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3 dic 2011
Il mito dell’Alzheimer
Tratto dal libro: “Il mito dell’Alzheimer”, dottor Peter Whitehouse
Articolo pubblicato da "Effervescienza", inserto della rivista mensile “Biolcalenda”, ottobre 2011
“Se inizialmente un’idea non sembra assurda,
non c’è nessuna speranza che si realizzi”
Albert Einstein
Un po’ di storia
La malattia di Alzheimer ha preso il nome dal medico tedesco Alois Alzheimer che per primo ne studiò un caso (la signora Auguste D. moglie dell’impiegato delle ferrovie Carl D.). Ma non è tutto perché l’uomo che dovrebbe passare alla storia come il vero padre dell’Alzheimer è il medico psichiatra Emil Kraepelin, direttore della Reale clinica psichiatrica di Monaco.
Fu proprio Kraepelin che offrì ad Alzheimer l’opportunità di far parte del suo gruppo a Heidelberg, nominandolo successivamente suo assistente.
Nel 1910 Emil Kraepelin coniò ufficialmente il termine Alzheimer Krankheit (malattia di Alzheimer).
Creando l’AD, Kraepelin aveva conquistato un territorio diagnostico molto importante per il suo laboratorio. Secondo alcuni storici nel consolidare l’esistenza della malattia giocò un ruolo importante la diatriba tra Kraepelin e Sigmund Freud.
La teoria di Freud rivoluzionò lo studio delle nevrosi attribuendo i sintomi delle malattie psichiatriche ai misteriosi lavorii dell’inconscio, e ipotizzando la cura attraverso la terapia psicoanalitica. Queste teorie erano in netto contrasto con la concezione organicistica delle malattie mentali sostenuta da Kraepelin e Alzheimer. Per loro le malattie avevano una base esclusivamente organica che poteva essere accertata con mezzo scientifici.
Si venne così a creare una profonda divisione tra la psichiatria a base organica e la psichiatria freudiana. Ognuna di queste due correnti cercava il riconoscimento nell’ambito medico, perché la posta in gioco era elevata.
La determinazione di Kraepelin a far sì che la malattia di Alzheimer fosse classificata come patologia organica è appunto il tentativo strategico di conquistarsi il riconoscimento, oltreché non perdere il suo orgoglio di scienziato e naturalmente la sua eredità di studioso.
Quando Kraepelin incluse l’AD nel suo testo Psychiatrie, diede avvio a una storia lunga 100 anni durante la quale, da un singolo paziente bollato in modo molto approssimativo, siamo arrivati all’attuale pandemia che coinvolge 25 milioni di persone.
La malattia di Alzheimer sarebbe potuta rimanere rara e insignificante se, nella seconda metà del XX secolo nei paesi industrializzati non fosse aumentata progressivamente l’attesa di vita media. L’invecchiamento della popolazione, associato alla proliferazione di nuovi strumenti tecnologici che promettevano di prolungare la vita. Stimolò l’interesse per la ricerca neurologica e gerontologica.
Nei primi anni Settanta i neuro scienziati, ben consapevoli dell’enorme interesse dell’invecchiamento, cercarono di ottenere maggiori finanziamenti.
Il loro lavoro avrebbe dovuto concentrarsi su qualcosa di molto concreto e attuale, qualcosa di terrificante e incurabile: una malattia che giustificasse l’impiego di enormi risorse, la malattia del secolo. L’Alzheimer si adattava in maniera perfetta allo scopo.
Nel 1974 viene fondato il National Institute on Aging (NIA, Istituto nazionale sull’invecchiamento) e sotto la guida dello psichiatra clinico Robert Butler, inizia subito a promuovere l’AD come suo principale ambito di ricerca, consentendo ai fondi federali di essere convogliati ai ricercatori.
Lo stesso Butler dichiarò: “decisi che dovevamo rendere il termine (malattia di Alzheimer) una parola di uso comune. Sapevo che questo sarebbe stato l’unico modo per far convergere i diversi settori della ricerca in un unico filone che diventasse priorità nazionale. Io chiamo questa strategia la politica sanitaria dell’angoscia”.
