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July 27, 2010


Home - Dolentium Hominum - Atti della XVIII Conferenza Internazionale - 1. La storia della depressione


 

 

Segunda Sessione: La luce della fede nel mondo della depressione

1. La storia della depressione

Pare che il medico greco Ippocrate, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., si sia recato un giorno a casa del filosofo Democrito i cui amici ritenevano che stesse dando prova di squilibrio mentale. Lo trovò intento a compiere dissezioni sugli animali e a contemplarne i visceri. In tale occasione il filosofo greco, quasi volesse giustificare il suo comportamento, avrebbe detto al medico che anch'egli nutriva un certo interesse circa la natura e le cause della pazzia; avrebbe inoltre aggiunto che volendo scrivere sull'argomento aveva sezionato quegli animali non in dispregio agli dèi, ma per ricercare la sede e la natura della bile al cui eccesso si attribuiva comunemente la causa della pazzia.

All'epoca di Ippocrate la bile, sia gialla che nera, era ritenuta strettamente collegata alle anomalie del comportamento, potendosi distinguere ad esempio temperamenti collerici e temperamenti melanconici a seconda che fosse prevalente l'uno o l'altro fluido. Del resto la bile gialla e la bile nera erano allora considerati, insieme al sangue e al flemma, gli umori fondamentali dell'organismo umano, capaci di assicurare, fin quando si mantenevano fra di loro in perfetto equilibrio ed armonia, la salute fisica e psichica dell'individuo.

In particolare la bile nera o atrabile (in greco: melagkolia) era descritta come un fluido denso, freddo, scuro e irritante; si pensava che avesse sede nella milza e che potesse prodursi anche per evaporazione della componente acquosa degli altri umori. Essa era considerata affine alla terra, anch'essa secca e fredda; era inoltre collegata all'autunno e all'età presenile. La bile nera, qualora avesse preso il sopravvento sugli altri fluidi, poteva fuoriuscire dalla sua sede naturale, infiammarsi, corrompersi e infine ottenebrare la mente. La malinconia, così prodottasi per eccesso e alterazione di un umore corporeo, presentava soprattutto sintomi psichici quali: tristezza, timore, inappetenza, turbe del sonno, allucinazioni e deliri.

Per Ippocrate la terapia della malinconia consisteva nel riportare l'umore sovrabbondante in armonico equilibrio con gli altri tre; a tal fine consigliava un regime igienico-dietetico adeguato non disgiunto, soprattutto nel caso di pazienti poco collaboranti, dall'assunzione di farmaci (come l'elleboro e la mandragola) che per le loro proprietà purgative ed emetiche potessero eliminare l'eccesso di atrabile. Tali erbe erano di solito raccolte dai rizotomoi con particolari precauzioni e rituali, per le valenze simboliche che venivano unanimemente loro attribuite.

Comunque, in epoca postippocratica anche altre sostanze vegetali venivano utilizzate nella cura della melanconia; così, ad esempio, Crisippo di Cnido raccomandava il cavolfiore, Filistione e Plistonico consigliavano il basilico, Filagrio prescriveva una pozione a base di zenzero, pepe, epitema e miele.

Discepolo di Platone (427-347 a.C.), che aveva considerato alcuni tipi di follia come un dono degli dei, Aristotele (384-322 a.C.) associò la melanconia alla genialità, sostenendo che un eccesso di atrabile poteva aiutare artisti, filosofi e anche politici a eccellere nel loro campo. Per Aristotele inoltre il cuore, principale centro vitale e sede del sensorium commune, mandava i vapori caldissimi prodotti al suo interno verso il cervello, il quale provvedeva a raffreddarli e condensarli; in tal modo l'attività del cuore poteva a sua volta essere rinfrescata e calmata.

Ad Alessandria, in epoca ellenistica, Erofilo ed Erasistrato, esperti di anatomia, rivalutarono il cervello localizzandovi le funzioni intellettive. Erasistrato in particolare si sarebbe occupato anche di melanconia, diagnosticandone con successo una forma "amorosa" nel principe Antioco, innamorato della seconda moglie di suo padre; la cura sarebbe stata in questo caso il raggiungimento dell'oggetto d'amore, come in affetti avvenne col consenso del padre a ciò consigliato dal medico.

