggiarlo seriamente
Si chiama popolarmente sindrome del cuore spezzato (o infranto) ed è una condizione che si associa in genere a un evento di forte stress o traumatico come per esempio un lutto, una separazione o la perdita di un amore…
Questa situazione, che a livello fisiologico si mostra con una temporanea insufficienza cardiaca, in realtà è un meccanismo di difesa del cuore stesso che si vuole proteggere dagli eccessivi scarichi di adrenalina conseguenti all’evento drammatco vissuto.
Scientificamente, questa condizione è chiamata “tako-tsubo” o cardiomiopatia da stress e, come accennato, affligge le persone colpite per esempio da un lutto improvviso. Un forte stress emotivo che in alcuni casi può avere conseguenze gravi su chi lo subisce. Il cuore però, cerca in qualche modo di salvaguardarsi suggerisce uno studio dell’Imperial College di Londra e pubblicato sulla rivista Circulation.
«L’effetto stimolante dell’adrenalina sul cuore è importante per aiutarci a mandare più ossigeno in tutto il corpo durante situazioni stressanti, ma può essere pericoloso se questo va avanti troppo a lungo – spiega nel comunicato ICL, Sian Harding, professore presso il National Heart and Lung Institute (NHLI) dell’Imperial College di Londra, e a capo dello studio – Nei pazienti con cardiomiopatia Takotsubo, l’adrenalina funziona invece in modo diverso e “spegne” il cuore. Questo sembra proteggere il cuore da una sovrastimolazione».
Il pericolo è dunque che questa condizione perduri troppo nel tempo e che la regolazione dell’adrenalina vada fuori controllo.
Secondo i ricercatori, a causa della somiglianza dei sintomi, circa il 2% sospettate di essere vittime di un generico attacco cardiaco, in realtà erano sotto questa condizione che, finalmente, è stata riconosciuta.
Come dimostrato dallo studio su modello animale, l’organismo in queste particolari situazioni modifica da solo la risposta all’adrenalina passando da una tipica stimolazione del cuore per pompare più sangue e ossigeno a una opposta riduzione del pompaggio.
Il tutto, fanno notare Harding e colleghi, si traduce in uno scompenso cardiaco acuto. In generale, la maggioranza delle persone in questa condizione si riprendono del tutto nel giro di qualche giorno o, al massimo, settimana.
Se dunque siamo oggetto di un avvenimento traumatico o uno stress emotivo di questo genere, se sentiamo come se avessimo un attacco cardiaco può essere che invece siamo sotto “protezione” da parte del cuore. Tuttavia, a scanso di equivoci, è sempre meglio farsi visitare da un medico per scongiurare l’eventualità che si tratti davvero di un attacco di cuore.
[lm&sdp]
Questa situazione, che a livello fisiologico si mostra con una temporanea insufficienza cardiaca, in realtà è un meccanismo di difesa del cuore stesso che si vuole proteggere dagli eccessivi scarichi di adrenalina conseguenti all’evento drammatco vissuto.
Scientificamente, questa condizione è chiamata “tako-tsubo” o cardiomiopatia da stress e, come accennato, affligge le persone colpite per esempio da un lutto improvviso. Un forte stress emotivo che in alcuni casi può avere conseguenze gravi su chi lo subisce. Il cuore però, cerca in qualche modo di salvaguardarsi suggerisce uno studio dell’Imperial College di Londra e pubblicato sulla rivista Circulation.
«L’effetto stimolante dell’adrenalina sul cuore è importante per aiutarci a mandare più ossigeno in tutto il corpo durante situazioni stressanti, ma può essere pericoloso se questo va avanti troppo a lungo – spiega nel comunicato ICL, Sian Harding, professore presso il National Heart and Lung Institute (NHLI) dell’Imperial College di Londra, e a capo dello studio – Nei pazienti con cardiomiopatia Takotsubo, l’adrenalina funziona invece in modo diverso e “spegne” il cuore. Questo sembra proteggere il cuore da una sovrastimolazione».
Il pericolo è dunque che questa condizione perduri troppo nel tempo e che la regolazione dell’adrenalina vada fuori controllo.
Secondo i ricercatori, a causa della somiglianza dei sintomi, circa il 2% sospettate di essere vittime di un generico attacco cardiaco, in realtà erano sotto questa condizione che, finalmente, è stata riconosciuta.
Come dimostrato dallo studio su modello animale, l’organismo in queste particolari situazioni modifica da solo la risposta all’adrenalina passando da una tipica stimolazione del cuore per pompare più sangue e ossigeno a una opposta riduzione del pompaggio.
Il tutto, fanno notare Harding e colleghi, si traduce in uno scompenso cardiaco acuto. In generale, la maggioranza delle persone in questa condizione si riprendono del tutto nel giro di qualche giorno o, al massimo, settimana.
Se dunque siamo oggetto di un avvenimento traumatico o uno stress emotivo di questo genere, se sentiamo come se avessimo un attacco cardiaco può essere che invece siamo sotto “protezione” da parte del cuore. Tuttavia, a scanso di equivoci, è sempre meglio farsi visitare da un medico per scongiurare l’eventualità che si tratti davvero di un attacco di cuore.
[lm&sdp]
20 giu 2012
Tempo di grigliate: conciliare gusto e salute
i consigli per un barbeque sano e gustoso
Tempo di grigliate: conciliare gusto e salute
Dagli esperti i consigli per grigliate gustose ma più salutari, con un occhio di riguardo al ridurre il rischio di cancro
Tempo di gite fuoriporta, vacanze, scampagnate e… cene con amici e parenti a base di grigliate.