Nel 1976 il dottor Robert Katzman in un editoria scrisse che negli Stati Uniti l’AD si collocava al quarto o quinto posto tra le cause più frequenti di morte e sollecitò il paese ad investire di più.
Nel 1979 a Washington fu creata l’Alzheimer’s Disease ad Related Disorder (ADRDA, Associazione per la malattia di Alzheimer e i disturbi correlati).
Nel 15 settembre 1983 la Camera dei rappresentanti propose il mese di novembre come Mese Nazionale dell’Alzheimer.
La reinterpretazione dell’invecchiamento cerebrale come malattia a sé stante, e lo stanziamento di enormi quantità di denaro da parte del governo, produssero un entusiasmo che contagiò i ricercatori e i familiari dei pazienti affetti d’AD.
Cambiò la dizione, e il termine “senilità” venne soppiantato dal termine molto più angosciante che non lascia spazio a dubbi: “malattia di Alzheimer”, il nuovo idioma dell’angoscia!
Nel 1984 1985 il NIA aveva istituito in tutto il paese ben dieci Alzheimer’s Disease Research centers.
Nel 1979 il NIA aveva speso per la ricerca sull’AD circa 4 miliardi di dollari; nel 1991 era arrivato a spenderne 155 (37 volte tanto).
Nel 2007 i fondi federali assegnati alla ricerca per la “guerra contro l’AD” erano lievitati a una cifra sbalorditiva di 643 miliardi di dollari.
Celebrità a sostegno
La nascita del nuovo linguaggio popolare intriso di angoscia e terrore fu amplificato quando vennero coinvolti nella “causa” dell’AD personaggi molto popolari: gli attori Rita Hayworth, Charles Bronson e Charlton Heston, il presidente statunitense Ronald Reagan, la Regina dei Paesi Bassi Giuliana, il Primo ministro britannico Wiston Churchill, il pugile campione del mondo Sugar Ray Robinson, ecc.
Cos’è l’Alzheimer?
Ufficialmente la malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer Disease) è provocata dalla degenerazione del cervello e dalla perdita di cellule nervose a causa di molteplici fattori, perlopiù ignoti alla medicina.
E’ una malattia degenerativa e progressiva caratterizzata dalla perdita irreversibile di cellule cerebrali. Questa degenerazione porta al rimpicciolimento e all’atrofia di alcune aree del cervello, alla riduzione di alcuni neurotrasmettitori, in particolare l’acetilcolina.
Gli effetti di questa “patologia” sono: deficit di memoria, una compromissione della capacità di apprendere, di ragionare, di formulare giudizi, di riconoscere oggetti, di comunicare; gravi difficoltà nel compiere attività quotidiane; agitazione, ansia, depressione, allucinazioni e insonnia.
La demenza
Il termine oggi molto in voga di “demenza”, deriva dal latino “fuori di mente” e in passato era utilizzato per identificare i dissidenti e devianti di ogni tipo, soprattutto donne anziane che venivano accusate di stregoneria quando manifestavano sintomi di decadimento cognitivo.
Le teorie ufficiali più in voga
Beta-amiloide e grovigli neurofibrillari
I ricercatori pensano che i deficit cognitivi dell’AD siano associati alla presenza nel cervello di alterazioni anatomopatologiche costituite da due formazioni di natura proteica: le placche di proteine beta-amiloide (BAP) e i grovigli neurofibrillari (NFTs), che alla fine distruggerebbero i neuroni a livello cerebrali.
Ma in tutto questo le lacune conoscitive non mancano, per esempio gli scienziati non capiscono come le beta-amiloide uccida i neuroni; non sanno se tali placche sono responsabili della degenerazione o dei semplici marcatori e/o cicatrici di una morte, quindi se sono causa o effetto di tale degenerazione. La proteine beta-amiloide si accumula in TUTTI i cervelli man mano che invecchiano, e tale processo può addirittura iniziare nei ventenni. Risulta pertanto difficile stabilire quale sia il livello soglia oltre il quale l’accumulo di beta-amiloide diventa patologico.