A Roma, nel I secolo a.C., Asclepiade di Bitinia, contrario alla dottrina umorale e seguace della teoria solidistica, prescriveva ai melanconici vari tipi di bagni, dieta, ambienti bene illuminati; consigliava inoltre di tenere nei confronti di tali pazienti un atteggiamento rassicurante e incoraggiante. Nella stessa epoca l'enciclopedista Aulo Cornelio Celso descrisse nel De Medicina alcune cure in uso contro l'insonnia dei melanconici: applicazione sulla testa di unguento a base di zafferano e di giaggiolo, posizionamento sotto le orecchie di frutti di mandragola, somministrazione di decotto di papavero o di giusquiamo, applicazione di ventose scarificanti alla nuca.

Lucio Anneo Seneca, filosofo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., diede un'accurata descrizione della melanconia e fornì a coloro che ne erano affetti suggerimenti sotto forma di esortazioni e consolazioni.

Rufo d'Efeso nel I secolo d.C. si interessò alla melanconia che descrisse e suddivise in vari tipi caratterizzati dalla diversa localizzazione e azione dell'atrabile, descrivendone anche alcune forme deliranti Per quanto riguarda le terapie prescriveva norme igieniche e dietetiche, il salasso, un purgante a base di cuscuta, epitimo e aloe.

Sorano d'Efeso, vissuto tra il I e il II secolo d.C., si occupò anch'esso di melanconia che, seguendo la dottrina solidistica, attribuiva ad uno stato di costrizione delle fibre costituenti il corpo umano. Descrisse i sintomi principali della malattia: tristezza silenziosa con pianto immotivato, ansietà, prostrazione, disturbi gastrici, animosità verso i parenti. Come cura consigliava soprattutto dei cataplasmi da applicare in regione epigastrica o sul dorso a livello delle scapole; non trascurava neppure le prescrizioni di tipo psicologico-comportamentale, raccomandando ai parenti di far assistere il paziente a commedie allegre, occuparlo in passatempi che tengano sveglia la sua mente, di mostrare interesse e ammirazione per quanto riesce a fare.

Areteo di Cappadocia, vissuto nel II secolo d.C., si interessò in più occasioni della melanconia per la cui cura prescrisse farmaci purganti e colagoghi, consigliando anche bagni in acque che contenessero tra le altre sostanze: bitume, zolfo e allume. Areteo considerò la possibilità che ci fosse una predisposizione costituzionale alla melanconia e che lo stato malinconico costituisse l'estensione patologica di una normale condizione psicologica; affermò inoltre che tale malattia poteva guarire completamente oppure ripresentarsi ancora dopo diversi anni.

Claudio Galeno (130-200 d.C.), tenace assertore della dottrina umoralista, attribuì la malinconia all'eccesso di bile nera, distinguendone tre differenti tipi. Il primo era dovuto alla localizzazione prevalentemente encefalica dell'atrabile; il secondo era invece causato dalla diffusione di tale umore mediante il sangue a tutto l'organismo, encefalo compreso; il terzo infine era provocato dall'ingorgo del medesimo umore nella regione ipocondriaca con produzione di esalazioni tossiche capaci di salire fino all'encefalo e di influenzarlo. Descrisse la tristezza, l'ansietà ed anche i pensieri deliranti dei melanconici (un paziente, ad esempio, immaginava di essere costituito da conchiglie e aveva paura che i passanti le frantumassero; un altro temeva che Atlante, stanco di reggere il mondo sulle spalle, se lo scrollasse di dosso facendo così perire tutti). Consigliava ai pazienti un regime igienico-dietetico; dovevano ad esempio evitare gli alimenti che richiamassero il nero e l'acre dell'atrabile. Prescriveva però anche farmaci come, ad esempio, una miscela di piantaggine, mandragola, fiori di tiglio, oppio e rucola.

Gli autori vissuti in epoca immediatamente successiva a quella di Galeno (come Oribasio di Pergamo, Alessandro di Tralles o Paolo d'Egina) non si discostarono dall'impostazione generale di stampo ippocratico-galenico nell'interpretazione e nel trattamento della disturbi melanconici.

