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24 gen 2011






Il fegato nel Medioevo: le acquisizioni raggiunte e l’inquadramento dottrinario della medicina salernitana
di Giuseppe Lauriello


Nei primi secoli dopo il Mille tra i centri di cultura che brillano in Europa v’è Salerno con la sua celebre Scuola di medicina. In questa città, nonostante l’età altomedievale abbia imbarbarito l’Europa, la tradizione classica non è mai tramontata: si studiano gli antichi codici, Costantino Africano con le sue celebri traduzioni dall’arabo, dal greco, dall’ebraico, condotte nel ritiro di Montecassino, accosta il mondo occidentale ad opere e ad acquisizioni fino a questo momento sconosciute, si segue l’indirizzo pratico e sostanziale delle scuole bizantine, eredi della migliore classicità scientifica. In questi secoli la Scuola medica raggiunge l’apogeo della sua grandezza e della sua fama. L’osservazione obiettiva e razionale si impone all’empirismo; si dà assetto ad una metodologia scientifica impostata sullo studio oculato dei segni clinici e su un rigoroso controllo della tecnica semeiologica ed anamnestica.

La quotidiana pratica con i malati e con gli studenti sono stimolo per la redazione di opere di medicina, che oggi rappresentano veri monumenti di storia per la medicina stessa. In esse sono raccolte preziose esperienze di etiologia e di diagnosi nonché una vasta conoscenza farmacologica desunta da erbari e confortata dal diuturno lavoro, su cui schiere di allievi e generazioni di medici apprendono l’arte, corroborandola con il proprio talento e con i propri successi professionali.

Alla luce di tali premesse rivolgiamo la nostra attenzione al fegato.

Cultori di studi anatomici, e quindi descrittori degli aspetti morfologici del fegato, a Salerno, sono maestro Cofone e un anonimo autore di una Demonstratio anatomica di scuola salernitana.

Magister Cofone è un esponente di un’illustre famiglia di medici, fiorita intorno al 1100. Il suo trattato di anatomia ha goduto di larga fama nei secoli scorsi, anche se i rilievi sono desunti da dissezioni praticate sul maiale ed il titolo infatti è illuminante: Anatomia porci. Tale procedura rappresenta una via obbligata, essendo all’epoca vietata o comunque ritenuta riprovevole l’autopsia su cadavere ed essendo il maiale l’animale anatomicamente più affine all’uomo.

La prima pubblicazione a stampa del manoscritto è curata da un valente chirurgo napoletano, Marco Aurelio Severino (1580-1656), che la inserisce in una sua opera anatomica di successo, la Zootomia democritea, apparsa nel 1645. L’opera peraltro viene reinserita dallo storico medico (anche egli napoletano) Salvatore De Renzi nella Collectio Salernitana, una raccolta di scritti di medicina salernitana pubblicata nel 1852.

La Demonstratio anatomica, opera di autore ignoto, è frutto di un ritrovamento d’archivio, essendo stata rinvenuta dal medico erudito, prof Teodoro Henschel nella biblioteca Maria Maddalena di Breslavia in Germania, oggi in Polonia con il nome di Wroclaw.

Questi due anatomisti descrivono il fegato di forma lunare, allocato a destra sotto il diaframma, la cui parte superiore convessa chiamano gibbus, mentre la parte inferiore concava è indicata come “porta del fegato”, che è poi l’ilo. Osservano che l’organo è rivestito di due tuniche, una, verosimilmente la glissoniana, è chiamata spinach, e l’altra, esterna, a forma di rete, che appellano zirbus, evidentemente l’epiploon (così detto in quanto gli antichi dissettori lo vedevano quasi navigare sugli organi addominali: epì-pleo = navigo sopra), che aggancia il viscere al diaframma e s’interseca con lo spinach. Ritengono inoltre il fegato costituito da cinque lobi, ma non sempre separati fra loro.

Dice Cofone:



Il fegato è posto alla destra dell’ipocondrio, formato a guisa di sigma greco. Nella parte superiore è gibboso con alcune membrane. È altresì concavo nella parte che si congiunge allo stomaco, il cui fondo abbraccia il fegato con i suoi cinque lobi. Nel lobo più grande v’è la cistifellea (cistis fellis), che sembra avere un unico canale, ma in realtà sono due congiunti in uno. Il canale superiore più grande è connesso al fegato, mentre quello più piccolo si dirige verso l’intestino dove riversa la bile superflua per il funzionamento del ventre.