Da sempre, infatti, l’estate coincide con il periodo in cui si preparano più spesso menù a base di carne alla griglia. Questa pratica, sebbene sia gradita ai più, nasconde però qualche insidia – come spesso ricordato dagli esperti. Una di queste è che si possa aumentare il rischio di sviluppare una qualche forma di cancro, come per esemipio quello del colon-retto.
Ma, allora, come possiamo conciliare il piacere di una grigliata con il mantenimento della salute? A tale proposito rispondono sempre gli esperti.
L’American Institute for Cancer Research e i propri esperti mettono in guardia dai potenziali pericoli derivanti da un utilizzo scorretto dei cibi e del barbecue che possono, appunto, aumentare il rischio di cancro.
«Le diete che prevedono grandi porzioni di carni rosse e trasformate hanno dimostrato di rendere più probabile lo sviluppo del cancro colorettale – spiega nel comunicato AICR la dottoressa Alice Bender – La prova che la griglia è di per sé un fattore di rischio è meno forte, ma ha comunque senso prendere alcune semplici precauzioni protettive dal cancro». Di queste, ha aggiunto la nutrizionista, la prima precauzione è quella di evitare di cuocere troppo l’alimento sulla griglia perché il processo di carbonizzazione genera dei composti chiamati ammine eterocicliche (HCA) e idrocarburi policiclici aromatici (IPA), che sono sotto accusa nell’essere fattori di rischio per il cancro.
Nel comunicato AICR vi sono tuttavia altri importanti suggerimenti che riportiamo di seguito.
- Aggiungere colore ai piatti, limitando la carne rossa e aumentando la presenza di frutta e verdura colorata: in questo modo ci si assicura un maggiore apporto di benefiche sostanze fitochimiche. Questi composti naturali presenti nelle piante, ricorda l’esperta, offrono una protezione contro il cancro.
È possibile grigliare verdure come asparagi, cipolle, funghi, zucchine, melanzane e pannocchie di granturco. Quando s’intenda grigliare della frutta è bene spazzolarla con olio di oliva in modo che non si attacchi, sottolineano gli esperti.
Altro trucco suggerito da Bender consiste nell’utilizzare la frutta un giorno o due prima che sia giunta a completa maturazione in modo che mantenga la propria consistenza durante la cottura alla griglia.
- Se possibile, optare per carne di pollo o pesce al posto di carne rossa, hamburger o wurstel.
- Importante è la marinatura. Marinare la carne riduce la formazione di HCA, sottolinea ancora Bender. Per questo processo si può utilizzare dell’aceto o succo di limone. Condire così la carne, anche per soli 30 minuti, può essere senz'altro utile.
- La precottura della carne riduce la quantità di tempo in cui questa sarà esposta a temperature elevate sulla griglia. Questo processo aiuta a ridurre la formazione di HCA. L’importante, fa notare Bender, è che la carne precotta deve essere posta sulla griglia subito dopo essere stata sottoposta al trattamento.
- Se possibile, cuocere la carne lentamente. Cercare pertanto di predisporre la brace o la griglia elettrica in modo che la cottura sia meno veloce e intensa, in un sol colpo: in questo modo la carne cuoce meglio anche all’interno e non brucia solo all’esterno.
Altra mossa importante per gli esperti è il limitare la presenza di grasso sulla carne che, sciogliendosi, va ad alimentare le fiamme, le quali possono bruciare la carne.
Questo metodo, insieme agli altri, permette di ridurre di un bel po’ la quantità dei composti cancerogeni HCA e IPA che finiscono nei nostri piatti.
Ecco dunque una serie di semplici ma efficaci accorgimenti per rendere le nostre grigliate più sicure, senza nulla togliere al piacere della convivialità.
[lm&sdp]
Da sempre, infatti, l’estate coincide con il periodo in cui si preparano più spesso menù a base di carne alla griglia. Questa pratica, sebbene sia gradita ai più, nasconde però qualche insidia – come spesso ricordato dagli esperti. Una di queste è che si possa aumentare il rischio di sviluppare una qualche forma di cancro, come per esemipio quello del colon-retto.
Ma, allora, come possiamo conciliare il piacere di una grigliata con il mantenimento della salute? A tale proposito rispondono sempre gli esperti.
L’American Institute for Cancer Research e i propri esperti mettono in guardia dai potenziali pericoli derivanti da un utilizzo scorretto dei cibi e del barbecue che possono, appunto, aumentare il rischio di cancro.
«Le diete che prevedono grandi porzioni di carni rosse e trasformate hanno dimostrato di rendere più probabile lo sviluppo del cancro colorettale – spiega nel comunicato AICR la dottoressa Alice Bender – La prova che la griglia è di per sé un fattore di rischio è meno forte, ma ha comunque senso prendere alcune semplici precauzioni protettive dal cancro». Di queste, ha aggiunto la nutrizionista, la prima precauzione è quella di evitare di cuocere troppo l’alimento sulla griglia perché il processo di carbonizzazione genera dei composti chiamati ammine eterocicliche (HCA) e idrocarburi policiclici aromatici (IPA), che sono sotto accusa nell’essere fattori di rischio per il cancro.
Nel comunicato AICR vi sono tuttavia altri importanti suggerimenti che riportiamo di seguito.
- Aggiungere colore ai piatti, limitando la carne rossa e aumentando la presenza di frutta e verdura colorata: in questo modo ci si assicura un maggiore apporto di benefiche sostanze fitochimiche. Questi composti naturali presenti nelle piante, ricorda l’esperta, offrono una protezione contro il cancro.