I padri della Chiesa, pur accettando in linea generale il sistema galenico, manifestarono frequentemente la tendenza a considerare la sintomatologia depressiva non come una malattia (la melanconia, imputabile a cause organiche e debellabile con un trattamento medico), ma come un peccato (l'accidia, imputabile a tentazioni diaboliche e debellabile con delle pratiche religiose). San Cassiano, ad esempio, descrisse nei monaci una condizione, favorita dall'esistenza solitaria, caratterizzata da tristezza e inquietudine che li rendeva oziosi e incapaci di assolvere ai loro doveri. In questi casi la cura più adatta poteva essere un atto di penitenza o una punizione correttiva. Comunque, per prevenire il peccato di accidia si consigliava di scacciare l'ozio con l'attività lavorativa, soprattutto quella richiedente un certo grado di impegno e fatica. Del resto il malinconico, che frequentemente dava l'impressione di avere in odio la vita stessa e di nutrire sfiducia nella misericordia divina, manifestava un atteggiamento certamente riprovevole per ogni buon cristiano. Il depresso poi, assorbito dai suoi timori e dalle suoi deliri, sembrava talvolta aver perso del tutto la ragione, il dono divino che differenziava l'uomo dalle bestie; tale situazione poteva essere facilmente interpretata come un segno della riprovazione divina nei suoi confronti, strettamente connessa alla condizione di peccatore.

I medici arabi, all'epoca del massimo splendore di tale civiltà (ultimi secoli del primo millennio e primi secoli del secondo millennio d.C.), si occuparono anch'essi della depressione, influenzati in genere dalle dottrine ippocratico-galeniche. Najab ud din Unhammad (vissuto tra il IX ed il X secolo) descrisse in particolare una forma caratterizzata dal comportamento taciturno e agitato con insonnia e antipatia verso i suoi simili; descrisse inoltre una seconda forma contraddistinta dalla tristezza e dall'ansietà; in entrambi i casi prescriveva norme igienico-dietetiche, bagni e talvolta salassi. Avicenna (vissuto tra il X e l'XI secolo) contrastò l'opinione che la sintomatologia depressiva derivasse dall'influsso di demoni, ritenendola una malattia curabile con cure mediche (prescrisse ad esempio l'iperico a tali pazienti). Del resto lo storico arabo Usama ibn Munqidh, vissuto nel XIII secolo, narrò della disputa tra un medico franco e un medico arabo circa il caso di una donna affetta da "consunzione"; il primo ne avrebbe dato un'interpretazione puramente organica ricorrendo a prescrizioni dietetiche, il secondo ne avrebbe dato invece un'interpretazione demoniaca ricorrendo a pratiche esorcistiche.

Costantino l'Africano, vissuto nell'XI secolo tra il nord-Africa e l'Italia, fu autore del trattato De melanconia, uno dei primi testi medici interamente dedicati alla depressione, nel quale la tradizione greco-romana si fondeva con gli apporti degli autori arabi. Della malattia erano accuratamente descritte la sintomatologia, le differenti forme cliniche e le varie cause; si passava poi ad illustrare il trattamento, prevalentemente di tipo igienico-dietetico (riguardante: la situazione climatico-ambientale, l'alimentazione, il bilancio tra ritenzione e espulsione delle materie organiche, l'attività fisica, il ritmo sonno-veglia, la sfera emotivo-passionale). Venivano comunque considerate anche le terapie farmacologiche, in genere a base di purganti o diaforetici, per espellere rapidamente e in maggior quantità possibile l'atrabile responsabile del quadro morboso; tra i rimedi vegetali erano citati: elleboro, scamonea, cassia, coloquintide, rabarbaro, timo, zafferano, mandorle e pistacchi.

Santa Ildegarda, badessa del monastero di Bingen in Germania, vissuta nel XII secolo, riteneva che la melanconia fosse strettamente collegata al peccato originale e direttamente provocata dal diavolo; contro tale condizione consigliava dei rimedi, considerati espressione della benevolenza divina, tratti dai tre regni della natura (ad esempio, un preparato in cui erano mescolati: sangue, malva, olio d'oliva e aceto).

Nell'Europa medioevale furono a lungo in auge nella cura delle malattie psichiche come di quelle organiche ricette che vantavano prodigiose virtù salutari derivate dalla rarità o preziosità degli ingredienti. Venivano spesso adoperati rimedi o pratiche terapeutiche che traevano la loro buona fama poiché si rifacevano a celebri medici del passato o a santi protettori di una particolare malattia; talvolta poi i farmaci erano prescritti in base a credenze magiche o a supposte influenze astrologiche.