Collegato al fegato è una vescichetta, la cistis fellis, mentre l’organo è rivestito da due pannicoli, zirbus e siphac, implicati fra loro come rete. Quello più consistente è detto zirbus, quello più sottile siphac. Le regioni che accolgono fegato e milza sono dette ipocondri (da ipo e condros sotto le cartilagini).

Secondo Costantino Africano, monaco cassinense, salernitano d’adozione, cartaginese di nascita, robusto traduttore di opere di medicina dall’arabo in latino, al fegato fanno capo due grosse vene, una che entra, detta “porta”, perché penetra nel fegato attraverso la sua porta d’ingresso (l’ilo) e l’altra che esce, la “cava”, che origina dalla convessità del fegato ed è formata dalla confluenza di più vene epatiche, quasi nascesse dalla raccolta delle sue radici. Le vene che raggiungono il corpo umano hanno origine dalla cava.

Abbiamo detto delle conoscenze anatomiche, passiamo agli aspetti funzionali.

La fisiologia della medicina salernitana, che è poi quella della medicina medievale, poggia sul sistema costruito da Galeno nel II sec., che a sua volta rappresenta la sintesi dell’antico pensiero. Secondo tale dottrina il fegato è il centro d’origine delle vene, fons venarum, cosi come il cuore rappresenta l’origine delle arterie. Sussistono nell’organismo tre elementi principali: gli alimenti, l’aria e il sangue. Gli alimenti, introdotti attraverso il tubo digerente, vengono raccolti dall’intestino come “chilo” e attraverso la vena “porta” convogliati al fegato. Qui avviene l’elaborazione del “chilo” in sangue venoso, che si impregna di “spirito naturale” (pneuma fisicòn) e così arricchito, viene spinto dal fegato con un movimento oscillatorio di va e vieni a tutte le parti del corpo attraverso le vene. La vena cava, ritenuta ramo dell’epatica, si diparte dal fegato, entra nel cuore destro trasportandovi il sangue proveniente dal fegato.

Secondo l’anonimo estensore della Demonstratio i cibi, triturati nello stomaco, vengono successivamente tramutati nel fegato in umori (in hepate mutatur in humore), che li purifica (excoquitur humores hepar) e attraverso le vene meseraiche li invia come fluido nutritivo a tutto il corpo (toto corporis praebeant nutrimentum). Questo nutrimento è chiamato “chimo” (generatur in hepate chimus). Per inciso, dopo Salerno, a proposito del fegato, non è stato più detto nulla di nuovo sulla funzione epatica fino al XIX sec. e, precisamente, fino alle ricerche di Claude Bernard e della sua Scuola.

Il fegato, peraltro, è anche produttore di bile, bile rossa, uno degli umori fondamentali (gli altri sono: il sangue, il flegma e la bile nera prodotta dalla milza). La bile rossa, formatasi nel fegato, è raccolta nella vescichetta biliare e convogliata nell’intestino ove interviene a favorire la digestione degli alimenti e ad agevolare l’eliminazione dei residui con le feci e le urine.

A questo punto ritengo interessante una breve digressione etimologica.

La parola “fegato” viene a sostituire il medievale hepar e il latino classico iecur.

Iecur è voce latina classica, di Cicerone e di Orazio, che indica il viscere addominale. È mutuata dall’aruspicina etrusca, che a sua volta la ricava dal sanscrito: iakar.

Hepar è voce latina tarda, del IV-V sec d.C., impiegata dai medici della bassa latinità e durante il medioevo, voce derivata dall’omonimo termine greco bizantino.

“Fegato” proviene dal latino ficatum, una voce popolare che indicava l’animale domestico ingrassato con pasti di fichi come leccornia gastronomica. Il termine passò poi ad indicare il fegato grasso e, successivamente, scomparso il latino iecur, si consolidò nel significato attuale di fegato, prima come fecàtum e poi come fècatum.

Secondo Matteo Plateario, membro di un’altra illustre famiglia di medici salernitani fiorita nel XII secolo, il fegato può ammalarsi o in seguito ad un alterato deflusso della bile o per degenerazione del parenchima epatico.

Nell’ostruzione dei dotti biliari, non potendo essere la bile purgata, si rimescolerà nel sangue, dando origine a febbre ed itterizia, itterizia che, a volte, viene descritta come sintomo, a volte come, processo morboso autonomo. Se l’ostruzione si verifica a livello del canale che porta all’intestino (coledoco), insorge febbre suppurativa (biliare), itterizia, le feci si scolorano e le urine si caricano di bile. L’itterizia è anche chiamata “morbo regio” per il colore dorato che acquista la cute dell’itterico.