Radicali liberi
I radicali sono atomi o gruppi di atomi che contengono almeno un elettrone spaiato e quindi sono debolmente legati, instabili e altamente reattivi. Si accumulano nel cervello provocando nelle cellule un danno e un deficit che potrebbe contribuire all’AD. Queste molecole reattive si formano nel corpo durante i normali processi biologici che possono essere accelerati da agenti esterni come infezioni, fumo di tabacco, agenti tossici, erbicidi, radiazione solare e inquinanti. I radicali possono anche danneggiare il DNA.
Infiammazioni
Secondo questa teoria l’AD è una conseguenza dell’infiammazione cerebrale che genera metaboliti anomali (piccole molecole prodotte dai processi metabolici) a partire da normali molecole cerebrali.
Per esempio le citochine, che sono normali proteine del sistema immunitario, sono prodotti dall’infiammazione tissutale e possono circolare nel cervello.
Teoria vascolare
Piccoli infarti isolati in aree strategiche del cervello, oppure l’occlusione di multipli vasellini sanguigni, possono provocare demenza riducendo l’apporto di ossigeno al cervello e alterando i circuiti neuronali coinvolti nei processi decisionali, nella memoria.
Teoria infettiva
Secondo gli esperti alcuni virus della famiglia dell’herpes possono provocare demenza, ma solo alcuni studi li hanno messi in relazione con l’AD.
Teoria delle eccitotossine
I neuroni morirebbero per un eccesso di stimolazione da parte di neurotrasmettitori aminoacidi eccitatori (eccitotossine). Dato che il glutammato e altri neurotrasmettitori eccitatori normalmente inducono la scarica elettrica dei neuroni, se sono presenti in eccesso, possono portare i neuroni a scaricare (ed eccitarsi) fino alla morte.
La teoria del diabete
Disturbi del metabolismo del glucosio erano stati descritti nella malattia di Alzheimer già da decenni, e gli scienziati avevano ipotizzato che in un soggetto diabetico o il cervello manca di sufficiente glucosio per funzionare correttamente o lo zucchero presente in eccesso nel sangue produce un danno vascolare che compromette l’irrorazione dei neuroni.
Studi epidemiologici indicavano che le persone affette da AD avevano più frequentemente un diabete concomitante.
Il mito dell’Alzheimer
La malattia di Alzheimer (AD) è un mito creato dalla nostra cultura nel tentativo di fornire un senso a un processo naturale, l’invecchiamento cerebrale, che non possiamo controllare.
Quello che non viene detto alla popolazione è che la cosiddetta “malattia di Alzheimer” (AD) NON può essere differenziata dal normale processo di invecchiamento e che la patologia NON ha mai lo stesso decorso.
Sembra che ogni anno sempre più persone cadano vittime dell’AD. Quotidiani e riviste vorrebbero farci credere che la AD si sta diffondendo nella popolazione a ritmo pandemico.
Naturalmente quello che non viene detto è che non sappiamo come diagnosticare la AD, figuratevi se siamo in grado di stilare il bilancio delle vittime.
Dato che non vi è un singolo profilo biologico dell’AD, ogni diagnosi clinica viene ritenuta “probabile”, e neppure l’esame autoptico è in grado di differenziare la vittima della cosiddetta AD dai soggetti che sono invecchiati normalmente! Questo è il motivo per cui anche l’esame neuropatologico ha perso nel corso degli ultimi anni un po’ del suo smalto e della sua affidabilità.
“A nessuno ‘viene’ una ben definita malattia chiamata Alzheimer, e non ci sono evidenze che l’AD si stia diffondendo nella popolazione”, parola del dottor Peter J. Whitehouse, neurologo americano, uno dei massimi esperti mondiali proprio di Alzheimer.
Ma se l’AD non può essere differenziato dal normale invecchiamento cerebrale, per curare l’AD dovremmo di fatto arrestare il naturale processo di invecchiamento cerebrale.
La promessa di una panacea per una delle malattie più temute costituisce un potente mito culturale della civiltà contemporanea.