Durante il Rinascimento la condizione depressiva cominciò ad essere considerata in modo diverso rispetto al Medioevo. In particolare il filosofo Marsilio Ficino (1433-1499), come del resto aveva già sostenuto Aristotele, definì il temperamento melanconico e gli accessi di malinconia una caratteristica dell'uomo di genio, versato nelle arti, nelle scienze e nella politica. Secondo il Ficino e il circolo neoplatonico a lui collegato, il malinconico era associato fin dalla nascita a Saturno, pianeta ambivalente capace sia di assicurare genialità e creatività che di causare inerzia ed ebetudine. Già da tempo l'astrologia aveva sostenuto che i vari astri influenzavano la vita di coloro che nascevano sotto il loro segno; così i nati sotto Giove erano sanguigni, i nati sotto Marte collerici, i nati sotto Saturno melanconici. Fino al Rinascimento tuttavia gli artisti e letterati erano associati a Mercurio, pianeta dal moto veloce oltre che divinità protettrice dei traffici, dei commerci e delle scienze; i nati sotto il suo segno erano considerati industriosi e dediti allo studio. A partire da quest'epoca invece il temperamento saturnino soppiantò gradatamente il temperamento mercuriale come prerogativa del genio creatore ed innovatore; contemporaneamente gli artisti cominciarono ad evidenziare o ad enfatizzare gli aspetti melanconici del loro carattere che costituivano una specie di garanzia della loro genialità. Il Ficino, in una sorta di manuale igienico ad uso dei letterati (De vita triplici, 1489), fu prodigo di consigli per superare gli effetti maligni di Saturno: seguire regole igienico-dietetiche, coltivare la musica, ingraziarsi il pianeta Giove così da aggiungere "giovialità" alla malinconia di fondo dell'artista.

Il medico francese Jean Fernel (1486-1557) nella sua classificazione delle malattie mentali distinse tre tipi di melanconia: una forma triste, una forma con licantropia e una forma con eccitazione (mania); fece rientrare nelle melanconia, che imputava ad un danno della sostanza cerebrale, anche i deliri di persecuzione senza febbre e senza agitazione.

Joahnnes Weyer (1515-1588) originario del Brabante, considerò la melanconia la principale affezione di cui soffrivano le persone accusate di stregoneria. Per tale medico molte delle esperienze che le cosiddette streghe raccontavano erano probabilmente frutto della loro immaginazione disturbata più che dell'effettivo intervento del demonio; era perciò raccomandabile farle visitare prima dal medico che dal sacerdote.

André Du Laurens, vissuto dalla metà del secolo XVI al primo decennio del secolo XVII, scrisse un Discours des maladies mélancoliques (1599) e prescrisse ai pazienti prevalentemente regole igienico-dietetiche. Consigliò in particolare l'inalazione di varie essenze odorose e anche la visione di colori vivaci; raccomandò inoltre compagnie e occupazioni piacevoli; non trascurò neppure i farmaci, di solito di origine vegetale.

Timothy Bright (1551-1617) pubblicò nel 1586 A Treatise of Melancholie nel quale sostenne la separazione tra una forma organica imputabile all'atrabile e una forma psichica imputabile ad ansie spirituali; per la prima consigliava per lo più trattamenti dietetici e farmacologici, per la seconda pratiche religiose e psicologiche.

Robert Burton (1577-1640) pubblicò nel 1621 il celebre trattato Anatomy of Melancholie nel quale rifacendosi alla letteratura precedente sull'argomento ne descrisse sintomatologia, tipologia e terapia. In particolare nel libro venne sottolineato il possibile comportamento suicidario dei melanconici e furono illustrate numerose idee deliranti a sfondo depressivo (ad esempio, la convinzione di essere fragile come vetro, pesante come piombo, leggero come piuma, infiammabile come paglia, ecc.). Tra le sostanze di origine vegetale consigliate dal Burton vi furono: il tarassaco, il frassino, il salice, la tamerice, il papavero e l'iperico; non mancarono le prescrizioni di tipo magico come quella di portare un anello ricavato dalla zampa anteriore destra di un asino.

A mostrare l'interesse degli autori e del pubblico colto dell'epoca per l'ampia varietà dei sintomi collegabili alla depressione si possono citare anche le opere: Maladie d'amour ou mélancolie erotique (1612) del frances Jacques Ferrand, Dignotio et cura affectuum melancholicorum (1622) della spagnolo Alphonso de Santa Cruz ed infine Dissertatio medica de nostalgia (1688) dell'elvetico Johannes Hofer.