Da grandi osservatori questi medici sanno distinguere e descrivere i vari aspetti cromatici dell’itterizia, dallo zafferano, al rossastro, al bruno e da tali rilievi costruiscono le vane entità cliniche di compromissione epatica.

Per quanto riguarda i processi patologici che investono direttamente il fegato sono descritti gli “ascessi epatici”, che si formano o nella parte alta, nel gibbus o in quella inferiore del viscere. Si accompagnano a febbre alta, continua, dolore vivo all’ipocondrio destro, occhi color zafferano, cute itterica e urine rossastre oppure possono presentarsi con febbricola (febris lenta), senso di peso all’ipocondrio, urine cariche, ma senza ittero.

Lo svuotamento dell’ascesso è ottenuto mediante la cauterizzazione della parete addominale fino alla formazione di un escara, che viene perforata da un ago allo scopo di far uscire il pus.

È nota ai clinici peraltro la “cirrosi epatica”, detta da Petroncello: scirosin, riferita come una sclerosi del fegato, che si presenta duro alla palpazione, laonde è anche chiamata duritia hepatis. Ben conosciuta l’“ascite” ovvero l’“idropisia”, malattia che coinvolge l’intero organismo (egritudine totius corporis) ritenuta conseguenza di una profonda alterazione del fegato (de infermitate hepatis nascitur ydropisia), indotta da una sovrabbondanza di umori prodottasi nel suo interno.

Il trattamento dell’ascite è condotto con paracentesi, che si attua traforando la parete addominale al di sotto dell’ombelico con un bisturi e applicando nel foro prodotto una cannula, che viene tolta a operazione conclusa; la pelle, rilasciandosi, richiuderà spontaneamente la breccia. È raccomandato lo svuotamento lento del liquido ascitico per evitare l’eventuale collasso del paziente.

Il trattamento medico delle malattie epatiche si avvale di una ricca farmacopea vegetale, piante medicinali di cui il Regimen Sanitatis salernitano ci offre una messe di informazioni.

Un’analisi dettagliata delle procedure di intervento terapeutico richiederebbe un tempo esageratamente superiore a quello assegnato alla relazione per cui si sorvola

Basterà dire che nelle malattie biliari ampio è l’uso dei colagoghi come il mirabolano (terminalia chebula), il titimallo (euphorbia nista), l’aloe socotrina. Nelle malattie di fegato i rimedi sono molteplici, tutti tesi a correggere l’eccessiva produzione di umori e a favorire l’eliminazione di quelli cattivi; basta accennare alla verbena, al cinnamomo, alla noce moscata e via via alla cassia, uva passa, capperi, rabarbaro, ecc.

Cito qualche aforisma, di cui è ricco e ridondante il Regimen Sanitatis:

«Il cappero apre le ostruzioni del fegato e della milza e allontana i superflui umori»;

«L’uva senza semi e senza buccia seda l’ardore della bile e del fegato»;

«L’aloe giova all’itterico e risana il fegato»;

«Il rabarbaro,curando il fegato,frena le visceri rilasciate»;

«Il finocchio scaccia le sofferenze del polmone e del fegato».

Non manca naturalmente l’accenno al clistere che «scaccia le flatulenze nella colica ed, espellendo le feci, calma le sofferenze del fegato».

Voglio concludere con la chirurgia.

Ruggero di Frugardo è stato massimo chirurgo salernitano e annoveratore della chirurgia nell’alveo della medicina scientifica, fiorito agli inizi del XIII sec. Nel suo trattato di clinica e tecnica operatoria, a proposito del fegato, descrive un unico intervento, quello della riposizione in sede del viscere, quando fuoriesce da una ferita stretta provocata da un evento traumatico:

Il paziente giaccia supino e ben disteso. Dal lato del capo il medico afferri trasversalmente la parete addominale, mentre dal lato dei piedi un assistente faccia lo stesso in simultaneità. Tenendo ferma la cute, ambedue con un rapido movimento sollevino il corpo: una improvvisa inspirazione d’aria per la sua stessa pressione costringerà il fegato a rientrare in situ.

Tutto qui. Per il resto il nostro è oltremodo prudente, anzi ammonisce, forte anche di esperienze altrui:

Una ferita al fegato è fuori dalle nostre cure, anzi, per evitare che la gente ci possa ritenere responsabili della morte dei parenti, è bene declinare ogni invito a intervenire chirurgicamente.

Come si vede, stessi problemi, stesse considerazioni, ieri come oggi.

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