È possibile grigliare verdure come asparagi, cipolle, funghi, zucchine, melanzane e pannocchie di granturco. Quando s’intenda grigliare della frutta è bene spazzolarla con olio di oliva in modo che non si attacchi, sottolineano gli esperti.
Altro trucco suggerito da Bender consiste nell’utilizzare la frutta un giorno o due prima che sia giunta a completa maturazione in modo che mantenga la propria consistenza durante la cottura alla griglia.
- Se possibile, optare per carne di pollo o pesce al posto di carne rossa, hamburger o wurstel.
- Importante è la marinatura. Marinare la carne riduce la formazione di HCA, sottolinea ancora Bender. Per questo processo si può utilizzare dell’aceto o succo di limone. Condire così la carne, anche per soli 30 minuti, può essere senz'altro utile.
- La precottura della carne riduce la quantità di tempo in cui questa sarà esposta a temperature elevate sulla griglia. Questo processo aiuta a ridurre la formazione di HCA. L’importante, fa notare Bender, è che la carne precotta deve essere posta sulla griglia subito dopo essere stata sottoposta al trattamento.
- Se possibile, cuocere la carne lentamente. Cercare pertanto di predisporre la brace o la griglia elettrica in modo che la cottura sia meno veloce e intensa, in un sol colpo: in questo modo la carne cuoce meglio anche all’interno e non brucia solo all’esterno.
Altra mossa importante per gli esperti è il limitare la presenza di grasso sulla carne che, sciogliendosi, va ad alimentare le fiamme, le quali possono bruciare la carne.
Questo metodo, insieme agli altri, permette di ridurre di un bel po’ la quantità dei composti cancerogeni HCA e IPA che finiscono nei nostri piatti.
Ecco dunque una serie di semplici ma efficaci accorgimenti per rendere le nostre grigliate più sicure, senza nulla togliere al piacere della convivialità.
[lm&sdp]
Sentirsi soli fa morire prima
la solitudine aumenta i tassi di morte per eventi cardiaci
Sentirsi soli fa morire prima
La solitudine aumenta il rischio di morte prematura per malattie cardiovascolari. Lo studio
La solitudine o il sentirsi soli pare che influisca sulla salute, tanto che chi per esempio ha già problemi cardiovascolari è soggetto a morire prima. Ma non solo.
L’isolamento sociale, l’emarginazione, sono tutte situazioni che possono dunque portare alla morte in generale e per eventi cardiaci – questi ultimi in particolare per i soggetti predisposti o con una storia di patologie cardiovascolari. Questo quanto emerso da uno studio pubblicato sull’Archives of Internal Medicine, di JAMA, e condotto dai ricercatori del Brigham and Women’s Hospital della Harvard Medical School a Boston (Usa).
Secondo i ricercatori l’isolamento sociale influirebbe sulle funzioni ormonali della persona e altera l’azione degli ormoni che sottintendono allo stress emotivo e lo tengono sotto controllo. Questa azione sugli ormoni andrebbe anche a modificare il comportamento delle persone riguardo la propria salute e le cure sanitarie.
Per dunque valutare se e come l’essere soli influisse sulla mortalità, il dottor Jacob A. Udell e colleghi del BWH hanno esaminato i dati relativi ai partecipanti allo studio REACH che comprendeva 44.573 persone, di cui il 19% (8.594) vivevano da sole.
I risultati dell’analisi dei dati ha mostrato che tra coloro che vivevano da soli il rischio di morte entro i quattro anni era del 14,1%, contro l’11,1% di chi viveva in compagnia. Di queste morti premature l’8,6% era dovuto a eventi cardiovascolari in chi viveva solo, contro un 6,8% per chi viveva insieme ad altre persone.
L’aumento dei tassi di morte per le persone sole variava anche in base all’età. Per esempio, un gran numero di decessi, secondo lo studio, si verifica nella fascia di età tra i 66 e gli 80 anni con un 13,2% per chi vive solo, contro un 12,3% per chi vive in compagnia. Nella fascia di età compresa tra i 45 e i 65 anni il tasso di mortalità era del 7,7% per le persone sole e 5,7% per quelle non. A sorpresa, passati gli 80 anni, i tassi di mortalità scendevano al 24,6% per chi è solo e aumentavano al 28,4% per chi viveva in compagnia.
«In conclusione, chi vive da solo è risultato indipendentemente associato a un aumentato rischio di mortalità e morte cardiovascolare in una coorte internazionale di pazienti stabili di mezza età ambulatoriali con o a rischio di aterotrombosi – scrivono i ricercatori – Gli individui più giovani che vivono da soli possono avere un decorso meno favorevole di tutti, rispetto anche agli individui più anziani, in seguito allo sviluppo di una malattia cardiovascolare e questa osservazione giustifica il proseguire con ulteriori studi».
[lm&sdp]
L’isolamento sociale, l’emarginazione, sono tutte situazioni che possono dunque portare alla morte in generale e per eventi cardiaci – questi ultimi in particolare per i soggetti predisposti o con una storia di patologie cardiovascolari. Questo quanto emerso da uno studio pubblicato sull’Archives of Internal Medicine, di JAMA, e condotto dai ricercatori del Brigham and Women’s Hospital della Harvard Medical School a Boston (Usa).
Secondo i ricercatori l’isolamento sociale influirebbe sulle funzioni ormonali della persona e altera l’azione degli ormoni che sottintendono allo stress emotivo e lo tengono sotto controllo. Questa azione sugli ormoni andrebbe anche a modificare il comportamento delle persone riguardo la propria salute e le cure sanitarie.