Tra il XVII e il XVIII comparvero alcune interpretazioni della sintomatologia depressiva che si discostavano dalla tradizionale attribuzione di responsabilità alla bile nera. Thomas Willis (1621-1675), sotto l'influenza delle teorie iatrochimiche, chiamava in causa nella genesi della melanconia un eccesso di salinità del sangue capace di alterare la conformazione stessa del cervello. Thomas Sydenham (1624-1689) sottolineava nell'ipocondria la debolezza del sangue che andava rinforzato con farmaci corroboranti, soprattutto a base di ferro. Hermann Boerhaave (1668-1738), sulla scia delle teorie iatromeccaniche, chiamava in causa un aumento delle componenti oleose del sangue con riduzione dell'apporto ematico al cervello e impoverimento dei secreti nervosi. Frederic Hoffmann (1660-1742) attribuiva la melanconia ad uno spasmo della dura madre con difficoltà per la circolazione del sangue nel cervello. George Cheyne (1671-1743) nel libro The English Malady si soffermava invece sulle cause ambientali dell'ipocondria depressiva (in particolare: il clima delle isole britanniche, umido e pesante, e anche il ritmo di vita delle sue grandi città).

Tuttavia, verso la fine del secolo XVIII, la bile nera manteneva ancora una certa rilevanza nell'interpretazione della sintomatologia depressiva. Così ad esempio Anne-Charles Lorry (1726-1783) distingueva la "melanconia umorale" (caratterizzata dai disturbi digestivi, dovuta all'eccesso di atrabile e trattabile con evacuanti) dalla "melanconia nervosa" (caratterizzata dai fenomeni convulsivi, dovuta alla tensione delle fibre costituenti l'organismo e trattabile con tonici antispastici) e Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808) sosteneva l'esistenza di un "temperamento melanconico", incentrato sul sistema epatico, terreno favorevole per l'instaurarsi della malattia depressiva.

Philippe Pinel (1745-1826) considerò la melanconia come un'idea esclusiva (monomania) consistente in un falso giudizio del malato sulla condizione del suo corpo per cui credeva a torto di essere in pericolo. Jean-Etienne-Dominique Esquirolle (1772-1840) coniò per la depressione il termine "lipemania", definita una "monomania caratterizzata da un delirio parziale e da una passione triste ed oppressiva", allontanando così dalla malattia ogni riferimento alla bile nera.

Gli alienisti dei primi decenni del secolo XIX, sotto l'influenza dalla "psichiatria romantica" che imputava ad uno squilibrio dell'anima tutte le malattie mentali, fecero ricorso anche nella cura della depressione al cosiddetto "trattamento morale", consistente nel tentativo di contrastare e far scomparire il nucleo delirante individuato nel paziente con un atteggiamento pedagogico. Si ricorreva ad esempio al metodo della "frode pietosa" (il terapeuta cioè carpiva la fiducia del paziente, fingendo inizialmente di condividerne le convinzioni per poi correggerle più tardi); altrimenti si procuravano ai malati delle sensazioni piacevoli, talora alternate a sensazioni spiacevoli, così che le prime fossero esaltate dalle seconde, oppure si cercava di suscitare nei medesimi delle emozioni improvvise, cogliendoli di sorpresa con stimoli sonori o visivi.

Comunque, ancora nella prima metà dell'Ottocento per la melanconia e per l'ipocondria, nonostante il cambiamento dell'interpretazione patogenetica, si continuavano a prescrivere ai pazienti alcuni farmaci avvalorati da una lunga tradizione quali purganti, fluidificanti e digestivi; erano inoltre impiegate con una certa frequenza le terapie fisiche come l'immersione in acqua, la doccia o la sedia rotatoria.

Verso la metà del secolo XIX, in corrispondenza del progressivo spostamento della psichiatria dal campo delle speculazioni filosofiche a quello della ricerca scientifica (soprattutto in ambito neuroanatomico e neurofisiologico), si cominciò a interpretare la malattia depressiva come un disturbo organico del cervello. Così, ad esempio, Théodore Hermann Meynert (1833-1892) ipotizzò nella melanconia un deficit di energia cerebrale collegato di solito all'ischemia. Altri autori della stessa epoca chiamarono invece in causa, basandosi su reperti autoptici in pazienti affetti da depressione, differenti cause di alterata funzione del cervello quali anemia, iperemia o edema.