Dopo 30 anni di ricerca e decine di miliardi di dollari spesi non abbiamo nessuna cura e i costosi test genetici e gli strumenti di neuroimaging ci fanno sprofondare nella confusione anziché avvicinarci alla scoperta di una cura.
Il focalizzarsi sugli approcci biologici all’invecchiamento cerebrale ha sovvertito completamente le dinamiche di approccio al problema AD all’interno della nostra società: dall’assistenza al paziente anziano e alla sua famiglia siamo passati all’utilizzo dei farmaci come principale mezzo per assicurare una buona qualità della vita.
Ritengo che il mito dell’AD ci stia portando a sprecare risorse enormi nella ricerca di una formula magica che risolverà il problema dell’invecchiamento cerebrale: stiamo privilegiando la terapia piuttosto che l’assistenza e la prevenzione.
L’infatuazione della tecnologia ci fa dimenticare di attuare semplici misure preventive per proteggere il nostro cervello dal decadimento cognitivo, come indossare un casco quando andiamo in bicicletta, mangiare sano, fare attività fisica, assicurarci acqua potabile pubblica priva di piombo, arsenico, metilmercurio e policlorobifenili (PCB).
Spese per la società
Attualmente sembra che nel mondo 25 milioni di persone siano affette da Alzheimer con costi enormi per la società: 240 miliardi di dollari all’anno.
Si stima che nel 2030 circa un quinto della popolazione americana (70 milioni di soggetti) avrà 65 anni o più con una aspettativa di vita media di circa 77.5 anni per gli uomini e 83 per le donne. Mentre nel 2040 ci saranno 40 milioni di persone oltre gli 85 anni.
In base alle proiezioni statistiche nel 2050 il numero di americani ai quali verrà diagnosticato l’Alzheimer raggiungerà i 14 milioni con un costo di oltre 300 miliardi di dollari all’anno.
L’associazione Alzheimer’s Disease International (ADI) ha stimato che nel mondo il numero di persone affette da AD supererà gli 80 milioni!
Attenti alle parole
Da un punto di vista neurologico la parola “Alzheimer” ha un effetto devastante sul cervello delle persone che la sentono nominare. Tale parola innesca determinati circuiti neuronali che danno accesso al nostro lessico interiore di parole e significati. Parole con forte carica emotiva agiscono in modo potente sul cervello e possono indurre alterazioni fisiologiche, come il rilascio di ormoni dello stress che potrebbero danneggiare i neuroni stessi.
Quindi una diagnosi frettolosa e avventata può indurre serie problematiche. C’è differenza tra dire a una persona che il suo cervello sta invecchiando e aiutarlo a far parte della sua comunità e dirgli invece che è affetta da una malattia degenerativa cerebrale progressiva chiamata Alzheimer e applicargli una etichetta che potrebbe emarginarlo.
Le etichette socialmente stigmatizzanti spesso prolungano ed esacerbano la malattia stessa.
“Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo prende origine dai nostri pensieri. Con i nostri pensieri fabbrichiamo il mondo”
Buddha
Alcuni miti da sfatare
L’AD è una malattia del cervello?
L’Alzheimer NON è una malattia cerebrale specifica! Non può essere diagnosticata in modo certo durante la vita o dopo la morte, né possiede una caratteristica patologica di base che lo possa definire.
Il termine “malattia di Alzheimer” applicato all’invecchiamento cerebrale è una definizione impropria che militarizza l’approccio medico al problema e porta a svilire ed emarginare quello con questa “malattia”.
Un inquadramento più umanistico ed ecologico dell’invecchiamento cerebrale riconosce le insidie e le sfide dell’età avanzata e ci permette nel contempo di evitare lo stigma della malattia mentale.
Quando pensiamo all’AD come a una malattia molecolare dell’età senile guardiamo solo alle pozzanghere dell’invecchiamento cognitivo e ignoriamo il temporale che si verifica per tutto l’arco della vita. E’ più corretto considerare l’invecchiamento cerebrale dal punto di vista olistico, come un processo che si sviluppa dal grembo alla tomba.
Il potere di questo mito comincerà a diminuire quando ciascuno di noi inizierà a modificare il linguaggio con cui parla di invecchiamento cerebrale.