Per dunque valutare se e come l’essere soli influisse sulla mortalità, il dottor Jacob A. Udell e colleghi del BWH hanno esaminato i dati relativi ai partecipanti allo studio REACH che comprendeva 44.573 persone, di cui il 19% (8.594) vivevano da sole.
I risultati dell’analisi dei dati ha mostrato che tra coloro che vivevano da soli il rischio di morte entro i quattro anni era del 14,1%, contro l’11,1% di chi viveva in compagnia. Di queste morti premature l’8,6% era dovuto a eventi cardiovascolari in chi viveva solo, contro un 6,8% per chi viveva insieme ad altre persone.
L’aumento dei tassi di morte per le persone sole variava anche in base all’età. Per esempio, un gran numero di decessi, secondo lo studio, si verifica nella fascia di età tra i 66 e gli 80 anni con un 13,2% per chi vive solo, contro un 12,3% per chi vive in compagnia. Nella fascia di età compresa tra i 45 e i 65 anni il tasso di mortalità era del 7,7% per le persone sole e 5,7% per quelle non. A sorpresa, passati gli 80 anni, i tassi di mortalità scendevano al 24,6% per chi è solo e aumentavano al 28,4% per chi viveva in compagnia.
«In conclusione, chi vive da solo è risultato indipendentemente associato a un aumentato rischio di mortalità e morte cardiovascolare in una coorte internazionale di pazienti stabili di mezza età ambulatoriali con o a rischio di aterotrombosi – scrivono i ricercatori – Gli individui più giovani che vivono da soli possono avere un decorso meno favorevole di tutti, rispetto anche agli individui più anziani, in seguito allo sviluppo di una malattia cardiovascolare e questa osservazione giustifica il proseguire con ulteriori studi».
[lm&sdp]
12 giu 2012
I legumi preziosi alleati della salute
dieta scorretta e sostanze benefiche
Gli italiani si perdono i benefici dei flavonoidi per il cuore
Un’indagine dell’Osservatorio nutrizionale Grana Padano mette in luce l’importanza dei flavonoidi nella prevenzione cardiovascolare, ma gli italiani ne assumono pochi. I consigli degli esperti
Un recente studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition
suggerisce che una dieta ricca di flavonoidi può favorire la
prevenzione delle malattie cardiovascolari e ridurre il rischio di
morte.
Fin qui tutto bene, se non fosse che proprio noi italiani ci stiamo perdendo i benefici offerti da queste preziose sostanze antiossidanti perché seguiamo una dieta povera di questi elementi. Ecco quanto emerge da un’indagine dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano.
Come accennato i flavonoidi sono sostanze chimiche naturali contenute in certi alimenti; in particolare frutta e verdura. Sono considerati dei potenti antiossidanti e antinfiammatori. Ricordiamo che dietro a malattie anche gravi come quelle dell’apparato cardiaco e vascolare, e il cancro, vi è spesso un problema di ossidazione e infiammazione. I flavonoidi dunque possono essere di aiuto proprio nella prevenzione di queste patologie.
Chiunque abbia a “cuore” la salute del cuore dovrebbe pertanto assumere alimenti che possano fornire il giusto quantitativo di queste sostanze benefiche. Ma gli italiani assumono regolarmente cibi che contengono flavonoidi e in che quantità? Questa è la domanda a cui hanno tentato di rispondere gli specialisti dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano conducendo un’indagine su 7.645 soggetti (4.681 femmine e 2.964 maschi) di età superiore ai 18 anni. L’intento era di valutare il consumo medio pro-capite di flavonoidi.
Si è partiti tenendo presente che gli alimenti mediamente più ricchi di flavonoidi sono il tè, il vino rosso e la frutta (in particolare gli agrumi), e anche la verdura, l’olio (soprattutto d’oliva) e cioccolato.
Ecco i risultati dell’indagineIl tè, per esempio, è consumato dal 30% circa della popolazione, con una prevalenza per il sesso femminile (32% verso il 25,5%). Maggiore è il consumo di caffè (80% della popolazione, senza differenza tra i sessi). Tuttavia è bene tenere presente che il contenuto di flavonoidi nel caffè è inferiore rispetto a quello del tè.
Il vino rosso è consumato dal 55% della popolazione, con prevalenza nel sesso maschile (65% vs il 48%). Per quanto concerne la frutta e in particolar modo gli agrumi, sono consumati dal 60% della popolazione. Tuttavia, le porzioni di frutta consumate sembrano essere inferiori rispetto a quelle consigliate dalle linee guida per una sana e corretta alimentazione; infatti, si è stimato che il consumo medio di frutta pro capite è di circa 250 g, mentre l’apporto consigliato è di 400 g (circa 3 frutti).
Ma i dati diventano critici quando si indaga sull’apporto di verdura: si stima infatti che il consumo medio pro capite sia di 175 g al giorno, lievemente superiore nelle donne. Secondo le linee guida per una sana e corretta alimentazione andrebbe consumata una porzione di verdura da almeno 200 g a ogni pasto – siamo pertanto al di sotto della media.