Jean-Pierre Falret (1794-1870) notò nei pazienti il frequente passaggio dalla depressione alla mania, indicando col termine "follia circolare" la malattia caratterizzata dalla successione delle due polarità opposte dell'umore; per quanto riguarda il comportamento depressivo si interessò anche del suicidio. Simili osservazioni sull'alternanza depressione-mania compirono anche Jules Baillarger (1809-1890) che descrisse una "follia a doppia forma" e Karl Ludwig Kalbaum (1828-1892) che parlò nei suoi scritti di Vesania typica circularis.

Nella seconda metà dell'Ottocento per quanto riguarda il trattamento della depressione non si evidenziarono particolari progressi rispetto all'epoca immediatamente precedente. Venivano usati in terapia accanto a medicamenti già noti (come arsenico, stricnina, strofanto, ecc.) anche nuovi farmaci, come gli anestetici o i primi ipnotici prodotti sul finire del secolo dall'industria farmaceutica. Vennero utilizzate anche alcune tecniche apparse nel frattempo in medicina quali: il magnetismo animale, l'ipnotismo e l'elettroterapia. Molti alienisti tuttavia tenevano ancora nella cura di depressi e ipocondriaci un atteggiamento attendistico, limitandosi spesso a norme preventive o coadiuvanti e prescrivendo ai pazienti più agiati viaggi di piacere oppure soggiorni nelle stazioni termali.

Emil Kraepelin (1856-1926) nella sua classificazione delle malattie mentali associò mania e depressione nella "psicosi maniaco-depressiva", suddivisibile in tre espressioni sintomatologiche (bipolare, unipolare e mista); considerò invece a parte la "melanconia evolutiva", a prognosi più sfavorevole. In seguito Ernst Kretschmer (1888-1964) definì col termine "personalità cicloide" i vari temperamenti affettivi che predisponevano alla psicosi maniaco-depressiva. Il profilo psicologico del cosiddetto "tipus melancholicus" venne descritto qualche decennio più tardi dal Tellembach.

Sigmund Freud (1856-1939) elaborò un'interpretazione psicodinamica della depressione; in Lutto e Melanconia (1917) sottolineò come tali due condizioni fossero accomunate dalla perdita di un oggetto a forte risonanza emotiva con introiezione di irrisolti sentimenti negativi. Melanie Klein (1882-1960) considerò l'esperienza depressiva come una fase fondamentale nello sviluppo del bambino.

La psicoterapia (dalla psicoanalisi alla terapia comportamentale) si propose nella prima metà del Novecento come un trattamento innovativo nella cura della depressione considerando anche gli scarsi risultati ottenuti dalla contemporanea psichiatria biologica.

Attorno alla metà del secolo XX cominciarono ad essere usati due trattamenti che si rilevarono particolarmente efficaci nei confronti della depressione: la terapia elettroconvulsivante e gli psicofarmaci. La prima venne introdotta in psichiatria nel 1938 da Ugo Cerletti (1877-1963) diffondendosi ben presto nei principali paesi occidentali. Per quanto riguarda i secondi, verso la fine degli anni '50 vennero introdotti in terapia gli "antidepressivi triciclici" e i cosiddetti "anti-MAO" (inibitori delle amino-ossidasi); seguirono la scoperta delle benzodiazepine, indicati nella depressione ansiosa, l'utilizzo del litio nella prevenzione della psicosi maniaco-depressiva e infine, in anni più recenti, la comparsa degli antidepressivi di seconda generazione ("atipici" e "serotoninergici"). Accanto alle terapie psicofarmacologiche si svilupparono negli ultimi decenni del Novecento varie teorie biochimiche sulla genesi della depressione che evidenziavano il ruolo determinante dei neurotrasmettitori.

La melanconia passava così nel giro di qualche migliaio d'anni dall'influenza della nefasta bile nera, a quella del sinistro pianeta Saturno a quella infine delle, tuttora in parte oscure, leggi della neuroscienza.

Prof. Massimo Aliverti
Neuropsichiatra,
Professore di Storia della Medicina
 all'Università degli Studi di Milano-Bicocca,
Docente di Storia della Psichiatria all'Università degli Studi di Milano.


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