L’AD devasta il cervello?
La concezione militarista ci porta a considerare l’invecchiamento cerebrale come una malattia specifica che devasta la mente, il che è una falsità sotto il profilo scientifico.
Una diagnosi di decadimento cognitivo può diventare per chi la riceve un’opportunità per apprendere, crescere e ridersi disponibili agli altri, piuttosto che una condanna pubblica.
In quest’ottica la sofferenza può costituire un’opportunità per una trasformazione personale.
L’AD porta a una perdita di sé?
Tutti noi cambiamo continuamente durante l’arco della vita e gli stadi più avanzati dell’invecchiamento cerebrale sono parte questo continuum.
Man mano che le relazioni evolvono a causa della perdita di memoria, queste possono potenzialmente diventare più ricche e profonde anziché più povere e superficiali.
Combattere una guerra contro l’AD?
Non siamo in guerra con il nostro cervello che invecchia ed è pericoloso e ingannevole pensare che vi sia una soluzione rapida dietro l’angolo. Importante è spogliare il mito dell’AD delle sue metafore di antagonismo e fare del nostro meglio per accettare pienamente la nostra mortalità.
Gli esseri umani e il loro cervello che invecchia non sono in guerra: le persone “dementi” non appartengono a una specie diversa.
Le metafore belliche esercitano un potere sulla psiche umana: instillano un senso di paura e urgenza che sollecita provvedimenti rapidi. Inoltre danno carta bianca a chiunque dichiari guerra!
“La guerra non è fatta per essere vinta.
E’ fatta per non finire mai”
“1984”, George Orwell
L’AD è una morte lenta?
L’invecchiamento cerebrale cambia le persone ma non le cancella dalla società. Di fatto le persone affette da demenza possono ancora dare un contributo alle comunità cui appartengono.
Adottando un nuovo linguaggio sull’invecchiamento cerebrale possiamo superare il mito dominante dell’Alzheimer e modificare la nostra concezione del sé e del corpo in maniera più onesta e umana.
La paura dell’Alzheimer
Molte persone anziane vanno dal medico nutrendo per la loro perdita di memoria sentimenti di paura, terrore e angoscia generati dal mito di massa della malattia di Alzheimer. Questo terrone preconcetto è troppo spesso alimentato dai medici e il modo in cui la diagnosi viene comunicata può risultare una esperienza devastante per il paziente e la sua famiglia.
La diagnosi rappresenta una etichetta che porta con sé una serie di convinzioni, atteggiamenti, significati culturali e inesattezza scientifiche; un’etichetta che implica prospettive terapeutiche limitate e influenza negativamente le aspettative di una persona nella fase finale della propria vita.
I limiti della scienza
Non sappiamo veramente come funziona il cervello, come vengono prodotti i pensieri. La nostra fissazione per la ricerca biomedica ci porta a codificare l’AD in termini puramente meccanici e molecolari, molto riduttivi e limitanti.
Le condizioni che entrano in diagnosi differenziate
Depressione
Questa situazione produce un rallentamento psicomotorio e può rendere labile la memoria. La depressione inoltre provoca una disfunzione dei lobi frontali, una riduzione volumetrica dell’ippocampo e un danno alle strutture nervose a livello subcorticale, incrementando il numero delle placche amiloidi e dei grovigli neuro fibrillari nel cervello.
Ipotiroidismo
La tiroide regola tutti i processi metabolici e una sua disfunzione può avere ripercussioni in tutto l’organismo. Gli ormoni tiroidei possono influenzare la funzione dell’ippocampo e una loro diminuzione causare torpore mentale, perdita di memoria, depressione e ansia.
Epilessia
Farmaci contro l’epilessia possono provocare un rallentamento psicomotorio e deficit di memoria.
Carenza di calcio
Il calcio serve a mantenere l’eccitabilità della membrana neuronale che consente la trasmissione degli stimoli elettrici tra i neuroni. Una carenza di calcio può produrre un malfunzionamento neuronale.
Alcolismo
Nel cervello degli alcolisti si osservano alterazioni strutturali e funzionali come nell’AD.