«Ancora una volta ci troviamo a ribadire l’importanza dei capisaldi della dieta mediterranea – ha commentato la dottoressa Michela Barichella, Presidente di Brain and Malnutrition Association e responsabile della Struttura Semplice di dietetica e Nutrizione Clinica ICP di Milano – Raccomandando il consumo di almeno una porzione di verdura a pasto e di circa tre frutti al giorno, preferendo sempre frutta e verdura crude, fresche e di stagione. È consentito un consumo moderato di vino rosso (circa un bicchiere al giorno), di caffè (due-tre tazzine al giorno) e soprattutto di tè. Anche in questo caso, la dieta mediterranea consente un adeguato apporto di flavonoidi, importanti per la prevenzione cardiovascolare».
«È accertato che un costante e alto apporto di vegetali al naturale e di frutta fresca riduce il rischio di malattie cardiovascolari e quindi dei gravi eventi a esse correlati: soprattutto infarto cardiaco e ictus cerebrale – interviene il prof. Sergio Coccheri, Professore di Malattie Cardiovascolari dell’Università di Bologna – Che questo effetto benefico sia da attribuire ai flavonoidi contenuti in frutta e verdura è verosimile, ma non ancora dimostrato nell’uomo: gli studi clinici hanno dato infatti risultati talora contrastanti. Questo anche perché si sono spesso ricercati soltanto effetti eclatanti come la riduzione della mortalità, che è influenzata da molti altri fattori».
I CONSIGLI DELL’OSSERVATORIO NUTRIZIONALE GRANA PADANOI medici e gli esperti nutrizionisti dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano offrono i loro consigli per garantire un adeguato apporto di flavonoidi con l’alimentazione di tutti i giorni.
- Consumare legumi il più spesso possibile, almeno due-tre volte la settimana, come alternativa al secondo piatto. Se tollerati, andrebbero consumati con la buccia, ricchissima di antiossidanti.
- Consumare almeno una porzione di verdura a pasto. Per rendere più varia e completa l’assunzione di antiossidanti, consumare verdure di diverso colore: verde scuro (spinaci, broccoli, bieta ecc.); bianco (come aglio e cipolla); giallo e arancione (peperone, carota, zucca) e rosso (pomodoro, anche cotto). Preferire le verdure crude e fresche, perché gli antiossidanti possono alterarsi o perdersi con la conservazione o le cotture.
- Consumare ogni giorno circa tre frutti, preferibilmente freschi e di stagione, sempre alternando i colori: bianco (mela, pera); giallo e arancione (albicocca, pesca, agrumi ecc.); rosso (fragole, cocomero ecc.), viola (prugne, mirtilli ecc.). Si consiglia di consumare la frutta con la buccia, ben lavata.
- Consumare oli vegetali crudi (soprattutto extra vergine d'oliva) al posto di grassi animali.
- Bere un bicchiere di vino al giorno, preferibilmente rosso.
- Consumare moderatamente tè e caffè (due-tre tazze al giorno), preferendo il tè.
- Utilizzare spezie ed erbe aromatiche per insaporire gli alimenti, poiché apportano antiossidanti e permettono di limitare l’uso di sale e condimenti grassi.
Insomma, se possiamo, cerchiamo di aumentare l’assunzione di tutti quei cibi che possono fornirci sostanze utili al mantenimento della salute.
[lm&sdp]
Source: Ufficio stampa Osservatorio Nutrizionale Grana Padano
Foto: ©photoxpress.com/Roman Sigaev
Fin qui tutto bene, se non fosse che proprio noi italiani ci stiamo perdendo i benefici offerti da queste preziose sostanze antiossidanti perché seguiamo una dieta povera di questi elementi. Ecco quanto emerge da un’indagine dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano.
Come accennato i flavonoidi sono sostanze chimiche naturali contenute in certi alimenti; in particolare frutta e verdura. Sono considerati dei potenti antiossidanti e antinfiammatori. Ricordiamo che dietro a malattie anche gravi come quelle dell’apparato cardiaco e vascolare, e il cancro, vi è spesso un problema di ossidazione e infiammazione. I flavonoidi dunque possono essere di aiuto proprio nella prevenzione di queste patologie.
Chiunque abbia a “cuore” la salute del cuore dovrebbe pertanto assumere alimenti che possano fornire il giusto quantitativo di queste sostanze benefiche. Ma gli italiani assumono regolarmente cibi che contengono flavonoidi e in che quantità? Questa è la domanda a cui hanno tentato di rispondere gli specialisti dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano conducendo un’indagine su 7.645 soggetti (4.681 femmine e 2.964 maschi) di età superiore ai 18 anni. L’intento era di valutare il consumo medio pro-capite di flavonoidi.
Si è partiti tenendo presente che gli alimenti mediamente più ricchi di flavonoidi sono il tè, il vino rosso e la frutta (in particolare gli agrumi), e anche la verdura, l’olio (soprattutto d’oliva) e cioccolato.
Ecco i risultati dell’indagineIl tè, per esempio, è consumato dal 30% circa della popolazione, con una prevalenza per il sesso femminile (32% verso il 25,5%). Maggiore è il consumo di caffè (80% della popolazione, senza differenza tra i sessi). Tuttavia è bene tenere presente che il contenuto di flavonoidi nel caffè è inferiore rispetto a quello del tè.
Il vino rosso è consumato dal 55% della popolazione, con prevalenza nel sesso maschile (65% vs il 48%). Per quanto concerne la frutta e in particolar modo gli agrumi, sono consumati dal 60% della popolazione. Tuttavia, le porzioni di frutta consumate sembrano essere inferiori rispetto a quelle consigliate dalle linee guida per una sana e corretta alimentazione; infatti, si è stimato che il consumo medio di frutta pro capite è di circa 250 g, mentre l’apporto consigliato è di 400 g (circa 3 frutti).