Cosa possiamo fare?
Invece di imbottire gli anziani di neurolettici, antidepressivi dobbiamo cominciare a integrare le cure con nuove forme di terapia di tipo umanistico: terapia narrativa, arte terapia, pet-therapy e altre che favoriscono il contatto con altri essere umani.
Tenere in attività il cervello significa anche evitare tutto quello che lo atrofizza e lo rende apatico come la televisione (Use it or lose it, Usa il cervello se non vuoi perderlo).
La lettura di libri, risolvere i cruciverba, come pure impegnarsi in qualche attività (teatro, ecc,), fare volontariato, è molto importante per il mantenimento elastico del cervello.
Le ultime scoperte dimostrano che il cervello degli anziani è ancora in grado di generare alcuni tipi di cellule e di stabilire nuove connessioni, soprattutto nell’ippocampo.
La maggior complessità dell’ambiente stimola la formazione di nuove cellule nervose, quindi continuiamo ad apprendere per tutto l’arco della vita.
Un valido aiuto dalle metodiche complementari può arrivare dall’omeopatia, agopuntura, tecniche di rilassamento come yoga, meditazione e soprattutto il Tai-chi che non richiede movimenti difficili ma lenti e armonici.
E’ bene ricordare che la nostra dieta abituale costituisce uno dei più importanti fattori di rischio modificabili per la demenza.
“Un uomo può reputarsi felice se il suo cibo è anche la sua medicina”
Henry david Thoreau
Ridurre il consumo di grassi saturi
Le ricerche epidemiologiche hanno dimostrato che gli elementi chiave per proteggere la salute cognitiva e il cervello in generale è una dieta a basso contenuto di grassi saturi animali (carni, uova, formaggi). Diete ricche di grassi e povere di frutta e verdura sono associate a patologie vascolari, processi infiammatori, produzione di radicali liberi, poco apporto di sangue e ossigeno al cervello à neurodegenerazione!
Aumentare il consumo di frutta e verdura fresca di stagione
La frutta e verdure contiene vitamine, minerali organici, enzimi, antiossidanti, acidi grassi fibra e ormoni.
Aumentare il consumo di Omega-3
Il cervello è composto per il 50% da grassi e gli acidi grassi essenziali come gli Omega-3 costituiscono il 30% della membrana dei neuroni, assicurando la fluidità e la permeabilità. Le giunzioni sinaitiche sono formate per il 60% da Acidi grassi Omega-3.
Gli acidi grassi sono neuro protettivi anche a livello vascolare, aumentano l’elasticità dei vasi sanguigni, diminuiscono la viscosità del sangue e riducono i livelli ematici dei lipidi.
Oggi nella dieta umana il livello Acidi Grassi idrogenati, degli Omega-6 (pro infiammatori) surclassa quello degli Omega-3.
Gli Omega-3 si trovano: semi di lino, lattuga romana, cavolo, semi di senape, chiodo di garofano, noci, mandorle, pistacchi, anacardi, pinoli, pesce, cavolfiore, zucca, spinaci, cavolo cappuccio, verza e fragole.
Curcuma
Gli effetti neuro protettivi del curry sono attribuiti alla curcumina che è un polifenolo dalle potentissime proprietà antiossidanti, antinfiammatorie.
Ginko Biloba
Sembra esercitare un effetto positivo sulle funzioni cognitive e sulla memoria promuovendo l’apporto di sangue al cervello.
Attività fisica
Il nostro corpo è strutturato per il movimento. L’attività fisica fa bene al cervello quanto al corpo. Aumenta il flusso sanguigno cerebrale e protegge i circuiti neuronali.
Negli anziani una buona forma fisica è associata a bassa incidenza di mortalità, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, diabete, depressione e disabilità.
Nelle donne che praticano un’attività fisica intensa il rischio di AD si riduce del 60%
“Abbi cura di apprendere la filosofia
perché in essa è racchiusa la conoscenza dell’uomo, il soggetto primo della medicina”
Codice di condotta per i medici che studiavano
a Oxford e Cambridge nel Medioevo
www.disinformazione.it
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