Ma i dati diventano critici quando si indaga sull’apporto di verdura: si stima infatti che il consumo medio pro capite sia di 175 g al giorno, lievemente superiore nelle donne. Secondo le linee guida per una sana e corretta alimentazione andrebbe consumata una porzione di verdura da almeno 200 g a ogni pasto – siamo pertanto al di sotto della media.
«Ancora una volta ci troviamo a ribadire l’importanza dei capisaldi della dieta mediterranea – ha commentato la dottoressa Michela Barichella, Presidente di Brain and Malnutrition Association e responsabile della Struttura Semplice di dietetica e Nutrizione Clinica ICP di Milano – Raccomandando il consumo di almeno una porzione di verdura a pasto e di circa tre frutti al giorno, preferendo sempre frutta e verdura crude, fresche e di stagione. È consentito un consumo moderato di vino rosso (circa un bicchiere al giorno), di caffè (due-tre tazzine al giorno) e soprattutto di tè. Anche in questo caso, la dieta mediterranea consente un adeguato apporto di flavonoidi, importanti per la prevenzione cardiovascolare».
«È accertato che un costante e alto apporto di vegetali al naturale e di frutta fresca riduce il rischio di malattie cardiovascolari e quindi dei gravi eventi a esse correlati: soprattutto infarto cardiaco e ictus cerebrale – interviene il prof. Sergio Coccheri, Professore di Malattie Cardiovascolari dell’Università di Bologna – Che questo effetto benefico sia da attribuire ai flavonoidi contenuti in frutta e verdura è verosimile, ma non ancora dimostrato nell’uomo: gli studi clinici hanno dato infatti risultati talora contrastanti. Questo anche perché si sono spesso ricercati soltanto effetti eclatanti come la riduzione della mortalità, che è influenzata da molti altri fattori».
I CONSIGLI DELL’OSSERVATORIO NUTRIZIONALE GRANA PADANOI medici e gli esperti nutrizionisti dell’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano offrono i loro consigli per garantire un adeguato apporto di flavonoidi con l’alimentazione di tutti i giorni.
- Consumare legumi il più spesso possibile, almeno due-tre volte la settimana, come alternativa al secondo piatto. Se tollerati, andrebbero consumati con la buccia, ricchissima di antiossidanti.
- Consumare almeno una porzione di verdura a pasto. Per rendere più varia e completa l’assunzione di antiossidanti, consumare verdure di diverso colore: verde scuro (spinaci, broccoli, bieta ecc.); bianco (come aglio e cipolla); giallo e arancione (peperone, carota, zucca) e rosso (pomodoro, anche cotto). Preferire le verdure crude e fresche, perché gli antiossidanti possono alterarsi o perdersi con la conservazione o le cotture.
- Consumare ogni giorno circa tre frutti, preferibilmente freschi e di stagione, sempre alternando i colori: bianco (mela, pera); giallo e arancione (albicocca, pesca, agrumi ecc.); rosso (fragole, cocomero ecc.), viola (prugne, mirtilli ecc.). Si consiglia di consumare la frutta con la buccia, ben lavata.
- Consumare oli vegetali crudi (soprattutto extra vergine d'oliva) al posto di grassi animali.
- Bere un bicchiere di vino al giorno, preferibilmente rosso.
- Consumare moderatamente tè e caffè (due-tre tazze al giorno), preferendo il tè.
- Utilizzare spezie ed erbe aromatiche per insaporire gli alimenti, poiché apportano antiossidanti e permettono di limitare l’uso di sale e condimenti grassi.
Insomma, se possiamo, cerchiamo di aumentare l’assunzione di tutti quei cibi che possono fornirci sostanze utili al mantenimento della salute.
[lm&sdp]
Source: Ufficio stampa Osservatorio Nutrizionale Grana Padano
Foto: ©photoxpress.com/Roman Sigaev
Ideale per il cuore la dieta mediterranea
- grassi insaturi per restare in salute
Dieta mediterranea, l’ideale per la salute del cuore
Un modello di dieta che ricalca quella mediterranea, con l’eventuale sostituzione di alcuni cibi, può migliorare la salute cardiovascolare, in particolare nei soggetti a rischio
Ancora riflettori puntati sulla dieta mediterranea,
presa a modello da numerosi studi, che si rivela utile nella
prevenzione di numerose patologie: tra queste, anche quelle che
interessano l’apparato cardio-circolatorio.
Un team di scienziati statunitensi della Johns Hopkins University School of Medicine ha presentato i risultati di un’analisi condotta sui i dati dello studio “OmniHeart” al meeting dell’American Heart Association tenutosi dal 13 al 15 novembre 2011 a Orlando in Florida (Usa)
«L’introduzione del giusto tipo di grassi in una dieta sana è un altro strumento per ridurre il rischio di malattie cardiache in futuro», ha commentato il dottor Meghana Gadgil, coautore dello studio.
Gadgil e colleghi hanno studiato gli effetti sul sistema cardiovascolare di tre diverse, e bilanciate, diete su 164 persone con diagnosi di ipertensione lieve, senza diabete.
Il non soffrire di diabete di tipo 2 è stato determinante ai fini della valutazione, in quanto la possibilità che una persona non riesca a utilizzare in modo efficace l’insulina, può aprire le porte al diabete che, come risaputo, è un grave fattore di rischio per le malattie cardiache.
Una volta accertato ciò, i ricercatori hanno confrontato la capacità dell’organismo di regolare i livelli di zucchero nel sangue e mantenere corretti quelli di insulina a seguito del seguire una delle tre diete.
I tre programmi prevedevano una dieta ricca di carboidrati, una dieta ricca di proteine e una dieta ricca di grassi insaturi. Al termine dell’analisi, i ricercatori hanno scoperto che una dieta equilibrata che preveda una buona assunzione di grassi insaturi migliora significativamente la gestione dell’insulina, rispetto a una dieta ricca di carboidrati – in particolare quelli derivanti da carboidrati raffinati come la farina bianca.
I grassi insaturi contenuti in alimenti quali l’olio extravergine di oliva, le noci e molti altri ancora, sono gli alimenti da preferire dunque, suggeriscono i ricercatori – sottolineando come il modello da seguire sia affine alle diete tipiche di Paesi come la Grecia o il Sud d’Italia, favorendo il consumo di grassi utili e benefici.
La dieta mediterranea continua quindi a essere un modello per un’alimentazione sana ed equilibrata. Basta sapere come dosare gli ingredienti e, oltre a godere di una buona tavola, possiamo proteggerci dalle temute malattie di cuore e affini.
[lm&sdp]
Un team di scienziati statunitensi della Johns Hopkins University School of Medicine ha presentato i risultati di un’analisi condotta sui i dati dello studio “OmniHeart” al meeting dell’American Heart Association tenutosi dal 13 al 15 novembre 2011 a Orlando in Florida (Usa)
«L’introduzione del giusto tipo di grassi in una dieta sana è un altro strumento per ridurre il rischio di malattie cardiache in futuro», ha commentato il dottor Meghana Gadgil, coautore dello studio.
Gadgil e colleghi hanno studiato gli effetti sul sistema cardiovascolare di tre diverse, e bilanciate, diete su 164 persone con diagnosi di ipertensione lieve, senza diabete.
Il non soffrire di diabete di tipo 2 è stato determinante ai fini della valutazione, in quanto la possibilità che una persona non riesca a utilizzare in modo efficace l’insulina, può aprire le porte al diabete che, come risaputo, è un grave fattore di rischio per le malattie cardiache.
Una volta accertato ciò, i ricercatori hanno confrontato la capacità dell’organismo di regolare i livelli di zucchero nel sangue e mantenere corretti quelli di insulina a seguito del seguire una delle tre diete.
I tre programmi prevedevano una dieta ricca di carboidrati, una dieta ricca di proteine e una dieta ricca di grassi insaturi. Al termine dell’analisi, i ricercatori hanno scoperto che una dieta equilibrata che preveda una buona assunzione di grassi insaturi migliora significativamente la gestione dell’insulina, rispetto a una dieta ricca di carboidrati – in particolare quelli derivanti da carboidrati raffinati come la farina bianca.
I grassi insaturi contenuti in alimenti quali l’olio extravergine di oliva, le noci e molti altri ancora, sono gli alimenti da preferire dunque, suggeriscono i ricercatori – sottolineando come il modello da seguire sia affine alle diete tipiche di Paesi come la Grecia o il Sud d’Italia, favorendo il consumo di grassi utili e benefici.
La dieta mediterranea continua quindi a essere un modello per un’alimentazione sana ed equilibrata. Basta sapere come dosare gli ingredienti e, oltre a godere di una buona tavola, possiamo proteggerci dalle temute malattie di cuore e affini.
[lm&sdp]
Mangi male e il cuore ne soffre
- dieta scorretta e rischio cardiovascolare
Mangi male e il cuore ne soffre
Una dieta scorretta aumenta il rischio di malattia cardiovascolare e il taglio dei carboidrati ha favorito nel tempo l’aumento del colesterolo, nonostante il minore consumo di grassi. Lo studio
La dieta è fondamentale per il benessere.
E mai come oggi è vero, dopo aver letto i risultati di un largo studio svedese durato la bellezza di 25 anni.
Pubblicati sul Nutrition Journal, la pubblicazione di BioMed Central, i risultati di questa ricerca revisionale dei ricercatori dell’Umeå University, l’Università di Göteborg e il Consiglio Nazionale del Welfare hanno messo in chiara evidenza come una cattiva alimentazione possa aumentare il rischio cardiovascolare.
Ciò che ha messo in evidenza lo studio è che una dieta a basso tenore di carboidrati in realtà ha fatto aumentare nel tempo i livelli di colesterolo, nonostante vi sia stato in parallelo un minore consumo di grassi.
Nonostante questo intervento per la riduzione dell’assunzione di grassi, nell’intero periodo di 25 anni il BMI (l’indice di massa corporeo) della popolazione è aumentato a prescindere dal tipo di dieta. L’aumento del BMI associato all’aumento di colesterolo registrato va ad aumentare di conseguenza il rischio per le malattie dell’apparato cardiocircolatorio.
I dati raccolti dai ricercatori hanno permesso di osservare come le abitudini alimentari si fossero modificate a seguito degli interventi di sensibilizzazione e partecipazione a determinati programmi come per esempio il Västerbotten Intervention Programme (VIP) varato nel 1985. Questo programma prevedeva un’informazione sulla salute e l’alimentazione, una migliore etichettatura dei prodotti, una consulenza alimentare, esami clinici e altro ancora.
Le informazioni provenienti dal VIP sono poi state combinate con quello di un altro programma denominato WHO MONICA, che intende monitorare i fattori di rischio cardiovascolare.
Il progetto VIP, in particolare, prevedeva una diversa distribuzione dei grassi e dei carboidrati nella dieta. Questo effetto si è mostrato con una riduzione del 3 percento nel consumo di grassi per gli uomini e del 4 percento per le donne. Misurato nel 1992, il dato è rimasto stabile fino al 2005. La modifica nell’assunzione, sia per quantità che per qualità, si è rivelata in un abbassamento generale dei livelli di colesterolo. Tuttavia, dopo il 2005 i livelli totali di grassi saturi è tornato ad aumentare, mentre in parallelo è diminuito il consumo di carboidrati complessi per via di una campagna mediatica che promuoveva diete a basso indice glicemico (IG).
Il problema è che, da questo punto in poi, i livelli di colesterolo hanno cominciato di nuovo ad aumentare, nonostante l’introduzione di un trattamento ipocolesterolemizzante.
«L’associazione tra nutrizione e salute è complessa – ha commentato il prof. Ingegerd Johansson, principale autore dello studio – Si tratta di componenti alimentari specifici, di interazioni tra questi componenti alimentari, e di interazioni con i fattori genetici e le singole esigenze. Mentre diete con un basso contenuto di carboidrati/ricche di grassi possono aiutare nel breve termine con una perdita di peso, i risultati di questo studio svedese dimostrano che la perdita di peso a lungo termine non viene mantenuta e che questa dieta aumenta il colesterolo nel sangue, che ha un forte impatto sul rischio di malattie cardiovascolari».
Insomma, diventa sempre più difficile capire quale sia la dieta giusta per mettersi al riparo dalle mille insidie per la salute. Di certo, come sempre, la via migliore è l’equilibrio: i grassi sono utili, ma non bisogna eccedere, così come bisogna assumere i carboidrati complessi… In definitiva, come detto, il bilanciamento è essenziale e poi la scelta migliore potrebbe essere quella di consultarsi con un nutrizionista che possa adeguare la dieta per ognuno, poiché le cose possono sempre essere differenti da individuo a individuo.
[lm&sdp]
E mai come oggi è vero, dopo aver letto i risultati di un largo studio svedese durato la bellezza di 25 anni.
Pubblicati sul Nutrition Journal, la pubblicazione di BioMed Central, i risultati di questa ricerca revisionale dei ricercatori dell’Umeå University, l’Università di Göteborg e il Consiglio Nazionale del Welfare hanno messo in chiara evidenza come una cattiva alimentazione possa aumentare il rischio cardiovascolare.
Ciò che ha messo in evidenza lo studio è che una dieta a basso tenore di carboidrati in realtà ha fatto aumentare nel tempo i livelli di colesterolo, nonostante vi sia stato in parallelo un minore consumo di grassi.
Nonostante questo intervento per la riduzione dell’assunzione di grassi, nell’intero periodo di 25 anni il BMI (l’indice di massa corporeo) della popolazione è aumentato a prescindere dal tipo di dieta. L’aumento del BMI associato all’aumento di colesterolo registrato va ad aumentare di conseguenza il rischio per le malattie dell’apparato cardiocircolatorio.
I dati raccolti dai ricercatori hanno permesso di osservare come le abitudini alimentari si fossero modificate a seguito degli interventi di sensibilizzazione e partecipazione a determinati programmi come per esempio il Västerbotten Intervention Programme (VIP) varato nel 1985. Questo programma prevedeva un’informazione sulla salute e l’alimentazione, una migliore etichettatura dei prodotti, una consulenza alimentare, esami clinici e altro ancora.
Le informazioni provenienti dal VIP sono poi state combinate con quello di un altro programma denominato WHO MONICA, che intende monitorare i fattori di rischio cardiovascolare.
Il progetto VIP, in particolare, prevedeva una diversa distribuzione dei grassi e dei carboidrati nella dieta. Questo effetto si è mostrato con una riduzione del 3 percento nel consumo di grassi per gli uomini e del 4 percento per le donne. Misurato nel 1992, il dato è rimasto stabile fino al 2005. La modifica nell’assunzione, sia per quantità che per qualità, si è rivelata in un abbassamento generale dei livelli di colesterolo. Tuttavia, dopo il 2005 i livelli totali di grassi saturi è tornato ad aumentare, mentre in parallelo è diminuito il consumo di carboidrati complessi per via di una campagna mediatica che promuoveva diete a basso indice glicemico (IG).
Il problema è che, da questo punto in poi, i livelli di colesterolo hanno cominciato di nuovo ad aumentare, nonostante l’introduzione di un trattamento ipocolesterolemizzante.
«L’associazione tra nutrizione e salute è complessa – ha commentato il prof. Ingegerd Johansson, principale autore dello studio – Si tratta di componenti alimentari specifici, di interazioni tra questi componenti alimentari, e di interazioni con i fattori genetici e le singole esigenze. Mentre diete con un basso contenuto di carboidrati/ricche di grassi possono aiutare nel breve termine con una perdita di peso, i risultati di questo studio svedese dimostrano che la perdita di peso a lungo termine non viene mantenuta e che questa dieta aumenta il colesterolo nel sangue, che ha un forte impatto sul rischio di malattie cardiovascolari».
Insomma, diventa sempre più difficile capire quale sia la dieta giusta per mettersi al riparo dalle mille insidie per la salute. Di certo, come sempre, la via migliore è l’equilibrio: i grassi sono utili, ma non bisogna eccedere, così come bisogna assumere i carboidrati complessi… In definitiva, come detto, il bilanciamento è essenziale e poi la scelta migliore potrebbe essere quella di consultarsi con un nutrizionista che possa adeguare la dieta per ognuno, poiché le cose possono sempre essere differenti da individuo a individuo.
[lm&sdp]
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